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EDIPO E LA SFINGE

Nel documento Il libro unico di Roberto Calasso (pagine 160-167)

FRA LA MENTE UMANA E L’UNIVERSO

3. EDIPO E LA SFINGE

L’interrogazione sulla natura della conoscenza corrisponde sempre, per l’uomo, a un dubbio identitario, quasi seguisse l’esempio mitico di Prajāpati, costantemente alle prese con un tormentoso interrogativo su se stesso. Questo tema fondamentale si intreccia, nell’opera calassiana, alla ricorrente riflessione sulla figura di Edipo. A interessare in maniera particolare Calasso, nella storia dell’eroe tebano, è il «peccato infinito» che riscontra in lui sulla scia di Hölderlin: quello di «interpretare infinitamente». Calasso vi dedica alcuni passaggi del già citato saggio su Nietzsche:

Edipo pecca perché «interpreta troppo infinitamente», come se egli per primo avesse sentito l’esaltazione provocata da Nietzsche di fronte allo spalancarsi, da lui stesso provocato, di un mondo passibile di interpretazioni infinite.71

Il riferimento è al frammento 374 della Gaia scienza, in cui il filosofo contempla la possibilità ineliminabile che il mondo si presti a interpretazioni infinite.72 Questa riflessione proietta sull’indagine conoscitiva l’ombra di un problema più vasto, quello del nostro rapporto “simulativo” con la realtà, che Nietzsche ha avuto il merito di mettere in evidenza:

Noi non siamo fatti per sapere ma per agire come se sapessimo – questo come se è la garanzia necessaria del pensiero, ma una garanzia che è sempre dovuta restare inconsapevole perché è insopportabile riconoscerla, per la bête philosophe essa è la paralisi e la derisione. Nietzsche sceglie di porre quel come se al centro dell’azione

71 QG, pp. 46-47.

72 Cfr. F.NIETZSCHE, Idilli di Messina, La Gaia Scienza e Frammenti postumi…, cit.

«Quando a un crocevia uccisi un vecchio irascibile e vanaglorioso seppi, ancora prima di averlo ucciso, che si trattava di mio padre, chi altri avrei potuto uccidere se non lui... in realtà un altro uomo l’ho ucciso, ma fu più tardi, un tipo insignificante, un ufficiale della guardia di cui ho scordato perfino il nome».

«C’è ancora qualcun altro che hai ucciso» intervenne la Pizia.

«E chi?» domandò Edipo in tono di meraviglia. «La Sfinge» rispose Pannychis.

e si impone che l’azione ne venga esaltata – perché ora solamente ha perso ogni riferimento, appare nella sua forma pura, un aggregato di segni che non sanno, non possono sapere, non vogliono sapere della loro origine. Con quest’ultimo passaggio alla volontà senza fondamento del tutto, il mondo è tornato a essere un enigma, un enigma composto anche dalle sue varie soluzioni.73

La questione dell’enigma è di estrema importanza, e Calasso la recupera più di vent’anni dopo nelle Nozze di Cadmo e Armonia:

I Greci furono attirati dall’enigma. Ma cos’è l’enigma? Una formulazione misteriosa, si dice. Eppure questo non basta a definire l’enigma. Occorre aggiungere che la risposta all’enigma è anch’essa misteriosa. Questo distingue per noi l’enigma dal problema, anche se alle origini greche le due parole si sovrapponevano.74

È un nodo evidentemente fondamentale, tanto che Calasso continua a rifletterci, con sorprendente puntualità, due decenni dopo, nella Folie Baudelaire:

chi pensa è costretto a commettere un «peccato infinito» – quello che secondo Hölderlin aveva avuto origine in Edipo: interpretare infinitamente, senza un primum e senza uno sbocco, in un moto incessante, abrupto, frantumato e ricorsivo. Il vero

moderno che prende forma in Baudelaire è questa caccia alle immagini, senza inizio

né fine, pungolata dal «demone dell’analogia».75

Su che cosa si regge questo paragone? Svariate sono le prospettive da cui possiamo accostarci alla storia di Edipo, e diversi gli aspetti che essa chiama in causa. Innanzitutto, su Edipo si riversa la forza distruttiva della domanda a cui, solo fra i molti, riesce a rispondere. L’indovinello della Sfinge, interrogazione enigmatica per antonomasia, dimostra la potenza misteriosa che distingue l’enigma dal problema. La soluzione al quesito sull’essere che, con una sola voce, può essere alternativamente bipede, tripode e quadrupede, spalanca dietro di sé il vortice di una complessità ben più elevata: l’uomo è infatti un mistero molto più oscuro di qualsiasi domanda posta dal mostro che tormenta Tebe. Edipo è dunque per Calasso un simbolo della condizione umana, costretto a interpretare continuamente la natura delle cose, pagando il prezzo, altissimo, della sua indagine più difficile: quella su se stesso. La potenza dell’enigma ha però una portata più

73 QG, p. 40.

74 NCA, p. 385. 75 FB, p. 27.

vasta: se il soggetto appartiene di diritto al «circolo dei segni»,76 la storia di Edipo e del suo scacco alla Sfinge ci pone di fronte a una inquietante rivelazione sul senso della significazione tout court. In un certo modo, come ha scritto Giorgio Agamben, la Sfinge ci invita a riflettere sul “disagio” a cui ci costringe il simbolico, un disagio di cui parla Hegel nelle sue Lezioni di estetica (1835). Tale imbarazzo ci viene dal difficile riconoscimento della lotta tra forma e significato: capiamo infatti che il simbolo è, al tempo stesso, il luogo in cui il significato e la sua espressione si incontrano e una prova della dualità di manifestante e cosa manifestata,77 ineludibile e implicita in un’idea di verità che si svela, verità come non nascondimento (ἀλήθεια). Non possiamo mai perdere di vista la natura ambigua del segno e l’arbitrarietà che sta dietro alla nostra accettazione (forzosa e convenzionale) della significazione. Agamben vede nell’enigma della Sfinge la perfetta espressione di un occultamento della “frattura della presenza”, un mascheramento, cioè, della distanza fra significante e significato:

L’origine di questa dissimulazione della frattura della presenza nell’unità espressiva del significante e del significato è adombrata presso i Greci in un mitologema che ha esercitato un fascino particolare sulla nostra cultura. […] L’insegnamento liberatore di Edipo è che ciò che vi è di più inquietante e di tremendo nell’enigma scompare immediatamente se si riconduce il suo dire alla trasparenza del rapporto fra il significato e la sua forma al quale solo in apparenza esso riesce a sfuggire.78

In questa problematicità profonda giace la figura dell’eroe di Tebe, che per Calasso diventa anche emblema dell’illusione propria dell’uomo moderno di afferrare, con la scienza, una verità che costituzionalmente gli sfugge:

Con Edipo, l’uccisione del mostro si scinde: da una parte, un’uccisione perfettamente consapevole, quella compiuta con la parola che distrugge la Sfinge; dall’altra, un’uccisione perfettamente inconsapevole, quella con cui Edipo elimina Laio in una rissa fra viaggiatori. C’è un rovescio nefasto della lucidità che aderisce alla coscienza, da allora. È quella la vendetta del mostro. Il mostro può perdonare chi lo ha ucciso. Ma non perdonerà mai chi non ha voluto toccarlo.79

76 Cfr. nota 33.

77 Cfr. G.AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 2011, p.

160.

78 Ivi, p. 163. 79 NCA, p. 385.

Edipo è, da un lato, il simbolo di un’intelligenza operativa, al servizio della risoluzione di un problema: il suo ingegno gli serve a uccidere la Sfinge. Dall’altro lato c’è però il risvolto tragico della sua storia, che sta in un’altra uccisione, quella del padre, e risponde a un’intelligenza diversa, cosmica e fatale. Cosa significa che il mostro si vendica di chi non ha voluto toccarlo? Che esso si rifà su chi si è illuso di poterlo annientare dando una risposta univoca, senza entrare in contatto con la mostruosità. Risuonano qui le parole di Al di là del bene e del male: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te».80 Non è possibile rimuovere la realtà nascosta che il simbolo della Sfinge racchiude in sé. Eliminando il mostro, l’eroe deve rendersi capace di farsi carico della sapienza che il simbolo custodiva al suo interno. In un altro saggio sull’argomento, Giorgio Agamben ironizza sul fatto che «come in materia di godimento è forse il perverso che ha qualcosa da insegnare all’analista, così è possibile che, dopo tutto, in materia di simboli, la Sfinge abbia qualcosa da insegnare ad Edipo».81 Sulla stessa linea questa considerazione di Calasso contenuta nelle Nozze di Cadmo e Armonia:

Tutt’altra è la natura del mostro. Il mostro aspetta vicino alla sorgente. Il mostro è la sorgente. Non ha bisogno dell’eroe. È l’eroe che ha bisogno di lui per esistere, perché la sua potenza sarà protetta dal mostro e al mostro va strappata. Quando l’eroe affronta il mostro, non ha ancora potere, né sapienza. Il mostro è il suo padre segreto, che lo investirà di un potere e di una sapienza che sono soltanto di un singolo, e soltanto il mostro gli può trasmettere.82

Anche per questo motivo l’enigma pone di fronte a un pericolo mortale, che l’uccisione della Sfinge attira invece che scongiurare: è la manifestazione di un perenne e insolvibile scollamento fra la realtà e le sue manifestazioni, a cui noi dobbiamo sopperire con la simulazione, con il come se. Per utilizzare ancora una volta le parole di Agamben:

Come il labirinto, come la Gorgona e come la Sfinge che lo proferisce, l’enigma appartiene infatti alla sfera dell’apotropaico, cioè di una potenza protettrice che

80 F.NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, nota introduttiva di Giorgio Colli, versione di Ferruccio

Masini, Milano, Adelphi, 1968 e 1977.

81 G.AGAMBEN, Stanze…, cit., p. 176. 82 NCA, p. 382.

respinge l’inquietante attirandolo e assumendolo dentro di sé. 83

Possiamo inserire tali riflessioni nel magma delle conseguenze della teoria semiotica e del dibattito sui “limiti dell’interpretazione” degli anni Settanta, su cui Umberto Eco si interrogava in un saggio del 1989.84 L’Edipo calassiano, infatti, può essere visto anche come un simbolo di «semiosi ermetica», una tendenza all’infinita decodifica dei testi in virtù della loro natura di segni. Se un segno rimanda sempre a un altro, questo continuo slittare del significato – potremmo dire, utilizzando un’espressione calassiana, «di simulacro in simulacro» – genera una vertigine interpretativa in cui l’uomo può precipitare senza fine. Nelle sue considerazioni sulle derive della semiosi ermetica e sulla possibilità della semiosi illimitata, sulla scorta dei lavori del padre della semiotica Charles Sanders Pierce, Eco sembra riferirsi al problema dell’«interpretazione infinita». Scrive infatti:

La semiosi ermetica [...] assume che qualsiasi cosa – ammesso che venga isolato il nesso retorico giusto – può rimandare a qualsiasi altra cosa, proprio perché c’è un soggetto trascendentale forte, l’Uno neoplatonico. Esso, essendo il principio della contraddizione universale, il luogo della Coincidentia Oppositorum, estraneo ad ogni possibile determinazione e dunque, contemporaneamente, Tutto, Nulla, e Fonte Indicibile di Ogni Cosa, fa sì che ogni cosa si connetta ad ogni altra grazie ad una ragnatela labirintica di mutui riferimenti.85

Il semiologo però, nel consueto tentativo di dare forma al caos, giunge a conclusioni molto distanti da quelle calassiane:

La semiosi è virtualmente illimitata ma i nostri scopi cognitivi organizzano, incorniciano e riducono questa serie indeterminata e infinita di possibilità. Nel corso di un processo semiosico ci interessa sapere solo ciò che è rilevante in funzione di un determinato universo di discorso.86

Senza voler indugiare troppo a lungo su questo tema, che sconfinerebbe la portata di questa ricerca, volevo sottolineare che anche la figura di Edipo, così come dipinta da Calasso nel suo «infinito interpretare», racchiude in sé un universo di riflessioni che

83 G.AGAMBEN, Stanze…, cit., p. 164.

84 Cfr. UMBERTO ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990. 85 Ivi, p. 326.

animano vivacemente il dibattito filosofico a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Dal post-strutturalismo in avanti, com’è noto, le discipline umanistiche – e non solo – hanno continuato senza requie a interrogarsi sulle limitazioni dei processi ermeneutici, in un discorso che, centrale nel postmoderno, rimane di estremo interesse tutt’oggi. Un filosofo come Paolo Virno, per esempio, ha dedicato un volume alla questione in tempi relativamente recenti: «il regresso all’infinito, che in logica segnala il fallimento o l’incompletezza della dimostrazione», – scrive – «è innanzitutto una possibilità permanente cui è esposta l’esistenza del primate superiore denominato Homo sapiens».87 Secondo Agamben, la questione non può essere accantonata se non facendo torto alla più genuina vocazione dell’inchiesta semiologica:

Ogni semiologia che ometta di chiedersi perché la barriera che fonda la possibilità del significare sia essa stessa resistente alla significazione, falsifica per ciò stesso la sua intenzione più autentica.88

Chiarita dunque la natura enigmatica del mondo, presupposto indispensabile per afferrare la concezione della mente di Calasso, si spiega anche il principio gnoseologico espresso in Ka: «la conoscenza ultima non può manifestarsi se non per enigmi».89 Nel mondo vedico, infatti, Calasso trova, una volta di più, la visione più congeniale per porre le grandi questioni relative alla mente:

In un certo modo, l’assolutismo vedico della mente è molto più pronto ad accogliere un dubbio radicale su se stesso di quanto lo sia l’empirismo della scienza, la quale offre sempre i suoi risultati – per quanto provvisori e perfettibili – come una trascrizione verificata (quindi vera) di ciò che è.90

Un’altra significativa metafora per l’indagine conoscitiva è quella della caccia, tema centrale del Cacciatore celeste, che ha però nei volumi precedenti le sue premesse. La caccia è una rappresentazione fedele all’idea di investigazione di Calasso innanzitutto per la sua pericolosità, che, similmente alla sfida di Edipo con il mostro, mette a confronto l’uomo con l’alterità bestiale:

87 PAOLO VIRNO, E così via all’infinito. Logica e antropologia, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. 13. 88 G. AGAMBEN, Stanze…, cit., p. 162.

89 Ka, p. 170. 90 A, p. 427.

Sin da Platone, caccia e conoscenza sono termini che si inseguono e si sovrappongono. Implicito, nella connessione, è un certo carattere assassino del conoscere, che nel raggiungere il suo oggetto può ucciderlo.91

In secondo luogo, la caccia rappresenta per Calasso un passaggio della scala evolutiva estremamente affascinante, quello in cui l’uomo smise di essere terrorizzato e succube degli animali, e cominciò a ucciderli imitandoli (sostituendo cioè zanne e artigli con le armi che si fabbricava). Quello che interessa a Calasso è la rivoluzione che questo comporta in termini psichici, soprattutto in relazione alle modalità della mente che entrano in gioco per permettere un simile stravolgimento di abitudini. La caccia, infatti, diventa il modello di molte altre operazioni a cui la nostra mente ci sottopone:

Come un tempo l’animale della foresta, l’invisibile è la preda che la liturgia insegna a cacciare, facendogli la posta, spiandolo, afferrandolo. E finalmente uccidendolo, come accadeva nella caccia e ora si ripete negli atti del sacrificio.92

Per affrontare la questione, tuttavia, è necessario rivolgerci a uno degli snodi più significativi del discorso calassiano sulla mente, la dicotomia fra analogico e digitale.

91 CC, p. 49.

Nel documento Il libro unico di Roberto Calasso (pagine 160-167)