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L’«OPERA IN CORSO»

Nel documento Il libro unico di Roberto Calasso (pagine 39-68)

Circoscritto il concetto di letteratura assoluta, propongo ora di verificare quanto risulti utile a un’indagine sulla natura della “narrativa” calassiana. L’uso di questo termine potrà destare qualche perplessità nel lettore di Calasso, ed è quindi opportuno spiegare in che senso mi accingo qui a utilizzarlo. È lo stesso autore, in primo luogo, a riferirsi ai suoi libri come a forme narrative, in un’intervista che chiarisce molti aspetti dell’«opera in corso»:

No, I would never use the wordnovel, except forL’impuro folle, but I would use narrative. They are narratives. What is decisive is the pace of a book,il passo – the

pace and the fact that what dominates is the story, not the theory about the story. The story is the most important element and itimplies all the theory.105

È innegabile, infatti, che l’istanza narrativa sia presente in tutte le opere di Calasso, a partire dalla Rovina di Kasch, che prende l’avvio con uno scenario narrativo per antonomasia, un mito eziologico:

In origine le montagne avevano grandi ali. Volavano per il cielo e si fermavano sulla terra, seguendo il loro piacere. Allora la terra tremava e vacillava. Indra recise le ali alle montagne. Fissò le montagne alla terra per renderla stabile. Le ali diventarono nubi. Da allora le nubi si raccolgono intorno alle cime.106

Similmente, in tutte le opere di Calasso si potrà osservare che il filo rosso della narrazione tiene insieme testi di natura composita, in cui una miscellanea di citazioni

105 Dichiarazione contenuta nella già citata intervista L.AZAM ZANGANEH, Roberto Calasso, The Art of

Fiction, cit., p. 127: «no, non userei mai la parola romanzo, tranne che per L’impuro folle, ma userei la

parola narrazione. Sono narrazioni. Ciò che è determinante è il passo di un racconto, il passo – il passo e il fatto che a dominare sia il racconto, non la teoria sul racconto. Il racconto è l’elemento più importante e

implica tutte le teorie» (traduzione mia).

106 RK, p. 11. Corsivo del testo.

Comunque io non smetto mai di fare una sola e unica cosa, di leggere un solo e unico libro, libro infinito, perpetuo, del mondo e della vita, che nessuno legge sino in fondo, che i più saggi decifrano in numerose pagine.

letterarie e non, brani di invenzione romanzesca, riscritture di miti, ampi stralci di critica letteraria e di saggistica si susseguono in maniera imprevedibile. A breve vedrò di delineare in maniera più precisa le caratteristiche fondamentali di queste insolite architetture narrative. Prima di farlo, vorrei però concentrare l’attenzione sull’unitarietà dell’opera di Calasso, partendo dal presupposto che, come accennato, egli la concepisce come un continuum, sviluppato nel tempo e composto da un numero ormai considerevole di volumi. Utilizzerei per definire questo insieme organico l’espressione «Libro Unico»; essa è volutamente ambigua, riprendendo quella usata da Calasso per indicare i volumi scelti da Adelphi per la pubblicazione.107 Tale ambivalenza – «libro unico» come “opera singola divisa in più volumi” e «libro unico» come “libro che si inserisce nel grande

serpente108 Adelphi per consonanza di forme o contenuti” – mi sembra riassumere in

modo appropriato la doppia natura, di scrittore e editore, di Roberto Calasso. Essa è inoltre funzionale alla lettura della sua produzione in chiave di letteratura assoluta, perché, come scrive Bruno Cumbo:

di questo frutto [la letteratura assoluta] certo si nutre il catalogo della casa editrice che Calasso dirige ormai da molti anni, il cui stesso nome, Adelphi (= fratelli) allude a un legame reciproco tra esperienze letterarie spesso diversissime per tempi e luoghi di produzione, ma i cui rapporti rivelano un misterioso e coerente denominatore comune, per la cui decifrazione certo appaiono indispensabili le opere dello stesso Calasso. Questi parla dell’Adelphi come di un unico «serpente di pagine» che è possibile leggere quasi si trattasse di un unico, immenso libro.109

Senza dubbio, come è stato a più riprese sottolineato, Calasso cerca di creare con la sua opera una sorta di «riscrittura enciclopedica» di un’intera civiltà,110 i cui confini spazio-temporali sono quanto di più labile esista, considerato che – torno a ripeterlo – la

107 Cfr. IE, p. 13.

108 Calasso ha più volte definito le pubblicazioni di Adelphi come scaglie di un unico grande serpente.

Sull’argomento tornerò nella IV parte, cap. 2.

109B.CUMBO, Modernità e “letteratura assoluta”, cit.

110 Si vedano, per esempio, le motivazioni del conferimento della laurea honoris causa in Lingue e

Letterature Moderne dell’Università di Perugia, consultabili online al sito http://www.unipg.it/files/pagine/274/libretto_calasso_x_rettore.pdf, o le osservazioni di Lara Fiorani: http://discovery.ucl.ac.uk/18522/1/18522.pdf. Visitati il 5 dicembre 2017.

Va in questo senso anche il commento di una critica americana: ANDREA LEE, Roberto Calasso’s

Encyclopedic mind at play, in «New Yorker», December 13, 2012.

Salman Rushdie, infine, ha definito Calasso «straordinario talento transculturale», «monumento vivente al valore delle peregrinazioni interculturali», a dimostrazione dell’apprezzamento della sua opera editoriale, ma anche della vastità sterminata di ambiti del sapere di cui i suoi volumi si occupano. Cfr.SALMAN

materia trattata spazia dall’India vedica alla Parigi degli Impressionisti, con puntate nel cinema di Alfred Hitchcock o di Max Ophüls e nella filosofia di Walter Benjamin. Lo scrittore spiega il senso di una simile operazione con l’esigenza – tuttora insoddisfatta – di raccontare quello che è per lui «l’innominabile attuale»; alla domanda di un intervistatore sul significato da attribuire a tale espressione, rispondeva:

Da circa trent’anni mi propongo di esplicitarla in un libro. Ma non ci sono ancora arrivato. Ci sono epoche che sfuggono tenacemente alla parola. Stendhal o Balzac sapevano parlare con mirabile efficacia e precisione del mondo che li circondava. Oggi non mi sembra che qualcuno riesca a fare qualcosa di simile.111

Il valore del suo enciclopedismo “erratico” risulta rafforzato dall’ideale di letteratura come onnivora potenza, che può parlare di tutto, in ossequio al solo diktat della Forma. Cercherò dunque di enucleare in maniera riassuntiva i fili concettuali che si dipanano in quest’intelaiatura, con l’obiettivo di verificare la loro aderenza a quanto precedentemente esposto sugli aspetti caratterizzanti della letteratura assoluta.

La Rovina di Kasch (1983) tratta, come accennato, il problema dell’inizio della

modernità. Attraverso la figura di Charles Maurice de Talleyrand, «Hermes psicopompo»112 di tutta l’impresa, si indaga il sapore dell’epoca in cui la letteratura assoluta ha le sue radici. Attraverso una serie di aneddoti, aforismi e riflessioni, vengono presentati i personaggi-cardine del periodo compreso tra la fine del XVIII secolo e gli anni ’80 del XX: un’epoca in cui al mondo ciclico, ritualizzato, delle società tradizionali basate sulle pratiche sacrificali è venuto a sostituirsi in modo definitivo il mondo «della ragion di Stato, degli esperimenti sulla società, dei processi politici e delle carneficine di massa».113 A tal proposito, Italo Calvino scrisse, con lucidità estrema, che La rovina di

Kasch tratta di due argomenti: «il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto».114 Data

la sua natura polimorfa – non ha un centro né cronologico né spaziale, non ha un protagonista, non tratta un solo argomento – è giusto che a reggere le fila della narrazione

111 Si può considerare, fra le tante, la dichiarazione contenuta in A.GNOLI, Veda, il potere dell’invisibile,

in «la Repubblica»,13 ottobre 2010.

112 Così lo definisce l’autore stesso in R.CALASSO, Così sarà il mio Baudelaire, in «Corriere della Sera»,

13 marzo 2008.

113 I.CALVINO, Roberto Calasso, La rovina di Kasch, in ID., Saggi, a cura di Mario Barenghi, Milano,

Mondadori, 1995, pp. 1016-1022, spec. 1016.

sia un personaggio come Maurice de Talleyrand, uomo metamorfico per antonomasia. Secondo la definizione del suo autore, La rovina di Kasch «si presenta in una sequenza di tableaux – e la funzione di Talleyrand nel libro è quella di guidarci da una scena all’altra, come una sorta di maestro di cerimonie».115 Talleyrand è infatti anche e soprattutto un simbolo di un particolare modus vivendi, di un’attitudine: il voltagabbana per antonomasia, che fu vescovo sotto Luigi XVI, deputato della Costituente durante la Rivoluzione, braccio destro di Napoleone e poi di Luigi XVII, nonché di Luigi Filippo dopo la Rivoluzione di Luglio, «tradì tutto meno che lo stile», configurandosi dunque, secondo la definizione di Cecchetti, come «un personaggio estetico, dove per estetico si intende il tentativo profano di risacralizzare il mondo attraverso il culto diabolico dell’apparenza e della leggerezza».116 Il conte affascinava anche Gottfried Benn per la sua capacità di applicare il proprio precetto «non troppo zelo».117 La rovina di Kasch è un coro di voci che si affastellano una sull’altra; sono le voci di alcune delle figure più importanti della storia moderna e contemporanea, che continueranno a risuonare attraverso tutte le opere che seguono. Ne cito solo alcune, in ordine sparso: Sainte-Beuve, Hugo, Baudelaire, Kraus, Nietzsche, Freud, Stirner, Schmitt, Mauss, Weil, Durkheim, Girard, Jung, Hölderlin, Valéry, Marx, Warburg, Benjamin, Hoffmannsthal. Mi propongo di valutare l’influenza del loro pensiero nella costruzione di quello calassiano nel prosieguo di questa ricerca. Al centro dell’opera c’è la leggenda africana a cui deve il titolo, raccontata negli studi etnografici di Leo Frobenius:118 un enigmatico cantastorie, Far-li-mas, sconvolge l’equilibrio dell’antico regno di Naphta distraendo con la bellezza dei suoi racconti i sacerdoti del villaggio, che hanno il compito di osservare gli astri e capire quale sia il momento indicato per svolgere il rituale sacrificio del re. Il sovrano e il cantastorie (deputato a morire con lui) sfuggono così alla condanna. Il rito sacrificale cade in disuso. Successivamente, il regno verrà invaso dai nemici e distrutto; soltanto le storie di Far-li-mas sopravvivranno.

Il tema del sacrificio, centrale nella riflessione di Calasso sulla modernità, collega la

115 Cfr. in R. CALASSO, Lì dove è nato l’Oriente c’è il segreto di noi moderni, in «la Repubblica», 19

febbraio 2002.

116V.CECCHETTI, Roberto Calasso, cit., p. 99. 117 Cfr. G.BENN, Lo smalto sul nulla, cit., p. 209.

118 La storia è contenuta in Atlantis; è stata poi stata raccolta in un volume adelphiano a cui rimando: LEO

FROBENIUS, La leggenda della rovina di Kasch (Napht), in ID., Fiabe del Kordofan, traduzione italiana di U. Colla, Milano, Adelphi, 1997, pp. 23-34.

Rovina di Kasch alle Nozze di Cadmo e Armonia (1988). Il secondo volume dell’«opera

in corso» si propone di ri-narrare i cicli della mitologia classica. Le divinità dell’antica Grecia tornano a vivere: le loro storie, in primo luogo «immagini mentali», vengono risvegliate per noi. Nel farlo, Calasso veste i panni, come puntualizzato da Robert Shorrock,119 di un vero e proprio mitografo: nel mondo della Grecia arcaica, com’è noto, al poeta veniva attribuita, in virtù del suo rapporto con le Muse, una conoscenza superiore a quella del pubblico, che gli si raccoglieva intorno per ascoltare le sue storie e carpire qualche delucidazione sul mistero dell’esistenza; questo esigeva una disponibilità, da parte dell’uditorio, a credere nell’attendibilità dell’aedo. Privo dello stesso accesso privilegiato alla fonte di conoscenza, infatti, esso non aveva strumenti per vagliare la credibilità di quei racconti. In modo simile all’aedo si pone il narratore delle Nozze di

Cadmo e Armonia nei confronti dei propri lettori. Anche in questa seconda opera, infatti,

come nella precedente e in tutte quelle che seguono, senza eccezioni, Calasso utilizza un sistema peculiare di “fonti”: così i libri di mitologia classica a cui attinge per recuperare la materia narrata – Muse del mitografo moderno – sono dichiarati soltanto in appendice, dove si indicano pagina e riga delle citazioni. Nel corpo del testo, invece, queste non sono segnalate con un esponente di nota, ma con i soli virgolettati; secondo Shorrock, un simile modo di riportare le fonti rende il lavoro di Calasso poco rigoroso dal punto di vista tradizionalmente accademico, considerata l’oggettiva difficoltà per il lettore di rivenire la provenienza della citazione mentre la legge. Inoltre – e qui la riflessione di Shorrock si fa davvero illuminante – soltanto le citazioni letterali dei testi classici vengono dichiarate: ciò non avviene per le allusioni, i richiami non puntuali, le parafrasi, e gli altri tipi di fenomeni intertestuali. Il narratore ripropone per esempio, senza esplicitarlo, alcune scene tratte dalle Dionisiache di Nonno di Panopoli. Questo, secondo lo studioso anglosassone, rende Calasso un perfetto mitografo, che si può permettere, grazie all’osteggiato accesso alle fonti del suo pubblico, di “imbrogliarlo”. L’inganno è del resto un tema fondamentale del volume, che si apre, non a caso, proprio sul racconto – deliberatamente ripreso da Nonno di Panopoli – di un mitico raggiro che vede Zeus, dio ingannatore per eccellenza,

119 Le osservazioni di seguito riportate sulle Nozze di Cadmo e Armonia devono molto alla lettura di

ROBERT SHORROCK, The Artful Mythographer: Roberto Calasso and “The Marriage of Cadmus and

rapire Europa travestito da toro.

Where Zeus appropriates the form of a bull in order to seduce Europa and carry her off over the sea, so Calasso appropriates the narrative of Nonnus’ Dionysiaca in order to seduce his readers and carry them along through the text.120

Il tema della reciproca frode fra uomini e dèi, che abbiamo visto caratterizzare l’orizzonte della letteratura assoluta, è un nucleo fondamentale del libro. Esso si sostanzia nell’immagine della corona donata da Dioniso ad Arianna, a proposito della quale si vuole dimostrare l’interconnessione tra inganno e perfezione:

La corona è la perfezione dell’inganno, è l’inganno che si richiude su se stesso, è quella perfezione che include in sé l’inganno.121

Anche il modo in cui le divinità greche vengono presentate, del resto, anticipa le riflessioni della Letteratura e gli dèi:

Che cosa volevano, allora, gli dèi greci dagli uomini? Non certo un comportamento piuttosto che un altro. Erano pronti a salvare l’atto ingiusto di un loro favorito come a condannare l’atto giusto di chi gli fosse inviso. Che cosa volevano, allora? Essere riconosciuti.

Ogni riconoscimento è visione di una forma. Perciò si può dire, nel nostro lessico debilitato, che il loro imporsi era innanzitutto estetico. Ma quell’estetico era proprio ciò di cui si è, col tempo, frantumato il senso: un involucro di potenze raccolte in una figura, un corpo, una voce.122

Gli dèi sono dunque, in primo luogo, una visione mentale. La «sovranità della mente»123 è il presupposto della loro comparsa, così come Calasso chiarirà nelle sue conferenze del 2001. Il mito, di cui sono indiscussi protagonisti, non è soltanto una forma di conoscenza che precede e supera la logica: è soprattutto una dimensione archetipica, un universo di azioni già compiute, azioni su cui si modellano tutte le nostre azioni. È tutto ciò che siamo, in potenza. Una frase emblematica del neoplatonico Salustio, posta

120 Ivi, p. 92. «Laddove Zeus si appropria della forma di toro per sedurre Europa e portarsela via attraverso

il mare, Calasso si appropria del racconto delle Dionisiache di Nonno per sedurre i suoi lettori e portarli con sé attraverso il testo» (traduzione mia).

121 NCA, p. 33. 122 NCA, P. 274.

in epigrafe al volume, ce lo ricorda: «queste cose non avvennero mai, ma sono sempre». È l’assioma che regge l’intera narrazione, questa idea del mito come verità primigenia da far risvegliare dentro di noi:

si entra nel mito quando si entra nel rischio, e il mito è l’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi. Più che una credenza, è un vincolo magico che ci stringe.124

Questo tipo di approccio alla materia mitologica è per certi versi accostabile a quello di Károly Kerényi, che compie con il suo Gli Dei e gli Eroi della Grecia un’operazione simile a quella di Calasso, rinarrando le storie dei protagonisti mitici partendo dal presupposto che le loro caratteristiche precipue siano l’essere sopraindividuali e l’«esercitare sugli uomini un potere possessivo che riempie l’anima d’immagini».125 Diverso è però il modo in cui Calasso legge il legame tra l’individuo su cui il mito «agisce» e il «sopraindividuale» potere di quelle immagini.126 Pur essendo stato un attento lettore di Kerényi, nonché di Jung – autore insieme allo studioso ungherese dei

Prolegomeni per uno studio scientifico della mitologia – Calasso oppone resistenza a una

lettura della mitologia in chiave di «psicologia collettiva».127 La sua visione del mito è legata piuttosto alla concezione che ha del sé che, come vedremo, riprende quella vedica. Gli eroi del mito condividono con gli scrittori della letteratura assoluta un’acuta percezione del divino, una profonda consapevolezza: «sapevano di essere sostenuti e attraversati da qualcosa di remoto e integro, che poi li abbandonava come stracci».128 Ciò che conta agli occhi di Calasso è che, come un artista della décadence, l’eroe omerico sia posseduto da una forza superiore, sino alla consunzione. Cambiano i tempi, si abbandonano i rituali, ma c’è una verità che Calasso vede sempre in atto: «ierogamia e sacrificio, per gli uomini, si sovrappongono soltanto nell’invisibile, nel sacrificio di sé al Sé, nella coniunctio tra il sé e il Sé»;129 è nella mente dell’individuo che l’«onda

124 NCA, p. 313.

125 KÁROLY KERÉNYI, Gli dei e gli eroi della Grecia, traduzione italiana di V. Tedeschi, vol. I, Gli Eroi,

Milano, Garzanti, 1976.

126 Cfr. ivi, p. 9.

127 Similmente, ritengo che la possibilità di studiare scientificamente il mito sia piuttosto lontana dalla forma

mentis calassiana. Sull’argomento, cfr. II parte, cap. 6.

128 NCA, p. 382. 129 NCA, p. 327.

mnemica» colpisce con forza dirompente. Il sacrificio serve nel terreno del visibile ad appagare gli dèi nel contatto con gli uomini, offrendo loro una stilla di mortalità. Per gli uomini la commistione con il divino può avvenire invece soltanto nella mente. E nella società moderna – Calasso lo ha spiegato bene agli studenti di Oxford – questa unione si collocherà sempre al di fuori della collettività. Allo statuto a-sociale dell’artista – nell’accezione spiegata in precedenza – si possono accostare queste riflessioni, che significativamente vengono dopo una trattazione sugli Orfici; in quanto membri di una setta iniziatica, essi avevano eccesso esclusivo a una conoscenza antica e si trovavano programmaticamente al di fuori del corpo sociale:

Soltanto chi ha fuggito il mondo con furia pagana e cristiana, soltanto chi risiede in uno spicchio dell’anima che proviene da fuori, da laggiù, soltanto chi al mondo non appartiene interamente può usare il mondo e trasformarlo con tanta efficacia e spregiudicatezza. E, con quel finale passaggio all’atto nell’usare il mondo, si giunge all’epoca che non è pagana né cristiana, ma continua ad applicare, senza saperlo, quel doppio movimento del distacco e della fuga, mentre intanto affonda il suo artiglio nella terra e nella polvere lunare.130

È proprio dell’«epoca che non è pagana né cristiana» che Calasso vuole parlare, mentre si rapporta alle storie che «sono da sempre». È l’era, questa, dell’«innominabile attuale», della regressione spirituale, quella che nella visione religiosa dell’India, a partire dai testi vedici, prende il nome di kaliyuga. Alla sterminata mole di testi del rituale indiano e ai suoi miti fondatori è dedicato Ka (1996), che fa da controcanto alle Nozze di

Cadmo e Armonia, ne è l’ideale prosecuzione, partendo anch’esso da una concezione del

mondo come «impressione che lascia il racconto di una storia», secondo la splendida frase dello Yogavāsiṣṭha posta in epigrafe al libro. Nel corso della mia traversata dell’«opera in corso», non potrò che tornare con una certa frequenza al retroterra vedico di certe idee calassiane. Calasso si rifà ai più antichi monumenti letterari della civiltà indiana, scritti in un arco cronologico che abbraccia i secoli XV-V a.C., conservati fino a tarda epoca soltanto grazie alla tradizione orale e messi per iscritto non prima del II sec. a.C.131 Nello sguardo di Calasso sulla religiosità vedica c’è un filtro molto potente: Calasso è

Nel documento Il libro unico di Roberto Calasso (pagine 39-68)