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UN VINCOLO MAGICO

Nel documento Il libro unico di Roberto Calasso (pagine 190-200)

FRA LA MENTE UMANA E L’UNIVERSO

6. UN VINCOLO MAGICO

In un breve articolo dal titolo Il terrore delle favole, uscito sul «Corriere della sera» a due anni di distanza dalle Nozze di Cadmo e Armonia, che ne riprende testualmente numerosi passaggi, Calasso espone in maniera sintetica e puntuale il suo punto di vista sul mito, altro perno fondamentale dell’«opera in corso». Il suo punto di partenza è la celebre condanna platonica alla poesia contenuta nel X libro della Repubblica; questo testo, che Calasso ritiene il più autorevole degli attacchi mai subiti dal mito, ha avuto per lui il merito indiscutibile di aver riconosciuto, per primo e in maniera insuperata, l’appartenenza del mito al «terreno dell’apparenza, delle immagini, dei simulacri, degli

eídōla».169 Il mito è infatti strettamente connesso alle immagini mentali: esso è proprio,

per utilizzare una definizione cara a Italo Calvino, una forma di «pensiero per immagini»;170 questa sua caratteristica suscita il «terrore» di Platone cui si fa riferimento nel titolo. La disapprovazione di Socrate, sottolinea Calasso, non è primariamente rivolta ai poeti, ma a un «uomo capace di trasformarsi sapientemente in tutto», cioè a un uomo che abbia confidenza con le arti della metamorfosi:

Platone allude qui al trauma, alla spaccatura nella storia della conoscenza, che avviene quando, invece di dire: a si trasforma in b, si dice: a è b. La prima forma, necessariamente narrativa, è quella in cui si mostra la conoscenza ovunque incontriamo dei miti – e non vi è civiltà che non includa in sé una qualche conoscenza di questo tipo. Al contrario, la conoscenza predicativa (nella forma a è b) appare assai tardi, e soltanto in rari luoghi, uno dei quali è la Grecia arcaica. L’opposizione ultima sarebbe dunque questa: da una parte una conoscenza che oggi chiameremmo algoritmica […]; dall’altra una conoscenza metamorfica, tutta interna alla mente, dove il conoscere è un pathos che modifica il soggetto conoscente, un sapere che nasce dall’immagine, dall’eídōlon, e culmina nell’immagine […]. Una conoscenza sospinta da una forza inesauribile che ha però la grazia di presentarsi come un artificio letterario: l’analogia.171

169 QG, p. 490.

170 Cfr. I. CALVINO, Visibilità, in ID., Lezioni americane, cit. 171 QG, p. 491.

La poesia cresce sulla

contraddizione, ma non la ricopre. ADAM ZAGAJEWSKJ

Il mito è quindi innanzitutto un modo della conoscenza: appartiene di diritto al polo analogico, è una forma del pensiero che si risolve nelle immagini – le figure mitiche – e che non trova spiegazioni al di fuori delle immagini stesse. È «un conoscere il simulacro attraverso il simulacro»,172 e perciò non accetta farsi intendere in altra maniera. Per citare nuovamente il Calvino delle Lezioni americane:

ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, restarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori.173

Anche per Calasso la spiegazione è la via meno produttiva per accostarsi al mito; del resto, quale che sia il nostro modo di porci nei suoi confronti, connaturato com’è alla struttura della nostra mente, esso rimane lo sfondo eterno dentro cui ci muoviamo:

Quelle storie sono un paesaggio, sono il nostro paesaggio, ostili e invitanti simulacri che nessuno ha inventato, che continuiamo a incontrare, che aspettano da noi soltanto di essere riconosciuti. Così ora possiamo confessarci che cos’era, che cos’è quell’antico terrore che le favole continuano a incutere. Nulla è di diverso dal terrore che è il primo fra tutti: il terrore del mondo, il terrore di fronte alla sua muta, ingannevole, sopraffacente enigmaticità. Terrore di fronte a questo luogo della metamorfosi perenne, dell’epifania, che include innanzitutto la nostra mente, dove assistiamo senza tregua alla ridda dei simulacri.174

Più proficuo allora è per Calasso percepire l’inesausta vitalità delle storie mitiche e “risvegliarsi”, prendere coscienza del loro essere sempre presenti, guardare a esse come a un repertorio di gesti sempre a disposizione nella nostra testa:

Da secoli si parla dei miti greci come se fossero qualcosa da ritrovare, da risvegliare. In verità sono quelle favole che aspettano ancora di risvegliarci ed essere viste, come un albero davanti all’occhio che si riapre.175

È proprio quello che capita al personaggio di Armonia verso la fine delle Nozze:

172 QG, p. 490.

173I. CALVINO, Lezioni americane, cit., pp. 8-9. 174 QG, p. 497.

E improvvisamente capì il mito, capì che il mito è il precedente di ogni gesto, la fodera invisibile che lo accompagna. Non doveva temere l’incertezza che le si apriva davanti. In qualsiasi direzione si fosse mosso il suo sposo errante, una benda volteggiante del mito avrebbe avvolto la fanciulla Armonia. Per ciascun passo, l’orma era già segnata.176

Come ha scritto Giorgio Manganelli recensendo il volume del 1988, «da sempre ci abitano i miti; non possiamo perderli senza perdere noi stessi»;177 per questo motivo, le storie della mitologia continuano ad avvincerci. Non possiamo fare a meno di perderci nella rete delle loro infinite varianti, perché quello stesso reticolato avviluppa strettamente il nostro encefalo:

Eppure in quella stoffa tagliuzzata, in quelle storie monche degli dèi possiamo ancora avvolgerci. E dentro il mondo, come dentro la nostra mente, quella stoffa continua a tessersi.178

Del resto, ricorda Calasso, è lo stesso Platone, nel Fedone, a dimostrare un approccio al mito diametralmente opposto a quello della Repubblica, a definire, per tramite di Socrate, bello e necessario il «rischio» di «incantare se stessi con tali cose [i miti]».179 Il nostro rapporto con un mito, il suo semplice ascolto, non è e non può mai essere, per Calasso, neutro; produce sempre «una sorta di fattura a cui la mente assoggetta se stessa: un incanto pericoloso e bello, un rischio che dobbiamo accettare perché la conoscenza che ci viene incontro da questa via non sarebbe raggiungibile in altro modo».180

Una simile concezione della mitologia chiarisce e giustifica, dal mio punto di vista, non soltanto la proliferazione di racconti mitici che caratterizza l’«opera in corso», ma anche e soprattutto la singolare attitudine mitografica – intesa anche come vocazione fraudolenta nei confronti del lettore – riscontrata da Robert Shorrock nella prosa calassiana.181 Si motivano così anche l’assenza di una rigida impalcatura espositiva e l’amalgama di forma saggistica e narrazione, di invenzione e analisi di fatti concreti – tutti tratti che abbiamo visto contraddistinguere i nove volumi dell’«opera in corso». A tal proposito, è significativa la dichiarazione già menzionata dell’autore

176 NCA, p. 428.

177 GIORGIO MANGANELLI, Quanto sei lenta sparta, in «il Messaggero», 24 ottobre 1988. 178 NCA, p. 315.

179 La traduzione è di Calasso; cfr. PLATONE, Fedone, 114d. 180 QG, p. 494.

sull’asistematicità del mito: «il mito non ammette sistema. E il sistema stesso è innanzitutto un lembo del manto di un dio, un lascito minore di Apollo».182 In un certo senso, potremmo attribuire a Calasso il tentativo di applicazione di quello che Thomas Stearns Eliot definì «metodo mitico»: un modo che «sovverte il senso comune e le comuni concezioni della storia; frammenta l’ordine del quotidiano, facendo intravedere profondi crepacci di senso sotto la sua superficie».183 Se c’è un aspetto essenziale del mito che affascina particolarmente Calasso è proprio la sua modalità di esposizione degli argomenti, che rifugge le definizioni in sé conchiuse, che dispiega e intreccia una sequenza di storie senza trattarle come dati inerti. Come scrivevano Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo, in un ideale controcanto con la massima di Salustio posta in epigrafe alle Nozze di Cadmo e Armonia, il mito «è sempre stato oscuro ed evidente al tempo stesso, e si è sempre distinto per la sua familiarità che lo esime dal lavoro del concetto».184 Risulta quindi poco produttivo, nell’accostarsi all’«opera in corso», utilizzare letture del mito in chiave strutturalista, allegorica e, men che meno, ideologica. Del resto, come scrivono Giovanni Leghissa ed Enrico Manera in un recente compendio sulle Filosofie del mito nel Novecento, qualsiasi studioso si ponga l’obiettivo di affrontare la questione mitologica prendendone le distanze, come uno scienziato vivisezionerebbe un corpo estraneo su un tavolo da laboratorio, è destinato a fallire perché muove da presupposti inconsistenti:

La questione è metodologica: o la critica del mito si sa immersa in un universo di significati che, per ragioni antropologiche, non potrà mai esonerarsi dal mito, oppure essa si condannerà a desiderare sempre di nuovo l’attuazione di un rischiaramento che progressivamente liberi gli umani dal mito e precisamente questo desiderio, interamente mitico, ha sempre animato la critica delle ideologie, in tutte le versioni in cui essa si è presentata.185

Il discredito di cui è vittima, secondo Calasso, la modalità analogica del pensiero nel mondo moderno ha delle implicazioni significative sulla fisionomia della letteratura. Esautorato del suo potere conoscitivo, il mito si insinua in essa; la letteratura assoluta, come più volte ribadito, diventa anche un luogo di salvaguardia per quel particolare tipo

182 NCA, p. 31.

183 Citato in FABIO DEI, Il mito in Frazer e nelle poetiche del modernismo, in GIOVANNI LEGHISSA e ENRICO

MANERA (a cura di), Filosofie del mito nel Novecento, Roma, Carocci, 2015, pp. 71-80, spec. 78.

184 MAX HORKHEIMER eTHEODOR ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p. 6. 185 G.LEGHISSA eE.MANERA (a cura di), Filosofie del mito…, cit., p. 28.

di conoscenza che è la conoscenza metamorfica. Questo passaggio dal mito alla letteratura si può leggere in due modi: da un lato, Calasso non sembra del tutto estraneo all’idea di Mircea Eliade per cui gli stessi miti greci “classici” sono già un «trionfo dell’opera letteraria» sulla credenza religiosa» –,186 ma difficilmente utilizzerebbe un termine come “credenza” per descrivere la mentalità mitica, dal momento che, commentando il sopracitato passo del Fedone, scrive:

Più che una credenza, è un vincolo magico che ci stringe. È una fattura che l’anima applica a se stessa. «Bello infatti è questo rischio, e occorre con queste cose in certo modo incantare (epàdein) se stessi». Epàdein è il verbo che designa il «canto incantatore». «Queste cose», nella sprezzatura della forma pronominale, sono le favole, i miti.187

In un certo senso, nella trasposizione epica delle vicende divine ed eroiche anche Calasso sembra leggere una modalità di tradizione quasi clandestina di un sapere che andrebbe altrimenti perduto; questo non è soltanto il caso del mito greco: in Ka, questa procedura si applica al Mahābhārata:

Ormai, nell’oscurarsi dei tempi, quando tutto si inverte e si rovescia, si sarebbe dovuto cominciare – e finire – con le storie di uno dei tanti dissidi dinastici, di una delle tante guerre che si erano svolte in un’area in fondo piccola, anche se a lungo battuta dagli dèi. Proprio quello sperpero di casi e di vicissitudini era l’involucro che aveva permesso di salvare il sapere precedente, che ormai non poteva sussistere più da solo.188

A tal proposito, in un volume sul rapporto fra la letteratura europea e il mito classico, Davide Susanetti, commentando delle riflessioni di Jacob Burckhardt nella Storia della

civiltà greca, scrive:

Il riuso letterario dei miti verrebbe così a coincidere, per certi versi, con la storia della loro desacralizzazione, della loro devalorizzazione come modelli radicati nella tradizione religiosa e nel culto: sinonimo di un oblio più o meno consapevole di

186 MIRCEA ELIADE, Mito e realtà, traduzione italiana di G. Cantoni, Roma, Borla, 1993, p. 191. 187 NCA, p. 313.

iniziali significazioni.189

D’altro canto, Calasso sembra credere al potere delle storie di significare di per sé, anche quando totalmente sceverate dal contesto rituale, quasi il rito si inserisse in esse come un percorso tracciato nel paesaggio mentale – che è, giocoforza, anche mitico:

Era come se d’improvviso tutti fossero stanchi di compiere gesti che hanno un significato. Volevano stare seduti, nell’erba o intorno a un mucchio di braci, ad ascoltare storie. Ed erano storie dove spesso si raccontavano e si descrivevano quegli stessi riti che gli ascoltatori stavano compiendo. Ma ora quei riti diventavano episodi all’interno di lunghe vicende sanguinose, pretesti per scontri e inganni. Le storie non erano più una pausa di respiro all’interno della sequenza rituale, ma il rito stesso diventava un passaggio all’interno delle storie, come poteva esserlo un duello o una notte amorosa.190

Inoltre, la letteratura può essere un modo per attingere al mito in un’epoca tanto distante da quella che lo vide fiorente, come spiegava Calasso in un’intervista a Mario Baudino:

[i miti] sono una via del conoscere: ma se non vengono vissuti, meglio lasciarli perdere. Non è obbligatorio occuparsi di queste cose. Ma possiamo avvicinarci ad essi attraverso l’unica risorsa che abbiamo noi occidentali: la letteratura.191

A questo riguardo, nella sua recensione alle Nozze di Cadmo e Armonia, Dario Del Corno commentava:

In un’epoca ormai dominata dalla storia, il mito non può essere che narrazione e insieme interpretazione; dev’essere contiguo al presente, e insieme remoto come le età arcane, popolate di mostri e di dèi, che lo videro nascere. Perché continui la sua vita, occorre la simbiosi di sapere e di arte.192

Nella «simbiosi di sapere e di arte» possiamo rinvenire una perfetta sintesi di ciò che per Calasso è la letteratura assoluta. E se quest’ultima guarda al mito come paradigma soggiacente a ogni gesto umano, e come modello di pensiero, nei romanzi – come si legge

189 DAVIDE SUSANETTI, Favole antiche. Mito greco e tradizione letteraria europea, Roma, Carocci, 2005,

p. 19.

190 Ka, pp. 360-361.

191 MARIO BAUDINO, Calasso. In India con gli dèi, in «la Stampa», 27 settembre 1996.

nelle Nozze di Cadmo e Armonia – il gesto si cristallizza in un unico segno, e il gioco infinito dei simulacri è costretto ad arrestarsi; questa è la differenza essenziale fra mito e letteratura:

Le figure del mito vivono molte vite e molte morti, a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati ogni volta a un solo gesto. Ma in ciascuna di queste vite e di queste morti sono compresenti tutte le altre, e risuonano. Possiamo dire di aver varcato la soglia del mito soltanto quando avvertiamo un’improvvisa coerenza fra incompatibili. Abbandonata a Nasso, Arianna fu trafitta da una freccia di Artemis, per ordine di Dioniso, testimone immobile; ovvero, Arianna si impiccò a Nasso, dopo essere stata abbandonata da Teseo; ovvero, incinta di Teseo e naufragata a Cipro, vi morì nelle doglie; ovvero, Arianna fu raggiunta a Nasso da Dioniso con il suo corteo e con lui celebrò nozze divine prima di ascendere al cielo, dove tuttora la vediamo fra le costellazioni settentrionali; ovvero, Arianna fu raggiunta da Dioniso a Nasso e da allora lo seguì nelle sue imprese, come un’amante e come un soldato: quando Dioniso attaccò Perseo nella terra di Argo, Arianna lo seguiva, armata, fra le schiere delle folli Baccanti, finché Perseo scosse nell’aria dinanzi a lei il volto micidiale di Medusa e Arianna fu pietrificata. Rimase una pietra in un campo. Nessuna donna, nessuna dea ebbe tante morti come Arianna. Quella pietra nell’Argolide, quella costellazione nel cielo, quell’impiccata, quella morta di parto, quella fanciulla dal seno trafitto: tutto questo è Arianna.193

Con parole molto simili, nel Cacciatore celeste Calasso ribadisce la distanza e al tempo stesso la connessione ineliminabile fra queste due realtà:

È quella rete che rende possibile il riverberarsi di ogni trama mitica in tutte le altre. Mentre le trame dei romanzi rimangono pur sempre isolate. Anche se le vicende dei potenti o degli amanti o degli sventurati hanno ogni volta qualche tratto comune. Ma la loro nobiltà sta nella solitudine dei casi singoli.194

C’è, infine, un aspetto fondamentale che riguarda il nostro rapportarci al mito, inteso non come racconto di imprese divine ma come capacità metamorfica della mente, attitudine al pensiero per immagini: è la sua pericolosità. Il «terrore delle favole» di Platone, secondo Calasso, ha un fondamento incrollabile in ciascuno di noi. Il pensiero analogico racchiude infatti in sé un potenziale di rischio altissimo, che è massimizzato laddove manchi la consapevolezza della natura simulativa di qualsiasi indagine sul mondo. Poiché la nostra mente è continuamente sottoposta all’invasione dei simulacri, corre costantemente il rischio di inseguirne i profili e di perdersi nelle loro trame. Un

193 NCA, p. 37.

esempio di questa pericolosità ci viene fornito dal mito stesso. Già presente nelle Nozze, torna nell’articolo del ’91 il riferimento al simulacro ligneo di Artemis Taurica con cui Oreste scappa dal santuario; il matricida lo utilizza durante la sua fuga per proteggersi dalla follia che sente incombere su di sé. Abbandonato in un canneto, esso vi giace per anni, finché non viene ritrovato da due Spartani di sangue reale, Astrabaco e Alopeco. I due, alla vista dello sguardo della statua, impazziscono, perché non sanno cosa stanno guardando. Questa la chiosa di Calasso alla vicenda:

Questo è il potere del simulacro, che guarisce soltanto chi lo conosce. Per gli altri, è una malattia.195

In effetti, anche per quella linea della psicanalisi che ha cercato, nel solco degli studi junghiani, di guardare alla psicopatologia con un approccio che facesse tesoro dell’eredità mitica,196 i deliri possono essere il risultato di un’errata lettura dei simulacri. James Hillman, in una conferenza dedicata proprio a simili temi, commenta così l’esperienza, tanto cara a Calasso, della schizofrenia di Schreber:

Alle rivelazioni va prestato ascolto solo con orecchio ermetico, mercuriale, intendendo i loro significati come finzioni, trasponendo la parola dello spirito in immagine poetica, un passo che il povero Schreber non poteva compiere a causa dell’assassinio dell’anima, perché era stato privato dell’eco psichica capace di mediare, e il messaggio era rimasto letterale.197

A tal riguardo, Hillman propone anche l’esempio di John Thomas Perceval che, riflettendo sulla natura del delirio che lo costrinse per tre anni in un manicomio (prima a Brislington, e poi a Ticehurst, nel Sussex), scrisse: «lo spirito parla poeticamente, ma l’uomo capisce letteralmente».198 Secondo Hillman, tuttavia, lo spirito non parla poeticamente ma, più precisamente, in maniera noetica, cioè per illuminazioni e rivelazioni, in base a quelli che William James chiamava stati di coscienza.199 Tornerò su questi punti nell’ultima parte della mia traversata dell’«opera in corso». Prima di seguire Calasso negli anfratti più oscuri della psiche, quelli più fertili sul piano dell’ispirazione

195 NCA, p. 291 e QG, p. 497.

196 Cfr. J.HILLMAN, La vana fuga dagli dei, cit, p. 93. 197 Ivi, p. 58.

198 Ivi, p. 28. 199 Ivi, p. 65.

letteraria, vorrei dedicarmi in maniera più approfondita alla sua indagine dell’«innominabile attuale», scopo dichiarato dell’intero work in progress. Non mi era possibile farlo senza aver prima affrontato l’argomento-cardine della mente; dalla fisionomia di quest’ultima, infatti, si muove la lettura di Calasso del nostro tempo. Non sarà dunque superfluo riassumere in breve spazio gli snodi principali del percorso che ho fin qui portato avanti.

In primo luogo, la mente per Calasso non si identifica con la semplice attività neuronale che si svolge nella scatola cranica di qualsiasi essere umano; essa corrisponde piuttosto all’essenza della divinità progenitrice Prajāpati che, smembrandosi, ha dato avvio all’universo. Dalla mitologia vedica Calasso trae, insieme a un’infinita varietà di immagini pregnanti, l’idea dell’onnipervasività della psiche e dell’assenza di confini fra soggetto e cosmo. Da questo presupposto parte la sua esplorazione delle possibilità della mente individuale; in primis, afferma con convinzione la necessità di distanziarsi da tutte le correnti scientifiche e filosofiche che, nel corso dei secoli, l’hanno vista come realtà irrelata dal cosmo. Lontano da una visione del soggetto come entità a se stante, Calasso individua, sulla scorta della tradizione vedica, un’ineludibile connessione tra anima universale (brahman) e anima individuale (ātman). Nel soggetto ravvisa dunque una commistione fra una componente umana e una sovraumana, che, in un senso molto ampio del termine, potremmo definire divina. L’aspetto della mente che maggiormente rivela la

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