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Non è ancora il momento: l’asimmetria dei ruoli porta al rinvio

Tassi di fecondità per età materna

2.4 Non è ancora il momento: l’asimmetria dei ruoli porta al rinvio

I corsi di preparazione al parto hanno recentemente assunto una nuova denominazione: CAN. Acronimo di “Corsi di accompagnamento alla nascita e alla genitorialità”.

Questa trasformazione semantica contiene in nuce tutto uno spettro di considerazioni psicologiche, sociologiche e filosofiche. L’atto del partorire rimanda indissolubilmente al genere femminile. Il concetto di genitorialità è circolare e multifattoriale: è femminile e maschile, evolutivo in quanto si trasforma e rimodella nel tempo, è un rinvio al nostro stesso essere figli, è collegato a fattori sociali esterni quali i servizi territoriali, le risorse dell’individuo e della coppia e ad una moltitudine di altre considerazioni.

La rivoluzione demografica riassunta nei precedenti paragrafi sta necessariamente conducendo verso una trasformazione dei ruoli all’interno della coppia e lungo tutto il percorso del ciclo di vita familiare. Si è, però, giunti al punto di domandarsi se il tema della conciliazione sia solo un fattore legato al tempo, cioè ai convulsi stili di vita dei nostri giorni, acrobatici e funambolici, in antagonismo puro con il ruolo di madre, insidianti la stabilità della coppia, oppure se non si tratti di un vero e proprio conflitto di genere. La maternità nei paesi occidentali, nel corso di un periodo relativamente breve, si è modificata. E’ divenuta una ricerca consapevole, non più subita, frutto di scelte e convenzioni appartenenti ad altri.

La maternità non è più un destino biologico, pure se recentemente viene desiderata e conquistata oltre i limiti della natura.

Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità?

La collettività, le istituzioni, il competitivo mondo del lavoro, apprezzano infatti le competenze femminili, ma pretendono comportamenti maschili.

Dopo avere valorizzato le caratteristiche di indipendenza e realizzazione di sé delle bambine e giovani donne, dopo aver fatto in modo che si tendesse ad una parità di genere, che ha portato alla conquista di un titolo di studio, spesso di secondo livello e un lavoro agognato, magari di responsabilità, la maternità appare improvvisamente alle donne come un preoccupante salto nel buio, un ostacolo ai progetti di affermazione personale. Nel paese degli stereotipi di genere, quello “mammone”, dei “bamboccioni” e della pubblicità con il “mulino”, una donna su cinque non fa più figli.

In una recente indagine del Dipartimento per le pari opportunità, condotta insieme all’ISTAT sugli stereotipi di genere è stata rivolta a uomini e donne la seguente domanda: “un uomo e una donna che lavorano a tempo pieno devono suddividere equamente il lavoro di cura?” Un numero elevatissimo di soggetti ha dato risposta assolutamente affermativa. Sembrerebbe, da un punto di vista ideale, sia in atto una sorta di convergenza verso un modello simmetrico. Alla domanda successiva: ”quanto pensate che sia equa la divisione dei ruoli fra i partner all’interno della coppia?”, la stragrande maggioranza sostiene che è equa.

Una buona parte delle donne sottolinea, però, che gli uomini “ non sono adatti al lavoro di cura” e solo il 50% delle donne si oppone al fatto che in un periodo di crisi “è bene dare la priorità al lavoro degli uomini rispetto a quello delle donne”.

Siamo, ancora, un Paese che dal punto di vista culturale ha fortemente interiorizzato la questione della asimmetria dei ruoli nei modelli, sia da parte degli uomini che delle donne. Ovviamente questo costituisce un serio ostacolo alla possibilità di redistribuzione del carico di cura che continua a penalizzare le donne nel rapporto con il mercato del lavoro. Il modello tradizionale del male breadwinner a capo della famiglia, con la donna a

casa ad occuparsi del resto, dovrebbe essere stato superato. Dovremmo, ormai, essere in una fase transitoria dove l’occupazione maschile non è più esclusiva e il relativo ruolo di sostentamento non appare determinante nell’economia dei rapporti di coppia, con la conseguente organizzazione in maniera strutturata del carico degli impegni familiari che costellano i tempi delle donne nell’arco di una giornata. Tutte queste ore di lavoro di cura non dovrebbero più schiacciare le possibilità di sviluppo femminili, in qualsiasi dimensione, settore o campo.

Contestualmente, occorrerebbe promuovere a tutti i livelli politiche di welfare più sensibile, come già avviene nel Nord Europa, ma anche l’ausilio del non profit/volontariato, l’introduzione di forme flessibili di lavoro, da utilizzare come strumento di conciliazione dei tempi di vita e non come flessibilità del datore di lavoro, il maggiore utilizzo dei congedi parentali da parte degli uomini, con campagne di formazione e istruzione, anche nelle scuole, per redistribuire nella società e nella coppia il sovraccarico del lavoro di cura, il superamento di modelli rigidi e maschili dell’organizzazione del lavoro, in particolare nel settore privato, ecc..

Ci troviamo, invece, di fronte ad un modello di pater familias per così dire modernizzato, dove l’uomo lavora e magari aiuta un po’; la donna si occupa molto della famiglia e magari lavora. Ovviamente con le varie distinzioni territoriali, in quanto al Sud il modello è più accentuato che al Nord ed anche diversamente distribuito nelle varie fasce di età, perché le famiglie giovani cominciano a dare un segnale di speranza. Complessivamente, però, nonostante la crescente presenza delle donne nel mercato del lavoro retribuito, che imporrebbe un coinvolgimento più deciso del partner sul fronte familiare, il ruolo maschile si è poco modificato.

La trasformazione e l’emancipazione del ruolo della donna nella società non ha sostituito l’approccio tradizionale, piuttosto sembra sia andato a soprapporvisi, con il risultato di far sussistere modelli contraddittori che impongono delle scelte14.

Le donne si trovano all’angolo, in quello che viene definito in psicologia ‘doppio legame’. Si tratta di una condizione entro la quale qualunque scelta fatta è una scelta sbagliata. La scelta della “non” maternità, appare, però, ancora di segno negativo, come se fosse meno libera e, quindi, quasi da giustificare (con la precarietà del lavoro, la mancanza di servizi per l’infanzia, la crisi economica ecc.).

Ma qualsiasi scelta fatta avrà come conseguenza un senso di incompiuto. Sia che si insegua un’affermazione professionale o che si scelga la via dell’essere mamma a tempo pieno (non lavorando), sia che si tenti la strada della “mammamogliemanager” la conseguenza sarà - comunque - un senso di perdita o di inadeguatezza.

Certo è già abbastanza difficile essere una buona moglie, una buona madre, una donna in carriera; lo è ancora di più essere tutte queste cose contemporaneamente. Le donne che dicono un “no” a priori alla maternità sono, comunque, una minoranza. L’evoluzione recente non sembra delineare uno scenario in cui la donna oppone un no definitivo; si tratta piuttosto di un rinvio.

“Non è ancora il momento”!

Ed è proprio su questo momento di sospensione che bisogna incidere.

In passato, l’orologio biologico delle donne era anche la vicina/parente impicciona che chiedeva insistentemente novità alla sposina. Oggi in periodo di comunicazione politically

correct occorre spiegare, informare in modo capillare e continuativo, portare a

conoscenza delle donne e degli uomini che la fertilità è una curva gaussiana che comincia a scendere molto prima che la donna consideri la questione come una opportunità.

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