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7. Ancora sul consensus della filia familias.

La presente trattazione non può prescindere dal ruolo del consenso femminile al momento dell’‘atto’ di fidanzamento, orientato all’acquisto di una piena responsabilità circa la condotta da tenersi durante il ‘rapporto’ prematrimoniale. Le fonti sembrano compatibili con la tesi per cui la fanciulla debba essere consenziente e quindi debba manifestare in modo consapevole la propria volontà per la sussistenza dell’unione prematrimoniale480.

Non lascia spazio a dubbi la testimonianza di Salvio Giuliano, secondo la quale è necessario che la figlia acconsenta al proprio fidanzamento:

D.23.1.11, Iul. 16 dig.

Sponsalia sicut nuptiae consensu contrahentium fiunt: et ideo sicut nuptiis, ita sponsalibus filiam familias consentire oportet481.

Pare corretto interpretare l’ablativo consensu con valore strumentale: gli sponsalia, infatti, si realizzano per mezzo del consenso di chi li contrae, così come le nozze. Al principio espresso da Giuliano dobbiamo accostare l’insegnamento ulpianeo sufficit nudus consensus ad costituenda sponsalia482, che sembra ribadire che il consenso sia condizione necessaria e sufficiente per la validità dell’atto di fidanzamento. Ma Giuliano tiene a precisare che, tanto per le nozze quanto per

479

Ibidem, nt. 16.

480

Qui come altrove non ci si soffermerà, se non nei casi assolutamente necessari, sulle ipotesi interpolazionistiche avanzate sui testi in modo piuttosto frequente dagli studiosi. Non si può prescindere al riguardo dalle considerazioni di Volterra (Ancora sul consenso della filia familias agli sponsalia, cit. p. 535), particolarmente incisive anche in quanto inserite nel contesto di un’aspra polemica tra due grandi maestri dei quali l’uno è appunto Volterra e l’altro è S. Solazzi, In tema di divorzio, in BIDR 34, 1915 pp. 1-28.

481

Diversamente Orestano (La struttura giuridica del matrimonio romano, cit. pp. 210-211 e nt. 558), che dà conto anche delle tesi interpolazionistiche, preferendo aderire alla recente impostazione di Astolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit. pp. 72-74. Come segnalato, si occupava del rapporto tra consenso paterno e filiale già Voci, Storia della patria potestas, cit. p. 404.

482

145 gli sponsalia, occorre che (anche) la figlia acconsenta. La precisazione denota evidentemente che, quando il giurista scrive, l’assunto non fosse poi così pacifico e così scontato; va altresì rilevato che oportere è un termine proprio del liguaggio tecnico-giuridico civilistico, da cui è possibile evincere che la questione non sia stata affrontata ed approfondita solo in ambito pretorio, ma risalga probabilmente ad un dibattito afferente al ius civile stesso.

Quanto agli aspetti linguistico-giuridici, si rileva come l’autore dei Digesta faccia esplicito riferimento alla categoria delle filiae familias e non, più in generale, alla categorie delle donne: non vengono utilizzati termini quali puella o femina, ma proprio quello di filia, in potestate. Il rilievo non è fine a se stesso: non ci stupisce che sia necessario (anche, sic!) il consenso della donna sui iuris, anche se dovremo tuttavia interrogarci sul ruolo del suo tutore al momento del compimento dell’atto, ponendoci il problema dell’integrazione della sua volontà483

.

Quando la filia si trova sotto la potestà paterna il padre suole prendere le decisioni più importanti e tra queste, di certo, va annoverata anche la scelta del fidanzato; ma tale scelta, stando a Giuliano, evidentemente non può prescindere dall’adesione personale della diretta interessata.

È il caso a questo punto di porre a confronto col passo di Giuliano un frammento estratto dalla monografia ulpianea sugli sponsalia:

D.23.1.12.1, Ulp. l.s. de spons.

Tunc autem solum dissentiendi a patre licentia filiae conceditur, si indignum moribus vel turpem sponsum ei pater eligat.

A ben vedere Ulpiano restringe le ipotesi in cui la figlia possa manifestare dissenso a fronte della scelta paterna; più precisamente, il passo contiene due informazioni: in primis si può prescindere da un assenso ostentatamente manifestato; in secundis il dissenso filiale è opponibile solo nel caso in cui la scelta paterna sia ricaduta su un soggetto ‘indegno per la sua condotta morale’ o ‘deforme’484

.

483

La tematica sarà presa in esame in seguito.

484

L’accezione fisica dell’aggettivo turpis, proposta da Astolfi (Il fidanzamento nel diritto romano, cit. p. 73 nt. 27), è accolta da Fayer, La familia romana 2, cit. pp. 62-63 e nt. 168; gli AA. mettono in risalto la congiunzione vel; tuttavia, forse, i ‘difetti’, per assumere una rilevanza idonea a giustificare il rifiuto,

146 Non si comprende però come, ai tempi di Ulpiano485, la prassi di considerare rilevante l’opinione della filia in ordine alla scelta del proprio fidanzato fosse (in parte) venuta meno, o comunque ridimensionata486. Pertanto, almeno in questo caso, sembra opportuno aderire all’ipotesi interpolazionistica prospettata da Volterra, avente ad oggetto il passo del giurista severiano, sebbene limitatamente alla chiusa indignus moribus vel turpis ed all’avverbio solum487; la scelta di restringere la possibilità di opporsi solo in questo caso specifico ha forse un’impronta post-classica, pur nella consapevolezza che, quando si affronta il tema delle interpolazioni, occorre procedere con estrema prudenza488. Desta tuttavia perplessità la restrizione della possibilità di opporsi da parte della fanciulla al solo caso di un fidanzato dai costumi indegni o deforme. Protrebbe trattarsi di un’impronta ‘cristiana’ per quanto attiene alla rilevanza della moralità, ma certo non anche con riferimento alla deformità fisica; l’influenza della cultura cristiana potrebbe ravvisarsi anche nell’espressione turpem sponsum, laddove l’aggettivo turpis non avesse un’accezione fisica o, pur avendola, inerisse alla sola incapacità procreativa, impedimento significativo in ambito tardo-cristiano. Riteniamo tuttavia che quest’ultima osservazione operi sul terreno della mera supposizione.

potrebbero dover coesistere. Diversamente da Fayer,si può ritenere che casi di tal fatta non dovessero essere così infrequenti.

485

Poco più di mezzo secolo dopo rispetto al periodo adrianeo.

486

Sebbene Astolfi (Il fidanzamento nel diritto romano, cit. p. 3) ritenga sussistere una sorta di ricorso storico per il quale il consensus della filia non rileva in età preclassica, assume invece un ruolo significativo durante il periodo classico, ma già sotto i Severi tornerebbe a ridimensionarsi (C.5.4.1, Impp. Sev. e Ant., del 199 d.C. ), sino ad essere soppresso nel tardo impero.

487

Cfr. sopra. Ma sul punto si veda Astolfi (Il fidanzamento nel diritto romano, cit. p. 73), che ritiene che questa limitazione alla libertà di giudizio sia conforme al diritto post-classico e giustinianeo.

488

Giungiamo, pur per altra via, alle medesime conclusioni di Volterra (Diritto di famiglia, cit. pp. 132-140), che sostiene l’interpolazione sulla base di una comparatio tra regime classico e regime post-classico, partendo dall’esegesi di D.23.1.11, Iul. 16 dig.; D.23.1.12, Ulp. l.s. de spons.; D.23.1.7, Paul. 35 ad ed.; C.Th. 3.5.11; C.Th. 3.5.12; C.Th. 3.10.11; C.5.1.4; C.5.4.20; D. 23.1.12.1.; riscontriamo un concorde avviso nelle parole di Di Marzo, Lezioni sul matrimonio romano, cit. p. 9; Bonfante, Corso di diritto romano 1, cit. p. 310; Volterra, Lezioni di diritto romano, cit. pp. 382-383. Sul tema anche Voci, Storia della patria potestas, cit. p. 404 ntt.29-30. D’accordo sull’interpolazione ancora Di Marzo (Lezioni sul matrimonio romano, cit. p. 9), il quale afferma che, stando alla visione dei giustinianei, solo in caso di esigenze etiche imprescindibili la figlia ha la possibilità di opporsi al padre; sul punto anche Astolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit. p. 73 nt. 27 e Fayer, La familia romana 2, cit. p. 63.

147 Ma veniamo al significato di turpis. Turpis: quod est informis et turpeat, secondo i lessici si può rendere con ‘brutto’, ‘deforme’, ‘sconcio’, nella sfera fisica, ma è anche sinonimo di indecens, inhonestus, flagitiosus, indignus, infamis, da intendersi come ‘vergognoso’, ‘vituperoso’, ‘infame’, ‘indecente’, ‘disonesto’, ‘turpe’, ‘indegno’, in ambito morale489

. I giuristi ne danno sempre un’accezione morale490

. Peraltro, nel frammento in esame, compare la disgiuntiva vel: le due condizioni – indegnità o turpitudine – sembrano pertanto essere autonomamente idonee e sufficienti a legittimare l’opposizione della fanciulla.

Stupisce a questo punto la ridondanza: perché i compilatori del Digesto avrebbero dovuto utilizzare la doppia aggettivazione riconducibile alla medesima area semantica? Vero è che se la puella fosse legittimata ad esperire il rifiuto (anche) a fronte della scelta di un partner poco avvenente, l’intensità della rilevanza della sua volontà e del suo consenso sarebbero più che significativi anche per quanto attiene alla visione giustinianea.

È tuttavia sul mero riferimento alla morale che si potrebbe fondare il sospetto di interpolazione491, unitamente alla considerazione che il tenore del testo di Giuliano non desta incertezze, visto anche l’uso di una terminologia tecnico-giuridico-civilistica: ita sponsalibus filiam familias consentire oportet. Indipendentemente dalla modalità di manifestazione, il consenso della fanciulla sembra proprio essere imprescindibile492.

489

L.T.L., s.v. turpis, 4, p. 837.

490

VIR, s.v. turpis, 5, coll. 1144-1145.

491

Come si è già detto, in epoca post-classica, ad un certo punto il fidanzamento prevede nuovamente una promessa dell’uomo sorretta dalla dazione di un’arrha sponsalicia che il ‘promittente’ perderà nel caso in cui il matrimonio non avvenga. Se il matrimonio non avverrà per motivi imputabili alla ragazza, costei dovrà restituire in un primo tempo il quadruplo della caparra e, successivamente, grazie ad una mitigazione della disciplina, il doppio della stessa; a ben vedere in età post-classica la dimensione consensuale-volontaristica, di elaborazione pretorio-giurisprudenziale, che caratterizzava l’età classica, perde terreno e, con una sorta di struttura ad anello, si avrà il ritorno di una dimensione formalistica e patrimoniale a scapito della rilevanza del consensus. La responsabilità che ne sorge è primariamente di tipo giuridico-patrimoniale. Peraltro gli ‘istituti familiari’ saranno altresì connotati se non addirittura intrisi della morale cristiana, che non poco influirà sulla disciplina degli stessi. Per tali ragioni giustifichiamo la nostra tesi interpolazionistica, atteso che il restringimento della possibilità di un rifiuto da parte della fanciulla al solo caso di indegnità di costumi e di amoralità non corrisponde al modello classico pre-cristiano. Si rinvia in proposito al cenno al fidanzamento post-classico e giustinianeo di cui in Premessa. Per la consueta capacità di esaustiva sintesi si veda, a questo punto della disamina, Brutti, Diritto privato nell’antica Roma, cit. p. 211.

492

148 A queste riflessioni si può aggiungere l’osservazione che la pregnanza del consensus della diretta interessata si possa desumere anche dall’et a primordio aetatis sponsalia effici possunt, si modo id fieri ab utraque persona intellegatur, contenuto nel più tardo e discusso passo di Modestino493; solo la rilevanza del consensus può infatti giustificare la ragione per cui lo stesso allievo di Ulpiano si interroghi sulla capacità di discernimento del fidanzando (si modo ... intellegatur) 494: soltanto chi comprende la portata del proprio gesto può esprimere un valido consenso.

In un altro passo il maestro di Modestino specifica altresì che il consenso si possa desumere anche da un silenzio-assenso della filia:

D.23.1.12 pr., Ulp. l.s. de spons.

Sed quae patris voluntati non repugnat, consentire intellegitur495;

Da questo principio enunciato da Ulpiano Astolfi496 deduce che la figlia possa sempre opporsi al padre, purché lo faccia apertamente.

Tuttavia, da quando scrive Giuliano qualcosa potrebbe essere comunque cambiato: l’allievo di Giavoleno Prisco riconosce valido il fidanzamento scelto dalla figlia, al quale il padre acconsenta implicitamente, rimanendo silente497. Ulpiano prescrive che alla scelta paterna ci si possa opporre soltanto espressamente da parte di una filia repugnans: una situazione speculare e contraria rispetto a quella descritta da Giuliano. A meno di non accogliere l’interpretazione di Castello che, nella sua esegesi di D.23.1.7.1, nel ricondurre quel nisi evidenter dissentiat- espresso da Paolo nel suo

493

D.23.1.14, Mod. 4 Diff., per la cui esegesi si veda sopra. Accogliamo l’ipotesi di Volterra (Ancora sul consenso della filiafamilias agli sponsalia, cit. pp. 531-532), che tuttavia ritiene che il consenso della fanciulla sia «passivo».

494

Non riteniamo di stravolgere la fonte estendendo il principio tanto al maschio quanto alla bambina, forti anche del ab utraque persona che richiede la cognizione dell’atto da parte di entrambi i ‘contraenti’.

495

Insegnamento che per Volterra (Ancora sul consensus della filiafamilias, cit. p. 529), assurge evidentemenete a regula iuris; l’A. si esprime in termini di «consenso passivo» in Lezioni di diritto romano, cit. p. 375. È significativa anche la lettura di Di Marzo (Lezioni sul matrimonio romano, cit. p. 9), per cui vige nel diritto classico il principio in base al quale la filia «si ritiene consenziente ‘anche’ se tace»; quell’ ‘anche’ è apprezzabile e sembra cogliere nel segno: il consensus è talmente importante, che lo si può desumere anche dal silenzio conseguente alla scelta paterna; sul frammento anche Voci, Storia della patria potestas, cit. p. 404.

496

Il fidanzamento nel diritto romano, cit. p. 73.

497

149 commento all’Editto498

- alla figlia, subordina la validità del fidanzamento organizzato dal padre al non-dissenso della filia499 – interpretazione che renderebbe omogenea la disciplina –, dobbiamo necessariamente riscontrare un mutamento dei mores che caratterizza l’arco temporale compreso tra l’età adrianea e il III secolo d.C.

Vero è che da un passo contenuto nei libri Responsorum di Marcello sembra prima facie possibile evincere l’assoluta libertà di una donna di rompere il fidanzamento, limitandosi a notificare il “ripudio” al diretto interessato:

D. 24.3.38, Marc. l.s. resp.

Lucius Titius cum esset filius familias, voluntate patris uxorem Maeviam duxit et dotem pater accepit: Maevia Titio repudium misit: postea pater repudiati absente filio sponsalia cum ea de nomine filii sui fecit: Maevia deinde repudium sponsalibus misit atque ita alii nupsit. Quaero, si Maevia aget cum Lucio Titio quondam marito et a patre herede relicto de dote et probetur culpa mulieris matrimonium dissolutum, an possit maritus propter culpam mulieris dotem retinere. Marcellus respondit, etiamsi ut heres institutus a patre Titius conveniretur, tamen, si sponsalibus non consensisset, culpam mulieris multandam esse500.

Il passo è connotato da una rilevante complessità; è probabile che si tratti di un caso di scuola, come comproverebbero i nomi fittizi, ma l’intricata struttura della vicenda descritta fa supporre che la base possa essere reale.

Molti sono gli aspetti che rilevano ai fini di questa disamina; ma, a questo punto della discussione, ci interessano peculiarmente solo alcuni elementi501. La prima parte del passo è impostata con una chiarezza didascalica, la descrizione non lascia nulla alla fantasia o alla intepretazione; tutto viene espresso e specificato: Lucio Tizio prende in moglie Mevia per volontà

498

D.23.2.2, Paul. 35 ad ed.. Per quanto riguarda l’osservazione di Castello si rinvia al paragrafo precedente.

499

Cfr. sopra.

500

Si sofferma maggiormente sugli aspetti dotali e sulla culpa mulieris J. Paricio, La relevancia juridica de unos esponsales, cit. pp. 493-498. Per l’inquadramento dell’opera di Marcello cfr. F. Schulz, History of Roman Legal Science, Oxford 1946, p. 232; R. Orestano, in NNDI 10 s.v. Marcello Ulpio, Torino 1957 , p. 206; C. Zülch, Der liber singularis responsorum des Ulpius Marcellus, Berlino 2001.

501

Ci riserviamo tuttavia di riprendere – anche più volte – il presente frammento; è interesse esplicitare che, trascurando volutamente ogni aspetto inerente alla dote ed alle donazioni obnuziali per esigenze contenutistiche e di economia del lavoro, scegliamo volutamente di citare solamente ma di non commentare proprio il quaesitum e la solutio del casus, soffermandoci esclusivamente sugli antefatti della vicenda, in quanto connotati da significativa rilevanza ai fini delle considerazioni su quello che costituisce oggetto del presente paragrafo.

150 del di lui padre, in quanto è un filius familias, e, come tale, sottoposto alla potestas. L’informazione che ricaviamo da questa premessa è che il figlio in potestate può maritarsi voluntate patris502; nel caso di specie abbiamo anche un soggetto di sesso femminile - di cui non conosciamo l’età né la condizione - che mittit repudium, ovvero scioglie unilateralmente le nozze. Stando al tenore del passo, costei agisce in prima persona, senza intervento apparente di qualcun altro, né del pater né, tanto meno, del tutor. Ella manifesta semplicemente la volontà speculare e contraria nei confronti delle nuptiae; venendo meno il suo consenso, questo evidentemente basta ad interrompere il rapporto matrimonale.

La vicenda non termina qui: ancora, il pater di Lucio Tizio provvede ad instaurare con la stessa Mevia un rapporto di fidanzamento con il figlio; ma, questa volta, l’esaustiva narrazione di Marcello delinea una situazione giuridica del tutto difforme dalla precedente: Mevia notifica il ripudio con la finalità di sciogliere il fidanzamento, ma non è specificato il soggetto destinatario della renuntiatio. Potrebbe essere lo stesso Titius, o il pater di costui, esso non è chiaramente indicato; tuttavia una cosa è certa, la donna agisce nomine proprio in prima persona. Fayer503 ipotizza che si tratti di una donna sui iuris ed in età idonea a prendere da sola le decisioni della propria vita. Tuttavia il frammento non precisa nulla sul punto, per cui si può accogliere l’idea che la fanciulla sia davvero sui iuris, oppure che, anche se in potestate, per il compimento di un atto personalissimo, ella possa agire liberamente; oppure ancora possiamo ipotizzare che il giurista semplicemente non si sia posto il problema, essendo il frammento incentrato sulla valutazione giuridica degli atti compiuti dal filius, da suo padre, nonché sugli aspetti dotali-patrimoniali della questione504.

La fanciulla sui iuris ha di certo una libertà maggiore:

502

Sull’espressione ‘in potestate’ si tornerà di seguito.

503

Fayer, La familia romana 2, cit. p. 88 e nt. 268.

504

D. 24.3.38, Marc. l.s. resp.: quaero, si Maevia aget cum Lucio Titio quondam marito et a patre herede relicto de dote et probetur culpa mulieris matrimonium dissolutum, an possit maritus propter culpam mulieris dotem retinere. Marcellus respondit, etiamsi ut heres institutus a patre Titius conveniretur, tamen, si sponsalibus non consensisset, culpam mulieris multandam esse.

151 D.23.1.10, Ulp. 3 disp.

In potestate manente filia pater sponso nuntium remittere potest et sponsalia dissolvere. enimvero si emancipata est, non potest neque nuntium remittere neque quae dotis causa data sunt condicere: ipsa enim filia nubendo efficiet dotem esse condictionemque extinguet, quae causa non secuta nasci poterit. Nisi forte quis proponat ita dotem patrem pro emancipata filia dedisse, ut, si nuptiis non consentiret, vel contractis vel non contractis repeteret quae dederat: tunc enim habebit repetitionem505.

Ulpiano lo esplicita chiaramente: se la figlia si trova sotto la potestà, il pater ha la possibilità di inviare la renuntiatio al fidanzato di lei, sciogliendo così il fidanzamento. Se, al contrario, è intervenuta l’emancipazione, questo potere paterno è chiaramente venuto meno, tanto con riferimento allo scioglimento in sé, quanto riguardo alla modalità di esternazione della volontà di dissolvere, benchè essa avvenga attraverso un nuntius. Si devono fare al proposito due osservazioni. In primo luogo Ulpiano riferisce che il padre può sciogliere il fidanzamento della figlia in potestate inviando al suo fidanzato il nuntius. Innanzitutto egli non sembra affermare – ma neppure negare – che, per farlo, il pater debba agire con il consenso della filia. In secondo luogo merita rilevare come il giurista specifichi che, nel caso di una figlia emancipata, il padre non possa sciogliere gli sponsalia, tanto meno inviando un nuntius. Evidentemente tale precisazione non è fine a se stessa: porre termine ad un rapporto che è primariamente personale ed affettivo prima che giuridico, attraverso l’intervento di un latore della volontà del diretto interessato, può costituire una questione delicata già di per sé; l’intervento ulteriore di un terzo soggetto, sebbene si tratti del pater che agisce nell’esercizio della sua potestas, è ancora più problematico: non sarà un caso che l’argomento venga affrontato nelle Disputationes506

.

505

Ai fini della nostra disamina interessa la prima parte del frammento; la seconda parte si occupa della dote, argomento espunto dall’oggetto della nostra ricerca; abbiamo ritenuto tuttavia di riportare integralmente il passo. Peraltro, dobbiamo evidenziare che il frammento è estratto dalle disputationes: il giurista severiano dunque conferma che trattasi di questione controversa, tutt’altro che pacifica, forse ancora quando egli scrive.

506

Sul frammento, quanto alle questioni dotali, cfr. P. Simonius, Die Donatio Mortis Causa im klassischen römischen Recht, Basilea 1958, pp. 230-232; H.H. König, Die vor der Ehe bestellte dos nach klassischem römischem Recht, in SDHI 29, 1963, pp. 151-237, in part. pp. 215-216. Di Marzo (Lezioni sul matrimonio romano, cit. pp. 21-22), riscontra nel passo una prova circa la libertà paterna di sciogliere il fidanzamento della filia in sua protestate, tout court, dando conto di ipotesi interpolazionistiche con riferimento alla parte del frammento destinata agli aspetti dotali; Voci (Storia della patria potestas, cit. p.