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del Giappone a fine del XVI secolo, ma anche comprenderne il significato, analizzando le sfaccettature e le diversità.
Le descrizioni degli abiti e del vestiario sfoggiato dai quattro principi giapponesi varia molto nel corso del viaggio italiano. Si affiancano momenti di altissimo livello simbolico, i quali richiedevano l’uso di un abbigliamento da cerimonia adeguato alle circostanze, a momenti meno solenni che consentivano anche una minore formalità, nonché l’uso di abiti di foggia occidentale. Distinguiamo così le diverse occasioni. Il primo incontro col granduca Francesco I è già stato affrontato all’inizio del capitolo e si è visto come l’attenzione riservata ai principi fosse subordinata al ruolo di vero protagonista che nella cronaca di Tolomei si trovava ad avere il sovrano toscano66. La delegazione sostò tra Pisa e Firenze per quasi una settimana; le occasioni ufficiali e i ricevimenti furono numerosi e l’attenzione per lo scambio di doni fu realmente notevole. Nondimeno non vi fu mai nessun’altra descrizione del vestiario, che pure doveva essere ricco e appariscente per destare stupore in chiunque il vedesse sfilare sul “palco”. Vediamo dunque sin da questo primo momento d’incontro una vera e propria particolarità del mondo toscano: la grande attenzione, spasmodica per certi versi, mostrata dai funzionari ducali per la soddisfazione degli interessi sovrani, li spinse a porre l’accento esclusivamente su quelle informazioni che potessero risultare utili in qualche misura a Francesco I, sicuramente meno propenso a leggere dispacci sull’abbigliamento dei quattro principi, quanto piuttosto interessato a ricevere notizie circa l’andamento del proprio progetto di messa in mostra di sé.
Per trovare nuovamente informazioni che spostino il punto di vista sui quattro ambasciatori occorre trasferirsi a Roma, in occasione dell’accoglienza solenne riservata loro dal Pontefice. L’intera città di Roma, con tutta la nobiltà, la Curia e la popolazione prese parte con curiosità e interesse al concistoro pubblico che già si è avuto modo di descrivere nelle pagine del precedente capitolo. Proprio in quest’occasione ritroviamo le descrizioni dei quattro principi vestiti di tutto punto, sfoggianti i loro abiti da cerimonia tradizionali:
«Questi Principi Indiani hanno q.ta mattina nella sala Regia havuto il Concistoro publico levati al popolo da tutta la Corte, dalle guardie del Papa, et nel modo che si fa à gli altri Amb.ri di Re co ‘l saluto dell’artigl.e solite, condotto in mezo a 6 delli principali Prelati, che sono qua, essendo essi trè, et il quarto rimasto all’alloggiamento infermo, cioè due nipoti del Re di Fiunga, uno chiamato Yto Don Mancio et l’altro Chiyva Don Miguel nipote del Re d’Arima et del Re d’Omura. Gli altri dui sono principal.mi [principalissimi] ss.ri nel Giapon di quel regno di Figta, uno di nome Nocauro Don Iulian, et l’altro Fara Don Martin. Ha orato per loro un P.re Iesuita Portughese, et essi sono comparsi in habiti Indiani, cioè con drappi d’oro a guisa di pacienze sopra vesti tessute di seta di varii colori a figura di diversi uccelli, con scimitarre al fianco stravaganti, et in testa cappelli di feltro mischio con piume bianche all’uso nostro, et sono andati a Palazzo a cavallo di tre chinee bianche coperte di velluto, et guarnite d’oro di quelle del Papa»67.
L’eccezionalità e importanza di questa scena si evidenzia anzitutto nel fatto che il Pontefice - caso su cui è opportuno insistere con forza - avesse concesso che il Concistoro, organo di governo per eccellenza dei domini pontifici, si svolgesse in forma pubblica. In particolare, però, è l’esibizione dei quattro giovani a interessare. Giunti al culmine del loro viaggio, davanti alla massima autorità del mondo cattolico, ecco che il ruolo di icone silenti rivestito dai quattro principi non può più
66 Si veda nota 3 del presente capitolo; ASFi, Manoscritti 129, M.TOLOMEI, f. 364.
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sfuggire. Come infatti si è visto in apertura di questo lavoro, a prendere la parola fu un interprete della Compagnia. Egli occupa la scena e dialoga col Pontefice; egli e non i quattro giovani è il vero ambasciatore. Ancora una volta, perfino nel momento di massima celebrazione e cerimonialità, ai principi giapponesi è riservato un ruolo di semplici spettatori. Ciò che colpisce, inoltre, è la disposizione sulla scena dei protagonisti di quest’opera: farli comparire «in habiti Indiani» aveva un significato simbolico tutt’altro che secondario. Era la controparte visiva delle informazioni contenute nelle cronache a stampa di cui si precedentemente parlato. Serviva a mostrare l’alterità, la diversità. Era un momento di conoscenza, questo è indubbio, ma le finalità didattiche occupavano una posizione secondaria; era invece un’operazione mentale molto più raffinata quella condotta dai gesuiti: l’idea era quella di cristallizzare le differenze, rendere evidenti, in tal modo si poteva ottenere il duplice fondamentale risultato di rendere nota - e quindi assimilata e per certi versi dominata - la cultura giapponese, mostrando inoltre l’importanza e la grandezza dell’evangelizzazione missionaria in Oriente.
Un caso analogo, ancora più evidente e documentato, è rappresentato dalla cronaca milanese di Urbano Monte. Questo si deve anche al fatto che il Monte, proprio come l’anonimo cronista romano si impegnò nella raccolta di informazioni e notizie che arricchissero il suo testo e rispondessero alla sua curiosità rivolta verso il mondo orientale e esotico che all’epoca era il Giappone: «Vestono di drappi di seta molto leggeri come taffetà o ormesino, tessuto de varii colori bellissimi con diverse sorti di fiori, uccelli et altri animali del Giapone»68.
Non è un caso che si sia partiti nell’analisi dell’incontro tra culture proprio dalle descrizioni del vestiario: tra tutte le diverse novità che il mondo italiano poté scoprire durante l’ambasceria gesuitica, la cosa meno ignota doveva essere indubbiamente rappresentata dei tessuti. Al contrario della fisionomia, dei costumi alimentari o delle abitudini quotidiane, non è improbabile pensare che in Europa già circolassero delle imitazioni dei meravigliosi abiti orientali con cui i principi si presentarono alle autorità laiche ed ecclesiastiche della Penisola. La cosa che incuriosisce maggiormente della relazione del Monte è la mancanza di uniformità tra la descrizione che egli fece e il ritratto dei principi da lui stesso eseguito. Come si può vedere nell’immagine che segue, infatti, la realizzazione degli acquerelli dedicati ai giapponesi, li vede effigiati con vestiti rossi all’occidentale, con tanto di berretti e gorgiera. Questo perché nell’ottica di una cristianizzazione del Giappone, il cambio di vestiario venne visto come una seconda conversione. Dopo aver abbracciato la fede attraverso il battesimo, ecco che i principi diventavano europei a tutti gli effetti abbandonando proprio alla corte papale i vestiti di una cultura pagana con cui si erano presentati a Roma. Fu proprio lo stesso Gregorio XIII, infatti, a omaggiare i quattro di un sontuoso dono: «Il Papa mandò loro l’altro giorno a donare mille s.di et una cassa piena di drappi di seta, di varii colori per vestirsi alluso n.ro, et doppo mandò il suo m.ro di Camera a vedere se volessero altra cosa, con ordine che non facessero più visite a Car.li»69. Dei vestiti presenti nella cassa è stato possibile rinvenire anche il lungo elenco:
«Vestimenti fatti da Sua S.tà a due Eccel.mi S.ri Imbasciatori Giaponesi. Quattro Rubboni, o vero sottane di velluto nero, con astoni guarniti a spina di pesce, con bottoni d’oro, con maniche lunghe, guarnite a spina di pesce sino a terra. Di trina d’oro, largha un dito et mezzo, foderato di taffetà doppio, con una mostra di cremisino nero vellutato. Quattro sottane di velluto nero con trina d’oro
68 U.MONTE, Compendio delle cose più notabili successe alla città di Milano, cit., f. 90.
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largha un dito, et bottoni d’oro da capo a piedi, con maniche guarnite a spina di pesce come sopra. Quattro giubboni di raso cremisino venetiano, trinciati et foderati di taffetà verde, con trine d’oro mezzo dito larghe, et con bottoni d’oro. Quattro berrette di velluto nero, con trecce di passmano, d’oro fino a punta di diamante. Quattro para di calzoni di raso cremisino venitiano all’usanza moderna trinciati, et con due trine d’oro per il lungo con bottoni d’oro. Dodici para di calzette, cioè quattro di seta rossa, et quattro di rosa secca cremisina di Napoli, et quattro di seta nera. Otto para di ligacci di seta di Bologna largha a rose secche. Otto para di scarpe all’usanza Romana, con fettucce di seta»70.
Figura 4 Compendio delle cose più notabili successe alla città di Milano e particolarmente alla famiglia dei Monti, dal 1585 al 1587, quarta parte, conservato presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, P 251 sup. ff. 88-89v. Le
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riproduzioni qui presentate sono state invece tratte da Camera di Commercio di Milano, Anno 1585. Milano incontra il
Giappone. Testimonianze della prima missione giapponese in Italia, presso Diapress, Milano, 1990.
Dopo aver presentato lo iato maggiore tra mondo cattolico-europeo e mondo giapponese durante il Concistoro, veniva ora ribaltata la scena: i quattro principi erano letteralmente vestiti dall’Europa, dalla cattolicità. Era il modo simbolico perfetto per eliminare ogni sorta di distanza, una conquista spirituale, mentale e financo fisica si era svolta. Ecco dunque l’estremo addomesticamento, il definitivo colonialismo dell’immginario svolgersi attraverso l’atto della vestizione dei quattro giovani principi, entrati ora definitivamente all’interno dell’alveo della cattolicità e del mondo occidentale.
Non solo il dono del Pontefice coi suoi significati sottesi caratterizzò le rappresentazioni degli artisti italiani, ma modificò anche le descrizioni dei cronisti più attenti. Il Priuli, ad esempio, ambasciatore veneziano a Roma, diede la sua impressione del risultato finale, ossia una volta che i giovani principi, su ovvio consiglio dei gesuiti che li scortavano, decisero di accettare il dono del Papa effettuando il cambio d’abito: «Li ha mandato il Papa panni di seta per vestirsi, et mille scudi d’oro da spendere, in quello che più le piace. Si son vestiti con vesti longhe Romane con passamani d’oro all’intorno, et pareno hora tanti Dottori Bolognesi […] Roma 6 Aprile 1585»71. Inserendosi nell’ambito della querelle relativa al ruolo da ricoprire durante la processione per l’incoronazione di Sisto V, l’ironica descrizione del Priuli voleva essere una volta di più un’occasione per riflettere sul ruolo che questi visitatori, sconosciuti e ignoti, potevano avere all’interno del panorama politico italiano72.
Ancora pochi mesi dopo, quando la delegazione fece tappa a Venezia, ritroviamo il tema dell’abbigliamento come unico vero momento di difficoltà per l’organizzazione gesuitica del viaggio cerimoniale. Ci si riferisce in particolar modo al già ricordato incontro tra la delegazione e il Doge nel corso del soggiorno in Laguna. Immediatamente prima della solenne processione in Piazza San Marco, i principi ricevettero udienza privata da parte di Nicolò Da Ponte in una delle sue ultime attività pubbliche (simpatica coincidenza, proprio come Gregorio XIII, anche il Doge veneziano morì pochi giorni dopo aver incontrato i quattro giovani). L’anziano Doge ricevette i delegati che gli presentarono in dono sia abiti che armi provenienti dal Giappone. Interessante come le fonti pongano di volta in volta l’accento su diverse questioni in base alla prospettiva con cui guardarono a questo momento d’incontro. Se infatti da un lato le cronache veneziane sono molto descrittive e puntuali, soffermandosi con dovizia di particolari sugli eccentrici doni offerti al Da Ponte73, molto più attento alle conseguenze di questo momento fu il solito ambasciatore
71 ASVe, Senato, dispacci ambasciatori, Roma ordinaria, fil. XIX, f. 79. Una copia del documento è presente anche in G.BERCHET, Le antiche ambasciate giapponesi in Italia, cit., pp. 62-63.
72 «Aggionsi io dipoi, che S. S. Ill.ma facesse dare buoni ordeni in capella, accioché non nascesse qualche confusione, rispetto a quelli che si erano introdotti nel luogo di noi altri Ambasciatori, il che dissi volendo inferire particolarmente di questi signori et Ambasciatori Giapponesi, acciò che non li fosse venuto volontà di metterli tra l’Ambasciator di Francia et me, perché se bene hanno nome di Ambasciatori di Re, sono nondimeno Re tanto ignoti, e tanto poco stimati, che io mal volentieri haverei veduto una cosa di questa sorte, il quale officio ha partorito buonissimo effetto perché mercore fu fatta la incoronatione dove a me fu dato il luoco appo li Ambasciator di Francia, et li Ambasciatori Giapponesi doppo di me». ASVe, Senato, dispacci ambasciatori, Roma ordinaria, fil. XIX, f. 149.
73 «Et fatta venire una cesta con le armi et vestiti dentro, la presentarono a S. S.tà. Nella cesta erano le infrascritte robbe presentate. Un habito di tabì bianco in forma di braghesse lunghe congiunto insieme con un habito in forma di mezzo commesso: dipinto a varii colori di uccelli, fiori, et fogliami. Un mezzo casachino di brocadello tessuto a figure et fogliami di seda tirchina et gialla. Una sopravesta di taffetà a mezze maniche fodrata di ormesin rosso, tessuta, et parte dipinta a diversi colori. Una scimitarra con le vere di oro, et pontal, et col fodero rimesso di radice di perle, et
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mantovano in Laguna, quel Gabriele Calzoni già più volte citato. Nel suo tentativo di restituire il più chiaro quadro possibile alla corte gonzaghesca, il Calzoni scrive:
«Havendo donato al Pontefice passato et presente et ad altri Sig.ri tutte quelle poche cosette che havevano portate dalle patrie loro, desiderosi di mostrare alla Ser.tà S.a quale fosse l’osservanza loro verso Lui, li presentavano le lor scimitarre et pugnali portati da quei paesi con le proprie vesti con che partirono, nelle quali erano contate le armi di quei regni. Et così il Doge mostrò di aggradir il tutto con lieto viso, mirando quelle vesti fatte con diversi colori, col guardar poi diligentemente dette scimitarre, dicendo i Contemplativi qua che i P.ri Gesuiti hanno fatto gentilmente donar alla Sig.a vesti vecchie per haverne di nuove»74.
Partendo da questo spunto risulta evidente che la delegazione patrocinata dalla Compagnia non fosse vista con ugual entusiasmo da parte dell’intero establishment cattolico. Le diffidenze e le tensioni non mancavano e se rimasero confinate sullo sfondo, facendo capolino quasi per caso in momenti - come questo - totalmente inaspettati, ciò si è dovuto a due fattori: da un lato la grande abilità propagandistica e logistica mostrata dai gesuiti nell’indirizzare sempre la delegazione; dall’altro all’interesse che il mondo europeo mostrò per questo esperimento di incontro. Nel momento in cui tale disponibilità verrà meno anche il risultato delle operazioni propagandistiche degli ordini cattolici impegnati nell’evangelizzazione dell’Oriente ne verranno colpite.
Diversamente dagli abiti, interessante espressione esteriore di una cultura sconosciuta, che tuttavia qualche appiglio poteva già presentare visto i secolari rapporti commerciali che conducevano sete da Oriente in Europa, i tratti somatici dei delegati rappresentavano una novità pressoché totale per i cronisti e gli interlocutori che descrissero l’ambasceria gesuitica. Quello che qui interessa soprattutto e capire il grado di raffinatezza e le capacità di osservazione che la cultura italiana ebbe al momento dell’incontro col mondo giapponese. La diversità fisica tra orientali e occidentali è una delle più evidenti diversità tra i due mondi. È dunque opportuno interrogarsi sul grado di consapevolezza maturato nei confronti dell’“altro” nell’Italia del tardo-rinascimento e della prima età barocca.
A fronte di descrizioni sommarie e ricche di luoghi comuni, vi sono poi ben più articolate e raffinate analisi delle figure dei quattro principi, non solo estetiche, ma anche relative alle qualità morali che seppero manifestare durante il viaggio. Se dunque durante il loro soggiorno romano vennero dipinti come «giovani di 15, in 18 anni, sbarbati, et olivastri, ma de visi assai rustici»75, e se pure un cronista come Guido Savina a Venezia li inquadrò semplicemente come «huomini di bassa statura, con faccia di color olivastro et occhi piccioli, et quasi tutti simili di volto»76, ben più attento si presenta lo sguardo offerto da un confronto con le fonti fiorentine e milanesi.
I due estratti documentari che si segue a presentare risultano tra loro fortemente interconnessi e vanno per questo motivo analizzati assieme. Partiamo dalla presentazione che ne fa il cronista fiorentino Tolomei:
un coltello col manico d’oro, et un altro piron tutto d’oro con la sua cordella di seda tessuta a diversi colori, et suoi fiocco involtà in una sopra coperta di velo d’argento et di seta, et un pugnaletto in forma di cortello col suo fodro negro simile all’ebano, miniato di oro, et col suo cortellino, che ha il manico d’argento con due vere di oro nel manico in una coperta di ormesin lattado». ASVe, Collegio, esposizioni principi, registro 6, f. 132.
74 ASMn, AG, b. 1515, fil. I, f. 197, G.CALZONI, Venezia, 28 giugno 1585.
75 BAV, Urb. Lat. 1053, di Roma a 23 di Marzo 1585, f. 138.
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«Sono tutti e quattro detti Giovanetti senza barba, ed il maggiore poteva avere al più anni diciotto in circa, di non troppo grande statura; ma a proporzione e secondo gli anni erano di ragionevole altezza. Avevano la loro faccia schiacciata, e similmente ancora il naso; la testa piccola, e gli occhi piccoli; la loro carnagione pallida e smorticcia»77.
A seguire invece la più complessa e variegata descrizione del Monte, il quale dovette trascorrere diverso tempo coi quattro principi, anche solo per poter avere il tempo di ritrarli:
«In quanto alle loro effigie dalli seguenti suoi ritratti si vede la differenza che hanno, che è poca tra di loro, hanno il corpo di statura più presto piccola, che mediocre, di colore olivastro, hanno gli occhi piccoli, le palpebre grosse, il naso alquanto largho nel fine, ma di aspetto ingenuo et signorile, che non ha niente del Barbaro, nelle maniere sono civili, cortesi et modesti, fra di loro si portano molto rispetto, servando sempre nell’andare il medesimo ordine»78.
E ancora poco oltre:
«Sanno la lingua portoghese bene et la spagnola mediocremente, la latina in gran parte et intendono l’italiana quasi tutta, benché non la parlino sicura, quando però negotiano con principi parlano la naturale et adoprano l’interprete. Sanno sonare di cimbalo, di cittara, di lira, et tengono questi instrumenti in casa, giocano al trucco et sanno anco ballare»79.
La motivazione che ci porta qui a considerare assieme questi diversi estratti sta soprattutto nell’espressione “pallida e smorticcia” utilizzata dal Tolomei. Contrariamente a ogni altro passaggio incontrato che descriva i giovani giapponesi, il cronista fiorentino non li presenta come olivastri. Ripensando però a quanto riportato dal Monte, ossia l’abitudine dei principi di giocare «al trucco», riferimento che è parso coerente con la pratica della tradizione giapponese che vedeva membri della nobiltà fare uso di cosmetici per ornare il proprio viso prima di presentarsi in pubblico o al cospetto di un importante interlocutore, risulta meno interlocutoria la descrizione fornita dal cronista fiorentino. Si pone a questo punto necessaria una precisazione: il Tolomei scrive da Firenze dell’ingresso che il 16 marzo i principi fecero in città. La visita alla città gigliata, però, non fu il momento più importante del loro soggiorno toscano. Infatti il ricevimento col granduca Francesco I era avvenuto a Pisa qualche giorno prima. In quell’occasione vennero organizzati a corte balli, giochi e divertimenti di varia natura80. Risulta dunque tutt’altro che improbabile che il cronista fiorentino si fosse rifatto a descrizioni di altri testimoni, i quali, presenti a palazzo durante il ricevimento pisano, avessero assistito all’utilizzo di quel cerone bianco che diversi mesi dopo Urbano Monte ripropose nel corso della sua più lunga e raffinata analisi delle figure dei quattro principi. L’idea che si ricava da questo confronto documentario è dunque quella