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“Et con le mani toccavano i piedi dei Sig.ri mentre che loro stavano ingenucchiati” Le diverse dimensioni del viaggio in Italia

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO (pagine 116-140)

1 Il ruolo dei principi nel corso del viaggio

Uno dei temi su cui, preliminarmente, è necessario riflettere è quello relativo al ruolo dei quattro principi giapponesi: se essi siano stati delegati dei daimyō del Kyushu o delle pedine messe in campo dalla Compagnia per il suo tornaconto è tutt’oggi oggetto di discussione. Aver sin dall’inizio di questo lavoro presentato l’ambasceria come un viaggio cerimoniale a matrice gesuitica e mai come ambasceria giapponese, impone che la risposta ricada essenzialmente sulla seconda delle due opzioni. I quattro, infatti, furono, a più riprese e in base alle esigenze del momento, utilizzati come vere e proprie “icone viventi” da portare in processione per gratificare e soddisfare le esigenze religiose del mondo mediterraneo che li accolse. Furono in sostanza i “fantocci” da riempire di volta in volta con le aspirazioni politiche, religiose o culturali dei partner europei che di questo evento risultano gli assoluti protagonisti: Compagnia da una parte, realtà statali dall’altra, si spartiscono e condividono i giovani principi giapponesi. Questo emerge chiaramente durante il Concistoro pubblico approntato a Roma da Gregorio XIII. Non è un caso che nella sua descrizione avvenuta in precedenza lo si sia accostato alla processione con gli animali esotici utilizzati per festeggiare le imprese di Manuel di Portogallo. Il giudizio non paia troppo severo nella sua espressione: lo stesso Valignano, d’altronde, li aveva volutamente scelti di giovane età, non solo perché più propensi all’apprendimento pedagogico o capaci di sopportare il lungo viaggio per mare, ma anche perché più facilmente soggetti a essere controllati e posti sulla scena a uso e consumo delle esigenze del momento. Le fonti ce ne danno prova, in particolare nel carteggio degli ambasciatori fiorentini a Roma. Dapprima il Balbi dice: «Questa città desiderava vederli col medesimo habito che s’usa a lor paesi, ma s'è inteso che questi Gesuiti che son con essi loro, gli hanno fatto vestire in Fiorenza al modo loro»1, subito dopo si ha la correzione di Francesco Gerini, il quale afferma che «q.ll'habito indiano ha fatto spettacolo a questo populo, che corse tutto a vederli»2. Ecco dunque che la solennità dell’imminente concistoro diventa occasione perfetta per mettere in scena una sfilata esotica che gratifichi e compiaccia la cittadinanza e le aspettative del popolo.

In particolare fu dal punto di vista religioso che i quattro principi si trovarono a svolgere un ruolo puramente cerimoniale: la parata per Roma, la presenza nella cerimonia di insediamento di Sisto V, la processione del Corpus Domini, quella in Piazza San Marco; alcuni dei momenti più significativi del viaggio in Italia servivano a segnalare alla cristianità tutta che la Chiesa di Roma poteva vantare una potenza tale da metterla in posizione di preminenza anche nei confronti di regni posti all’altro capo del mondo. Giunti a sottomettersi al Pontefice, i principi furono propriamente sfoggiati, spogliati del loro ruolo, anche solo vagamente, diplomatico per diventare - anche esteticamente - il risultato di quella colonizzazione dell’immaginario a cui già in precedenza ci si è riferiti. In questo, anche le forme d’arte visuale e il cambio d’abiti acquisiscono una valenza simbolica assumendo il significato di un trionfo della cultura europea, e conseguentemente della

1 ASFi, Mediceo del principato, Relazioni con stati italiani ed esteri, Roma, carteggio diplomatico, lettere di segretari dei residenti, F. Babbi, 1583 gen. 3- 1586 mar. 6, fil. 3604, f. 182v.

2 ASFi, Mediceo del principato, Carteggio dei segretari, Antonio Serguidi, 1585, gen. 4- dic. 2, fil. 1193, ins. VII, carte sciolte non numerate.

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fede cattolica, sul mondo Orientale. Se si era riusciti a vincere la resistenza di una cultura come quella giapponese, che speranze avrebbe avuto il protestantesimo di trionfare nella continua lotta che vedeva opposti in Europa i due blocchi confessionali antagonisti? Anche per questo motivo, pure in un’opera non apologetica e militante, un intellettuale come Urbano Monte si affrettò a concludere la sua cronaca con un tono di forte auspicio rivolto al futuro:

«Et nel ritorno loro al Giapone si spera (portando essi nuova della grandezza della Cristianità, Maestà della Sede Apostolica, Religione della Europa, et riferendo li boni trattamenti havuti da tutti li principi christiani) gran conversione di quei principi, et popoli del Giapone, et de vicini ancora, il che piaccia a Dio esserne servito a gloria perpetua del suo nome santissimo»3.

Se però questo fu il retroterra, lo schema mentale che condizionò il viaggio, è però opportuno capire come si sia operato nel concreto e se - soprattutto - i quattro principi siano mai usciti da questa condizione puramente simbolica. Di più: nata con funzioni pedagogiche molto forti, riuscì l’ambasceria a raggiungere gli obiettivi educativi che si proponeva? E attraverso quali modalità? Definire il ruolo dei quattro delegati sembra essere il terreno più scivoloso dell’intera questione: si è visto come financo le loro firme possano trarre in inganno, per non parlare delle lettere di cui si facevano latori. Non si è mancato inoltre di mettere in evidenza la funzione “ricreativa” che li vide come protagonisti. Eppure da oggetti cerimoniali da mostrare opportunamente, i quattro principi tendono ad emergere in alcuni momenti ben precisi, durante i quali gli scopi pedagogici ed emozionali concorrono a trasformali in veri e propri protagonisti della narrazione.

Prendendo le mosse da quanto contenuto nel De Missione4, i quattro principi avrebbero appuntato lungo il loro viaggio tutta una serie di appunti sui propri diari. Tuttavia di questa documentazione, che sarebbe risultata fondamentale, non esistono esemplari sopravvissuti fino a noi; a tal punto che per lungo tempo si era anche pensato che l’informazione data nel De Missione fosse in qualche modo tesa a rinforzare gli intenti pedagogici dell’ambasceria, ma che nessun documento di quel tipo avesse in realtà visto la luce. La situazione presenta delle sfumature di incertezza molto maggiori. Una cronaca scritta da Iacopo Lapini relativa alla città di Firenze restituisce un’interessante informazione:

«Dio per sua infinita misericordia e grazia, operi sì et in tal modo verso di loro, che si conduchino sani et salvi alle loro patrie, acciò possino dire e spandere a tt.o q.l paese tt.o q.llo che con gli

3 U.MONTE, Compendio delle cose più notabili successe alla città di Milano, cit., f. 91.

4 L’intero testo del De Missione nasce come vera e propria opera apologetica. Il Valignano vede nella stesura di un’opera scritta il miglior modo possibile per divulgare in Giappone i risultati del viaggio della delegazione. Che fosse nei seminari o nei collegi gestiti dalla Compagnia, il De Missione rappresentava una sorta di testamento spirituale dell’ambasceria Tenshō. Il compito di produrre l’opera venne affidato a Duarte De Sande, gesuita portoghese; egli, da Macao, raccolse spunti e testimonianze, sia dai perduti diari dei principi, sia dalle testimonianze dirette di chi - come il Leni - seguì la delegazione al momento della partenza da Lisbona in direzione di Nagasaki. In realtà, come si vedrà in seguito, la genesi dell’opera risulta oltremodo controversa e il patrocinio iniziale di Valignano (il quale esprime anche in una sua lettera - ARSI Jap. Sin. 11 I, f. 157 - le buone finalità di una simile operazione propagandistica) appare via via sempre più ingombrante. A tal punto che si è giunti a ipotizzare che il De Sande abbia solo sistematizzato e stampato una bozza già fatta e finita dal Visitatore durante i mesi che la delegazione trascorse tra Goa e Macao prima di ripartire verso il Giappone. D. MASSARELLA (a cura di), Japanese travellers in Sixteenth-century

Europe, cit., pp. 15-21; Alessandro Valignano. Dialogo sulla missione degli ambasciatori giapponesi, M.DI RUSSO, P.AIROLDI,D.MARAINI (a cura di), cit., pp. 25-36.

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propri occhi hanno visto circa alla Fede, per salute delle anime in q.ti n.ri paese, perchè altra cosa è che il dire di veduta che d'udita»5.

Ciò che queste poche righe lasciano trasparire è l’evidenza dell’attività pedagogica connaturata alla missione. Possiamo quindi dire che fin dai primi giorni trascorsi in viaggio tra le corti della Penisola fosse emersa con forza l’esigenza di un vettore che permettesse di veicolare e divulgare adeguatamente ciò che i principi apprendevano di volta in volta, di città in città. Improbabile se non impossibile pensare che alla sola memoria dei giovani venisse affidato un compito tanto importante e complesso per gli obiettivi di lungo periodo della Compagnia in Giappone e in tutto l’Oriente. Ritorna dunque con rinnovata probabilità l’effettiva esistenza di quei diari dai quali il De Sande avrebbe poi tratto la prima stesura del De Missione.

Quale che sia l’effettivo utilizzo degli ipotetici appunti presi dai quattro giovani, un ulteriore passo in avanti nella loro caratterizzazione lo possiamo fare ripensando al binomio rivalità e meraviglia. Ci troviamo nuovamente a fare i conti con le attenzioni sovrane, dedicate stavolta non più al concetto astratto della delegazione - usata come cartina di tornasole delle proprie ambizioni - ma ai soggetti reali componenti la missione: improvvisamente, dopo essere stati muti simulacri utilizzati per questa o quella esigenza, i quattro giapponesi irrompono al centro dell’attenzione; le loro impressioni, i loro sentimenti, le loro emozioni: tutto questo diventa oggetto di attenzione per i diversi regnanti che trovano nel desiderio di essere ricordati un nuovo motivo per confrontarsi e rivaleggiare. Il mezzo usato è nuovamente la meraviglia che stavolta fuoriesce dal contesto politico per ridefinirsi come parte di una condizione sentimentale ed emozionale volta a sorprendere l’ospite finora rimasto sullo sfondo. Se dunque l’impegno mostrato fino ad ora aveva un significato di squisito protagonismo da parte delle compagini politiche italiane, possiamo ora dare spessore a quel paradigma dualistico che finalmente abbandona la sfera schiettamente politica per abbracciare anche quella culturale. Così, la rincorsa nello stupire i principi - che per loro natura erano «di gran modestia, et creanza, usando il decoro conveniente in tutte l’attioni loro»6 - conferma come rivalità e meraviglia siano in questo contesto una vera e propria endiadi. Quale che sia l’ambito di riferimento, i due termini si sostengono a vicenda, presentandosi come due facce di una stessa medaglia.

Si tratta, in buona sostanza, di quell’attenzione che è stata messa in luce sin dall’arrivo a Ferrara. La corte estense inaugurò una nuova fase nel dialogo coi principi: veri e propri oggetti dell’attenzione del duca Alfonso e della duchessa Margherita, i quattro giovani intrattennero scambi epistolari col principe, prova questa che il desiderio di essere ricordati e l’impegno messo in campo dall’Este non caddero nel vuoto. Allo stesso modo anche Venezia e Mantova, rivali nel corso del viaggio, s’impegnarono per ottenere gli stessi risultati. Prova del loro successo sono le lettere di ringraziamento scritte in caratteri giapponesi lasciate come omaggio alla città da parte dei principi. Da un certo punto in avanti vi fu uno scivolamento di questa rivalità politica verso una di stampo più emotivo, legato - anche attraverso i lasciti materiali e pittorici - alla dimensione del ricordo. Fu soprattutto Venezia a rappresentare il perno, il pivot che fece da spartiacque. Certo, come detto, già Ferrara aveva posto le basi e prima ancora ad Assisi, Foligno e Spoleto erano state donate le chiavi della città ai quattro principi, a perenne memoria; a Roma - ancora - i principi

5 ASFi, Manoscritti 121, Coronache della città di Firenze, Agostino di Jacopo Lapini, f. 164v.

6 ASFi, Mediceo del principato, Carteggio dei segretari, Antonio Serguidi, 1585, gen. 4- dic. 2, fil. 1193, ins. VII, carte sciolte non numerate.

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vennero nominati cittadini romani da parte del Senato. Tutto però era maggiormente finalizzato alla propria gloria piuttosto che a valorizzare il ruolo dei quattro delegati. In Laguna tutti questi differenti piani si incontrarono, dando origine all’accoglienza più sontuosa ed emblematica di tutto il panorama italiano.

Anzitutto venne messa in scena una processione religiosa. Essa «passò il valsente di dieci millioni di oro»7. Il cronista anonimo del manoscritto non mancò inoltre di appuntare e soffermarsi sentimento provato dai quattro principi a seguito della meravigliosa occasione di celebrazione e cerimonialità:

«Tanto che li Sig.ri Giaponesi, che per la prudentia et magnanimità loro sino a quel tempo in Roma, et altre città havendo vedute molte cose meravigliose, et essendosi dentro a se più volte meravigliati, non havevano mostrato di meravigliarsi, in vedere questa processione non si poterono contenere di non mostrar di fuori con gesti et con parole la meraviglia che havevan di dentro, tanto che dicono, che di Roma restavano compitamente sodisfatti, ma che di Venetia non possono meravigliarsi a bastanza»8.

Ecco dunque ritornare il tema di quel binomio più volte presentato: la meraviglia utilizzata come veicolo per una sempre presente rivalità. Una forma di meraviglia che non mancò mai, inoltre, di essere piegata e rivestita in base alle esigenze dell’anfitrione: non solo la Compagnia, ma anche agli attori statali, come appena mostrato, fecero più volte leva sulla cerimonialità e liturgia del viaggio per il proprio tornaconto. Il cronista anonimo di queste righe è il primo che abbozzi una caratterizzazione tanto approfondita dei principi; questi fuoriescono dal recintato ruolo di oggetti per divenire dei veri e propri soggetti della narrazione di cui fanno parte. La processione segnò una sorta di punto a quo nell’accoglienza e nello stupore. Si poteva solo procedere in avanti e sarebbe stato difficilissimo ottenere un altrettanto grande successo. Lo stesso ambasciatore mantovano Gabriele Calzoni nell’informare il Gonzaga scrive che:

«Havendo durata la detta Processione dalle dieci hore sino alle diecisette, con incredibil contento et gusto de detti Prencipi, a quali intendo che Q.sti Sig.ri vogliono dar ogni sorte di sodisfattione, affinchè quando partiranno di qua se ne vadano lietissimam.te consolati, per poter haver sempre honoratiss.ma memoria di q.sta Città»9.

L’obiettivo, in questa fase, passa dall’essere esclusivamente di stampo politico e si trasforma. L’interesse diventa quello di lasciare una traccia nella memoria del proprio ospite. Un tentativo, quello di restare impressi nella memoria dei principi, che spiega bene come mai gli stessi delegati siano diventati improvvisamente così importanti per chi li accolse. Il lato emozionale della

meraviglia trova il suo senso sia nel confronto con le altre forze politiche che nel desiderio di far

breccia nelle menti dei giovani e diventare un ricordo vivido e imperituro.

Se Venezia ci provò attraverso la processione e anche una - poi abortita - regata in onore dei principi10 Mantova dovette far leva su qualcosa di altrettanto scenografico. La scelta ricadde su uno spettacolo di fuochi artificiali organizzato sulle sponde del Mincio. Ancora una volta è al gusto

7 ARSI, Ital. 159, Cronaca anonima, f. 62v-63.

8 Ibidem.

9 ASMn, AG, b. 1515, fil. I, G.CALZONI, 29 giugno 1585, lettera da Venezia.

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e al piacere dei quattro principi, non soltanto al ritorno d’immagine per il proprio stato, che questo spettacolo guarda e si rivolge:

«Essendo hormai vicino a notte, saliti in barca a Migliareto, per acqua si inviarono verso il castello che, adornato di lumi, sicome era il lungo ponte coperto di San Giorgio, rendeva sì bella vista che rappresentava un bellissimo teatro, e così, approssimandosi al castello, scopersero due navi in mezo l’acqua, sopra le quali erano state fabricate due montagne con le colone d’Ercole col motto

plus ultra et qui si videro a volar raggi di fuoco verso il cielo et in un istesso tempo l’artiglieria

comintiò a farsi sentire con infinito strepito et rumore, con che fu dato fuoco a questo monte che poi arsero con molto piacere et gusto di detti Principi»11.

L’arrivo in Lombardia coincise con un parziale cambio di prospettiva legato alla figura del cronista milanese Urbano Monte. Egli, lontano dagli obiettivi politici e dalle rivalità, poté concentrare la sua attenzione nella descrizione il più possibile oggettiva di quanto si trovò a vedere. I principi divennero in questo contesto il vero centro della narrazione, privati delle coperture istituzionali e unicamente vestiti delle speranze genuine che l’autore serbava per il trionfo della fede cattolica. Vennero descritti con accuratezza - come si è visto - e la loro personalità emerse nuovamente come tema di primo piano: «Son di bono ingegno et di prudenza senile, et molto accorti nel conversar coi prelati, hanno forte creanza che paiono allevati in Italia: nottano bene ogni cosa che vedono ma non si maravigliano molto»12. Ecco nuovamente l’accento sulla meraviglia, che però stavolta non è accompagnata dal desiderio di concorrenza e prevaricazione cui si era sempre legata. È certamente una descrizione stereotipata in cui l’ideale della saggezza giovanile si lega all’interesse descrittivo e analitico del Monte, ma è anche l’unica caratterizzazione che provi a mettere al centro della narrazione queste “icone” mute che mai nel corso del viaggio avevano ricevuto interesse come soggetto. Viste sempre come mezzo, come strumento per il raggiungimento di un fine, è solo con questa prima, parziale e imperfetta “presa di coscienza” dell’“altro” che su un evento propagandistico e costruito, riesce ad aprirsi inaspettatamente una finestra che consenta di vedere oltre il mondo della finzione narrativa e accedere a quello di un’alterità che si vedeva presentata per la prima volta coi suoi caratteri originali.

Tutt’altro che improvviso, in verità, fu l’inserimento del mondo giapponese all’interno dei canoni mentali europei: processioni, forme d’arte, perfino gli abiti donatigli dai sovrani; tutto rientrava nell’ottica di una sempre più marcata presa di contatto; una sorta di tentativo di assimilazione e dominazione dell’alterità. In questo paradigma di colonizzazione mentale e conquista culturale, lo stesso ricorso alla meraviglia pare funzionale agli interessi della cattolicità e dei sovrani italiani: destare lo stupore dei principi, riferirsi al campo delle emozioni e far emergere la fascinazione che il mondo europeo poteva vantare agli occhi dei quattro giovani significava fare un passo in avanti nella colonizzazione dell’immaginario. Tale colonizzazione veniva ad assumere i caratteri di una vera e propria conquista; un tentativo di dominare le giovani e malleabili menti dei quattro principi, rivelando una volta di più come il soggetto dell’ambasceria fosse non certo il Giappone, posto sullo sfondo e solamente sfiorato, ma l’ambizione e determinazione europea all’interno di un tentativo che non pare troppo azzardato definire di addomesticamento culturale.

11 ASMn, AG, b.389, ff. 386-86v.

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2 Gli anfitrioni e le dimostrazioni pubbliche di forza e grandezza: i Medici, la Serenissima, i Gonzaga

Se l’attenzione posta in precedenza sui quattro principi ha consentito di mettere a fuoco il ruolo loro assegnato all’interno del viaggio, è ora più che opportuno rintracciare i modi e significati dell’azione sovrana durante le accoglienze riservate alla delegazione. Averli definiti sin dal titolo come “anfitrioni” ci restituisce l’immediata sensazione di ciò che furono effettivamente le diverse soste dell’ambasceria: atti di una rappresentazione teatrale con i quattro delegati a calcare perennemente la scena secondo le volontà dei sovrani e delle città ospitanti. Il fasto, le cerimonie pubbliche, le liturgie, la meraviglia, tutto era finalizzato alla messa in mostra di sé; mostrare il proprio rango e il proprio valore all’interno della doppia sfera locale-globale. Mentre da un lato, infatti, non si mancò mai di esprimere le proprie ambizioni e far sfoggio di una sorta di rivalità tra i diversi soggetti sovrani della Penisola, dall’altro risultava d’obbligo - per le stesse motivazioni poco sopra espresse di addomesticamento e colonizzazione mentale - far sfoggio di sé nel tentativo di restare impressi nelle menti dei giovani principi.

Ci si deve anzitutto chiedere cosa intendano mostrare i Medici, la Serenissima, i Gonzaga e le altre famiglie chiamate in causa nel corso del viaggio ai quattro giapponesi giunti in Italia. I primi tentativi di strumentalizzazione del viaggio vennero fatti da Francesco I Medici, successore di Cosimo I e Granduca di Toscana. Livorno, ma soprattutto Pisa e poi Firenze si configurarono come

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