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Gli Anni Ottanta sono caratterizzati da una grande fioritura di analisi filmiche soprattutto in ambito universitario; parallelamente nascono pubblicazioni di tipo manualistico sull’analisi del film, e le riviste, da sempre attente al dibattito semiologico, pubblicano riflessioni, spiegazioni e interviste sulla prima e la seconda semiotica e in particolare sul contributo di Christian Metz agli studi filmici. Nel 1983 il manuale sull’estetica del film a cura del gruppo francese formato da Jacques Aumont, Alain Bergala, Michel Marie e Marc Vernet dedica un capitolo all’analisi del film67 in cui gli autori propongono una periodizzazione che prende in esame la prima semiotica (dal 1964 al 1970) concentrata sullo studio degli aspetti narrativi dei linguaggi (studi di Claude Bremond, Gérard Genette e Tzvetan Todorov), e la seconda semiotica (a partire dal 1971) concentrata invece sullo studio dell’enunciazione e del discorso, che proseguirà poi anche verso la psicanalisi. A proposito della metodologia e della pratica analitica, gli autori sottolineano soprattutto l’importanza di una interrogazione costante, una sorta di autoriflessione teorica sulla metodologia utilizzata che diventa parte consistente dell’analisi stessa, insieme alla ricerca del “dettaglio pregnante”, elemento del film che in sede di analisi possa sostituire l’opera integrale. L’analisi del film consiste insomma nel trovare un difficile equilibrio tra commento critico, citazioni filmiche e un’efficace messa in pagina, equilibrio che si può osservare nelle analisi di Bellour, in quelle di Thierry Kuntzel, ma anche nei casi in cui il film stesso è utilizzato come supporto dell’analisi (le Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard).68

Nel 1984 esce in Italia L’analisi del film a cura di Paolo Madron,69 un testo che ripercorre la storia delle diverse teorie attraverso una serie di saggi del decennio Settanta/Ottanta (scritti da Raymond Bellour, Michel Marie, Roland Barthes, François Jost) e nello stesso anno vengono pubblicati gli atti del convegno di Urbino70 con un articolo di Gianfranco Bettetini dal titolo Il

paradosso del testo in cui il semiologo getta le basi di una riflessione che da lì in poi fonderà i nuovi

studi filmici, e cioè l’idea che con la crisi della critica cinematografica e con la «dilagante invadenza

                                                                                                               

67   AUMONT Jacques, BERGALA Alain, MARIE Michel, VERNET Marc, L’esthétique du film, Paris,

Nathan, 1983, cap.4.  

68  Gli autori si immaginano che in futuro ci saranno sempre più film didattici di questo tipo. Delle Histoire(s)

di Godard parleremo nel secondo capitolo.

69  MADRON Paolo (a cura di), L’analisi del film, Parma, Pratiche, 1984, p.9-10.

70  Aa. Vv., Mostra internazionale del Nuovo Cinema. Pesaro. “Il nuovo cinema vent’anni dopo”, Urbino,

dei programmi filmici sugli schermi televisivi»71 il testo si disintegri nelle decine di occasioni di scambio comunicativo e nel numero crescente di spettatori che lo fruiscono:

«Possiamo dire, a quanto sembra, non solo che il testo non è ancora morto, ma che molto probabilmente non potrà mai morire. Al contrario: sono proprio i periodi di crisi apparente della struttura testuale, come questo che stiamo vivendo, quelli che più manifestano, nel desiderio e nella pratica, l’importanza e la continuità di un sogno che riesce spesso a compromettersi con eventi del reale. Il testo vive, anche se si trasforma, si adatta, si sposta, si comprime o si espande. Più che una griglia di possibilità, il testo è la possibilità di una griglia la cui definizione passa più attraverso l’uso (come ho già detto), che non attraverso le intenzionalità comunicative che ne animano le manifestazioni. Il valore del testo si subordina alla tipologia degli usi nei quali vengono implicati il suo modello e le sue esecuzioni.»72

Negli atti del convegno, in Il film come testo, Roger Odin esplicita il suo approccio semio- pragmatico, un approccio testuale diverso da quello immanentista della prima semiologia e aperto invece alla pragmatica del testo.73 La base di questa nuova disciplina è lo studio del contesto

istituzionale della realizzazione del film insieme a quello della sua lettura: il “Film-Testo” (FT) è quindi un film che è stato concepito per fare testo,74 ossia un film che richiede al proprio spettatore di essere letto come testo, e la “Lettura Testualizzante” (LT) è l’operazione di testualizzazione che il lettore compie su un determinato testo. Nel numero 47 della rivista “CinémAction”, del 1988, a proposito della pedagogia dell’analisi filmica, Odin75 ripercorre le difficoltà inerenti alla pubblicazione di analisi filmiche (che, come abbiamo visto, è una riflessione costante nella storia dell’analisi del film) suggerendo come possibile soluzione la pubblicazione di “oggetti misti” come le schede analitiche, le videocassette, i videodischi, che già all’epoca avevano suscitato diversi tentativi ma che rimanevano comunque operazioni piuttosto costose e anche rischiose sul fronte del diritto d’autore. In questo numero della rivista viene proposto un excursus sulle teorie dell’epoca76 e François Jost parla di quel cambiamento avvenuto negli Anni Settanta in seno alla linguistica che ne ha spostato il baricentro dallo studio dell’enunciato allo studio dell’enunciazione,77 un cambiamento                                                                                                                

71  BETTETINI Gianfranco, in Aa. Vv., Mostra internazionale del Nuovo Cinema, Op. cit., p.185. 72  Op. cit., p.188.

73   Già Umberto ECO nel 1979, nel suo volume Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, aveva proposto uno studio della dimensione pragmatica del testo in cui

sosteneva che l’attività cooperativa del lettore fosse «parte della strategia generativa messa in opera dall’autore».

74   All’inizio dell’articolo Odin specifica la sua definizione di “testo” prendendola da una definizione di

Francesco Casetti: «un insieme discorsivo coerente e finito, attraverso il quale si realizzano delle strategie di comunicazione», op. cit., p.189.

75  ODIN Roger, L’analyse filmique comme exercice pédagogique, in “CinémAction”, n° 47, 1988, pp.56-60.   76  “CinémAction”, n° 47, Le théories du cinéma aujourd’hui, 1988.

77  Cioè il passaggio dalla teoria del segno — in cui si studiavano le parti del sistema lingua (tratti, fonemi,

che interessa negli Anni Ottanta anche la “narratologia cinematografica” che comincia a considerare il film come discorso e il cinema come dispositivo di enunciazione, incorporando negli studi filmici la teoria dell’enunciazione di Emile Benveniste e la teoria del racconto di Gérard Genette, allo scopo di andare a ricercare le “marche di enunciazione” presenti nel film che rinvierebbero a una sorta di grande venditore di immagini78 che parla cinema.79

Nello stesso anno Jacques Aumont e Michel Marie pubblicano un secondo manuale specifico sull’analisi del film,80 in cui tracciano un percorso storico prendendo in esame una serie di tipologie:

dall’analisi strutturale (o testuale) all’analisi narratologica, da quella iconica a quella psicanalitica. Come dicono gli autori nell’introduzione, il volume ha un intento didattico e ha lo scopo di recensire e classificare le analisi più importanti che sono state fatte dagli Anni Sessanta alla fine degli Anni Ottanta per arrivare a trarne delle metodologie generali applicabili ad altri testi. Si legge che scopo dell’analisi è l’elaborazione di un “modello” del film, una sorta di “artefatto intermediario”81 che viene letteralmente costruito dall’analista utilizzando strumenti di tipo descrittivo, citazionale e materiale documentario sul film. Gli autori offrono una lista ragionata di strumenti che è molto utile per lo studente-analista perché gli offre un percorso da seguire, una lista che riprenderemo nel secondo capitolo per vedere come possa essere aggiornata grazie ai nuovi mezzi informatici che permettono non soltanto la descrizione e la citazione ma anche la visualizzazione dei percorsi di analisi (che porta alla creazione di un artefatto intermediario molto più vicino al film e molto più lontano dalla scrittura verbale).

In Italia, nel 1989, la rivista della Cineteca di Bologna “Cinegrafie” propone un’intervista a Christian Metz sulla validità di continuare a fare la semiologia del cinema.82 Con un excursus che parte dalla teoria di Jean Mitry e ripercorre la biografia professionale di Metz, si affrontano le pubblicazioni del semiologo attraverso la messa in luce delle innovazioni che hanno promosso e dei limiti che gli hanno valso critiche aspre. È interessante leggere cosa dice Metz della grande sintagmatica (proposta teorica che ha avuto il maggior numero di critiche, soprattutto in ambito italiano, come abbiamo visto) a venticinque anni di distanza:

                                                                                                               

comunicazione che si esprime nel discorso»; «la frase è l’unità del discorso», e in base alla distinzione operata da Benveniste tra piano di enunciazione storico e piano di enunciazione del discorso, in quest’ultimo vengono designati un parlante e un ascoltatore (vi sono cioè marche di soggettività), mentre nell’enunciazione storica nessuno parla. L’atteggiamento del parlante si esplica quindi nella frase, cioè nel discorso (cfr. BENVENISTE, op. cit., pp.153-155 e 284-288).

78  L’espressione è di Albert Laffay.

79 JOST François, La narratologie. Point de vue sur l’énonciation, in “CinémAction”, n° 47, 1988, pp. 63-

66.  

80  AUMONT Jacques, MARIE Michel, L’analyse des films, Paris, Nathan, 1988. 81  METZ Christian, in Op. cit., p.34.

82  DAGRADA Elena, PESCATORE Guglielmo (a cura di), La semiologia del cinema? Bisogna continuare. Conversazione con Christian Metz, in “Cinegrafie”, Bologna, A.1, n°1, febbraio 1989, pp.11-23.

«Credo che se si considera la grande sintagmatica così com’è, effettivamente oggi non ha più alcun valore, perché ci sono troppi errori. D’altra parte, credo sia stata molto utile al momento, perché si trattava del primo tentativo sistematico di mostrare che nel cinema ci sono dei codici. Io ho voluto mostrare che c’è un codice e mi sono sbagliato. Era troppo presto, sono stato troppo ambizioso, ma ho mostrato che ci sono dei codici e credo che la vivacità degli elogi come delle critiche derivi proprio dal fatto che qualcuno, per la prima volta, lo abbia detto. Che poi non fosse vero che ci sono otto tipi sintagmatici poco importa. Si trattava di affermare la codicalità di un linguaggio che tutti consideravano naturale, ineffabile, artistico. Certo la grande sintagmatica è stata molto criticata, è stata applicata in tutto il mondo, e la cosa più interessante è che in alcuni casi è stata applicata e criticata contemporaneamente, ossia è stata applicata con dei cambiamenti, ed è un bene perché sono casi di critica costruttiva.»83

A tal proposito Metz riporta un passo dell’analisi del film Gigi di Vincente Minnelli (1958) proposta da Bellour84 in cui l’autore parla della grande sintagmatica come di un modello idealmente operativo, espressione che trova Metz d’accordo: «significa che idealmente permette di segmentare un film, ma nella realtà no, non lo permette».85 La conversazione si conclude con quella domanda e quella

risposta riportate nel titolo dell’intervista e Metz riafferma con forza l’importanza dell’analisi testuale che, dopo la pubblicazione di Linguaggio e cinema nel 1971, cominciò a svilupparsi con grande rapidità:

«Penso che l’analisi testuale sia stata un’ottima cosa. In campo letterario, e in filologia, c’è sempre stata l’abitudine di parlare di un testo soltanto quando lo si conosceva bene, quando lo si aveva sotto gli occhi. Mentre per il cinema si parlava dei testi dicendo “vi ricordate alla fine del Terzo uomo…” e “alla fine” poteva significare al minuto 120, 123, 126… Così si era creata un’abitudine all’imprecisione, alla vaghezza, come se non citare le cose fosse stato normale. L’analisi testuale ha obbligato gli studiosi a vedere in che modo un film è fatto, minuto per minuto. E li ha obbligati ad andare oltre il significato. […] L’analisi testuale costringe a guardare anche il significante, a osservare per ogni inquadratura la dimensione scalare, l’angolazione, l’illuminazione, a considerare insomma tutti i parametri del significante.»86

Unico problema che rimane insoluto: quello della meta-lingua, cioè la comunicazione dell’analisi, su cui Metz continua ad avere un atteggiamento netto, tanto da affermare che «Un’analisi testuale è

                                                                                                               

83  METZ Christian, in DAGRADA Elena, PESCATORE Guglielmo, Op. cit., pp.14-15. 84  BELLOUR Raymond, op. cit..

85  METZ Christian, in op. cit., p.15. Anche Stephen Heath nella sua analisi di Touch of Evil del 1975 applica

in modo critico la grande sintagmatica di Metz sostenendo che se da una parte è facile dividere il film in segmenti autonomi, d’altra parte è anche complicato rompere “la forza del flusso dell’azione” (traduzione mia), e questo è uno dei motivi per cui le forme individuate da Metz difficilmente trovano un’applicazione pratica.

impossibile da leggere»87 e che occorrerà trovare nuove formule di scrittura e nuovi supporti per poter rendere leggibile «uno strumento pedagogico insostituibile» quale quello dell’analisi testuale.