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Gli anni sessanta, il boom e il dibattito sull’aziendalismo nella gestione

Capitolo 1 Nascita ed evoluzione del modello cooperativo

1.8 Gli anni sessanta, il boom e il dibattito sull’aziendalismo nella gestione

Alla fine degli anni cinquanta, la gestione economica delle cooperative era ancora prevalentemente ideologica. Osserverà più tardi Franco Tioli, uno dei dirigenti della cooperazione modenese: <<Prevaleva nella cooperazione l’idea che si dovessero evitare gli organismi “elefantiaci”, come si diceva allora. Questa posizione, a mio parere, era determinata dall’estrazione politica di molti funzionari sindacali, che li portava a privilegiare la politica sociale, la presenza diffusa “sul territorio”, rispetto alle necessarie misure di rafforzamento aziendale. Io ritenevo che, se una cooperativa andava male economicamente,

funzionava male anche come strumento di politica sociale, ma dire queste cose negli anni cinquanta portava perlomeno all’accusa di “aziendalista” se non di borghese23>>. Sta di fatto che l’obiettivo principale che allora si assegnava a un’azienda non era di “avere buoni bilanci e di migliorare i propri servizi”, ma di “educare i soci all’autogestione e di contribuire alla costruzione di una società socialista”24.

Le cooperative di consumo, in particolare, risentivano della cattiva gestione più delle altre, non solo per la scarsa capacità contrattuale (date le dimensioni) nei confronti dei fornitori, ma anche per la cattiva gestione delle risorse umane e per la pratica oltremodo diffusa dei crediti di banco. L’unificazione significava ridurre i costi generali e aderire così a una visione imprenditoriale dell’azienda cooperativa. Di fatto, solo per la pressione esercitata dalle difficoltà finanziarie che travagliavano le cooperative troppo esili e disperse si procedette gradualmente alla fusione in organismi di più grandi dimensioni e alla creazione di consorzi d’acquisto unici su base provinciale. Il Consorzio acquistava in proprio dalle ditte private alcuni prodotti che venivano poi rivenduti alle cooperative e, soprattutto, curava l’intermediazione e la contrattazione tra le ditte produttrici e i negozi cooperativi, nell’ottica di “acquistare bene per vendere bene. Tuttavia, anche gli stessi consorzi, nei primi anni, non furono accettati di buon grado da tutti, tanto che alcune cooperative decisero di non aderirvi. La diffidenza nei confronti di strutture verticali, quali i Settori e i Consorzi, era manifesta nella sinistra e, in particolare, nel Pci.

Gli anni sessanta segnarono una vera e propria svolta strategica della Lega, un ripensamento sugli obiettivi e sulla gestione delle cooperative: si lavorava per introdurre criteri di funzionalità ed economicità all’interno del sistema. E’ significativo che ciò avvenne quasi in sintonia con il processo di

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Francia M., Muzzioli G. – Cent’anni di cooperazione, Il Mulino 1984 24 Castronovo V. – Storia del movimento cooperativo in Italia, Einaudi 1987.

revisione manifestatosi nella Cgil, indotta a una seria autocritica sotto il peso dei suoi errori di “astrattezza e schematismo”. Sono gli anni in cui il boom economico investì l’Italia e ci fu grande attenzione delle unità su dimensioni che permettevano una migliore gestione quantitativa e qualitativa delle risorse economiche e non. Lo stimolo al rinnovamento prese le mosse dalla constatazione dell’isolamento al quale si stava riducendo il movimento cooperativo, ma anche alla ridefinizione del partito comunista enunciata da Togliatti nel 1956. Non fu tuttavia facile imprimere la nuova direzione al movimento, gonfio ancora di timori e di prudenze e perplesso sul rapporto tra partito e cooperazione. La Lega era, di fatto, considerata in quegli anni come “cinghia di partito”; non fu perciò facile accreditare l’idea che essa dovesse orientarsi verso funzioni di coordinamento e di formazione più caratterizzate in senso imprenditoriale. Né fu facile convincere i cooperatori a stabilire nuovi rapporti con i piccoli e medi produttori.

Con le nuove logiche, la cooperazione ebbe nuova vita e finalmente si sviluppò con forza esplosiva. I grandi consorzi nazionali come Coop videro, in questi anni, un forte sviluppo e l’affermazione definitiva, con punti vendita che uscivano dalla riorganizzazione sempre più moderni e con la capacità e la volontà di concorrere con le grandi catene di supermercati privati. L’esperienza maturata in alcune regioni servì da guida alla direzione della Lega e questa, a sua volta, agì da stimolo e da sostegno ad iniziative locali. In Toscana, per esempio, il processo di concentrazione avviato a suo tempo portò allo sviluppo di due grosse aziende: l’Unicoop di Firenze e la Proletaria di Livorno, che giunsero ad annoverare complessivamente più di 160000 soci e quasi un terzo dei punti vendita cooperativi. Si trattava non più di monospacci o di altre piccole botteghe. <<La strategia del riassetto aziendale – dice Celso Banchelli, allora responsabile del settore della Toscana – è consistita nel concentrare gli sforzi, laddove c’erano

possibili obiettivi di sviluppo e d modernizzazione della rete di vendita. Così abbiamo proceduto a una ristrutturazione su tre piani: le cooperative deputate ad impegnarsi nell’attività di istituzione e di gestione moderna dei punti vendita, cioè le grandi cooperative; le cooperative destinate a gestire un numero limitato di negozi tipo Superette – che è il negozio “bastardo”, diciamo così, rispetto al supermercato ed al grande magazzino e rispetto al negozio tradizionale – dunque le medie cooperative; infine le cooperative che invece dovevano – e devono – gestire negozi di campagna, di agglomerati urbani modesti, dove non c’è la giustificazione economica per un impianto di grande distribuzione. In questa maniera, a differenza della grande distribuzione, la quale ha scremato settori in cui la domanda dei consumatori era più ricca e più concentrata, noi abbiamo assicurato una presenza cooperativa dovunque>>. A questo processo di riorganizzazione aziendale era seguita una più accurata opera di selezione degli articoli posti in vendita, basata non solo sulla difesa della genuinità del prodotto, ma anche sulla restrizione delle varianti, delle cosiddette “referenze”, per ogni famiglia di prodotto, nell’intento di evitare sprechi e diseconomie>>25.

La strada, comunque, che portò la cooperazione di consumo a misurarsi con le regole del mercato e non più soltanto con le finalità assistenziali, fu tortuosa, oltre che differente da provincia a provincia, da caso a caso.