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Le cooperative nella societa' odierna. Dall'ideologia socialista al nuovo capitalismo.

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Alla mia famiglia, a mio marito Mario, al prof e a tutti coloro che mi hanno minacciata di morte

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Introduzione

Questo lavoro non vuole essere una trattazione esaustiva, ma uno spunto di riflessione sul fenomeno cooperativo. Fenomeno che, disprezzato o adorato, riveste ormai una quota primaria nell’economia nazionale.

La cooperativa non è semplicemente una forma giuridica d’impresa, ma è il prodotto storico di un’utopia di riscatto delle classi operaie. Alla base del pensiero cooperativo vi sono grandi pensatori, lotte di classe, filosofi ed economisti. Vi sono coloro che hanno creduto in un mondo migliore e in un’economia “etica” in un periodo in cui l’Europa si stava trasformando radicalmente, l’industria era in forte sviluppo e la stragrande maggioranza della popolazione era composta da operai e braccianti senza alcuna istruzione e in condizioni di semischiavitù. Nel pensiero cooperativo l’unione dei lavoratori avrebbe fatto la forza necessaria per combattere il sistema iniquo vigente e, oltre a garantire migliori condizioni economiche ai lavoratori, avrebbe investito per garantire alle famiglie istruzione, pensioni, indennità varie, insomma tutte le garanzie che con la Repubblica e il Welfare sarebbero state delegate allo Stato.

Al pensiero seguì l’azione e, con il passare del tempo, questi microcosmi etici si fecero davvero spazio nelle economie nazionali, inventando una nuova forma d’impresa.

Anche in Italia c’è stato uno sviluppo molto consistente delle imprese cooperative. La storia delle cooperative italiane è fatta di alti e bassi, di periodi in cui le cooperative dovevano lottare per poter sopravvivere e di periodi in cui, invece, sembrava che fosse tutto possibile per esse. Le vicende cooperative italiane nella storia hanno avuto la peculiarità di intrecciarsi con le vicende politiche: ecco le cooperative “rosse” e le cooperative “bianche”, i delegati

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parlamentari e gli aiuti statali. Tanto sembrò, alla fine, dovere civico sostenere le cooperative, che queste diventarono privilegiate nell’assegnazione degli appalti statali e agevolate nelle questioni fiscali. Alla scrittura della Costituzione, che avvenne in un periodo fortemente idealistico, fu inserito addirittura un articolo di tutela per le cooperative.

Ciò era socialmente corretto ed eticamente apprezzabile in una fase di start-up in cui un fenomeno simile, pur apportando un beneficio alla società, aveva grosse difficoltà a sopravvivere. Ed era ancora più encomiabile se consideriamo che la stragrande maggioranza delle cooperative, oltre a non avere grandi patrimoni disponibili, non aveva alcun know-how aziendale. Le cooperative degli albori erano, infatti, delle piccolissime imprese con delle buone competenze pratiche, ma con grosse difficoltà di gestione e scarsa alfabetizzazione. Erano perlopiù associazioni di braccianti, di operai, gruppi di acquisto. Oltretutto, essendo una nuova forma d’impresa, non puramente economica, la legislazione stessa aveva difficoltà nell’inquadrarla. Ecco, quindi, la confusione giuridica intorno alle cooperative.

Ma oggi che alcune cooperative hanno le dimensioni di colossi privati, si avvalgono di manager qualificati, hanno sistemi di gestione ereditati dalle più “spietate” aziende private e operano in un mercato e in un sistema sociale che non è più quello della Rivoluzione Industriale, ha ancora senso che lo Stato si prenda carico di un sistema che è in grado di fare la parte del leone?

Negli anni in cui (dal 2008 al 2013), in prima persona, ho lavorato in Unicoop Firenze, ho potuto toccare con mano la contraddizione tra il coinvolgimento dei lavoratori e dei soci alla vita cooperativa, tramite la comunicazione dei risultati aziendali e i vari giornaletti di informazione (un metodo di comunicazione, comunque, unidirezionale) e le “scelte insindacabili della direzione”, un’entità senza volto con sede a Firenze che poteva cambiare i

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turni o le mansioni in base alle necessità economiche e non personali, licenziare, togliere alcuni marchi dall’assortimento scatenando lamentele da parte dei soci consumatori, fare la guerra ad altre catene distributive, ridurre o ampliare le superfici di vendita in base al margine economico dei reparti, fare uso smodato di lavoratori stagionali e interinali, con tutti gli escamotages per non assumerli mai (periodi di stacco tra un contratto e l’altro, cambiamenti di contratto agenzia/azienda) etc. Insomma, la dimensione “personale” della cooperativa non era, certo, quella idilliaca dei manuali di filosofia.

I confini tra cooperative e capitalismo sono, oggi, sempre più sfumati. E’ un campo in cui si intrecciano aspetti economici, sociali e giuridici.

Questo lavoro si prefigge di analizzare da una dimensione evolutiva e sociale il fenomeno, ma, per far questo, è stato necessario addentrarsi negli aspetti economici e giuridici più importanti.

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Capitolo 1

Nascita ed evoluzione del modello cooperativo

1.1 La cooperazione. Significato e origini storiche del movimento.

L’idea della cooperazione, in senso assoluto, è molto antica e deriva dalla tendenza degli esseri viventi ad aggregarsi per superare ostacoli e difficoltà, oppure ottenere vantaggi dei quali singolarmente non potrebbero beneficiare. Essa è strettamente connessa al concetto di solidarietà. Curiosamente, la tendenza è talmente naturale che alcuni studi matematici connessi alla teoria dei giochi ne hanno dimostrato scientificamente la validità (convenienza) e questi studi, applicati alla biologia, ne hanno dimostrato l’universalità. Il politologo americano Robert Axelrod, in collaborazione con alcuni biologi e informatici, riuscì a dimostrare, tramite esperimenti scientifici e simulazioni informatiche di modelli evolutivi, che la cooperazione non solo esiste a tutti i livelli biologici (nelle popolazioni umane e animali, ma anche nelle cellule, nei batteri, in tutti i sistemi complessi), ma che essa emerge spontaneamente, anche in assenza di un’unità centrale di comando. Sarebbe proprio la cooperazione, in pratica, a determinare la possibilità di successo di sopravvivenza ed evoluzione di una specie.

La cooperazione in senso economico, come la intendiamo oggi, ha a che fare con il bisogno dell’uomo di migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita. Essa affonda le sue radici nella Rivoluzione Industriale europea (in particolare, nell’Inghilterra del XIX secolo), che ha radicalmente modificato le

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condizioni di vita della popolazione1. Il rapido processo di industrializzazione, con l’introduzione di innovazioni tecnologiche e macchinari moderni, causò da un lato l’incremento della produttività agricola e manifatturiera; dall’altro, generò ingenti costi sociali: spopolamento delle campagne, sovrappopolamento delle aree urbane, alienazione del lavoratore, bassi salari, sfruttamento del lavoro minorile e femminile sono solo alcuni esempi del degrado realizzato. Economisti e studiosi, in tale situazione, iniziarono a sostenere la necessità di un nuovo modello economico fondato su una ritrovata solidarietà, capace di conciliare capitale e lavoro. Da qui nacquero le prime, rudimentali, forme di cooperazione: uomini di cultura realizzarono associazioni volontarie e i lavoratori più istruiti e coraggiosi costituirono società operaie o società di mutuo soccorso, che prevedevano il versamento settimanale di un contributo da cui poi gli associati avevano diritto ad un'assistenza reciproca, mutua, in caso di malattia, infortuni o morte. Sebbene anche alcuni imprenditori si fossero mossi in questa direzione con piccole modifiche nella gestione aziendale, fu solo nel 1844 che si ebbe la prima vera cooperativa moderna. Nel 1833 aprì un primo negozio cooperativo a Rochdale che però fallì nel 1835; l'esperienza tratta da questo fallimento consentirà ad un gruppo di lavoratori tessili della stessa città (i Probi Pionieri) di riprendere in seguito l'iniziativa, con più successo rispetto alle altre tentate fino a quel momento. E così, il 21 dicembre del 1844, nacque la prima cooperativa di consumo, che riuscì a resistere alla costante sfida dell'economia di mercato. La ragione strutturale dei fallimenti avuti prima di Rochdale va ricercata nel fatto che, in precedenza, le cooperative dei consumatori vendevano i generi a prezzo di costo, ma ciò significava non avere alcuna misura della propria efficienza, né alcuno spazio per investire. Da Rochdale in poi, invece, le cooperative iniziarono a vendere a prezzo di mercato, ovvero, ancora meglio, al prezzo migliore

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Leonardi, A.- “Modernizzazione economica e cooperazione in Europa”, in Rivista della Cooperazione n. 2, Istituto Luigi Luzzatti, 1986.

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esistente sul mercato, senza gonfiare i prezzi con rendite speculative. A fine anno, l'avanzo di gestione veniva in parte accantonato per gli investimenti, in parte per vantaggi collettivi e quel che rimaneva veniva distribuito fra i soci, non in proporzione alle quote possedute, come avviene, di fatto, nelle società fondate sul capitale, ma in base agli acquisti messi in atto da ciascun socio presso la cooperativa (il ristorno). Il concetto, che sta a monte di questo sistema, consiste nel fornire al socio una restituzione di ciò che ha pagato in più rispetto al puro costo del prodotto, vale a dire un premio alla fedeltà dimostrata nei confronti della cooperativa2. Il successo di questa esperienza fu tale che, nel 1863, venne creata la “Cooperative Wholesale Society”, che riuniva 59 cooperative di consumo e 18.337 soci. Il movimento crebbe e diede vita ad altre forme di cooperative (di lavoro, di credito etc.), oltre a diffondere una cultura economica solidale, che contribuì alla trasformazione sociale della popolazione inglese.

Nel resto dell’Europa, anche a causa delle condizioni sociali e politiche degli altri paesi, il movimento si diffuse in maniera molto meno eclatante.

1.2 La nascita della cooperazione in Italia.

In Italia, sia per le condizioni economiche fortemente arretrate, che per le condizioni sociali e politiche , la cooperazione economica si sviluppò in ritardo rispetto al resto dell’Europa. All’epoca dell’unificazione, infatti, l’economia italiana era in gran parte agricola e le poche aziende presenti sul territorio nelle regioni più industrializzate (quelle del nord), producevano ancora in maniera artigianale. Le macchine erano ancora poco diffuse e la situazione non era neppure confrontabile con quella inglese. Le prime forme di cooperazione in

2 www.wikipedia.org

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Italia, che prepararono le basi per la cooperazione vera e propria, furono le associazioni di solidarietà e previdenza sociale, quali libere e volontarie società operaie e associazioni di mutuo soccorso alle quali aderivano i lavoratori cedendo parte della propria paga per avvantaggiarsi in situazioni di disagio che avrebbero potuto impedire lo svolgimento della normale attività lavorativa. Diverse associazioni nacquero dall’esigenza di sostenere i soci nel caso di danni causati dalla mortalità del bestiame e per sopperire alle carenze dello stato sociale con la creazione di spacci alimentari, la costruzione di abitazioni per i soci e la fondazione di circoli ricreativi. La prima cooperativa italiana di cui si ha notizia fu fondata nel 1854 per contrastare, con un magazzino di previdenza, gli effetti di una grave carestia agricola che portò a un rincaro dei prezzi: la Società degli Operai di Torino. Questa, se ebbe il pregio di essere la prima cooperativa di consumo italiana, ebbe la cecità di ignorare l’esperienza di Rochdale e vendere praticamente a prezzo di costo ai soli soci, situazione che portò, in breve al fallimento. Fiorirono, invece, le cooperative di produzione e lavoro (pioniera fu, nel 1856, l’associazione artistico-vetraria di Altare), associazioni di categoria con lo scopo di lavorare a condizioni migliori rispetto a quelle dei lavoratori dipendenti, con la messa in comune dei mezzi di produzione e una maggiore capacità economica e contrattuale rispetto al singolo imprenditore. Mentre negli altri paesi europei furono le cooperazioni di consumo ad avere il ruolo più importante, queste, in Italia, ebbero un ruolo marginale e la cooperazione risultò più legata alle associazioni di categoria3.

Altra caratteristica italiana di cui soffrì per molti decenni la cooperazione, fu il quasi totale vuoto legislativo a tutela delle cooperative. La cosa, però, è spiegabile, considerando le peculiarità delle classi dirigenti e politiche italiane. In generale, possiamo affermare che le ragioni per cui sorgono attività

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cooperative rispondono a due principi essenziali. In primo luogo difendere i cooperatori nei confronti dell'aggressività delle imprese capitalistiche, poi garantire ai soci maggiori benefici derivanti dalla comune attività. Per queste ragioni, risulta comprensibile che, sin dal loro sorgere, sulla spinta soprattutto delle organizzazioni sindacali e politiche del proletariato, le cooperative incontrarono l'ostilità economica e politica degli industriali e delle formazioni politiche legate alla borghesia. Nella storia dell'Italia unita, fino al fascismo, la cooperazione rappresentò uno dei fenomeni sociali più significativi, sia come fattore essenziale di aggregazione di produttori, di lavoratori e di masse di consumatori, sia come forza di partecipazione democratica, tanto più rilevante quanto più ristretta era la base del consenso allo stato monarchico, sia come strumento di mobilità socioeconomica, attraverso forme peculiari di impresa e, in generale, di intervento sul mercato. La cooperazione fu dunque figlia della modernità, e si venne configurando come una originale forma di reperimento collettivo di beni e servizi altrimenti conseguibili a un costo economico e sociale più elevato4.

1.3 Ideologie alla base dello sviluppo cooperativo.

Non sembra inutile, per lo scopo che si propone questo lavoro, soffermarsi su utopie, teorie e ideali che furono alla base dello sviluppo cooperativo e ne connotarono i caratteri fin dagli albori.

Lo sviluppo del movimento cooperativo, a dispetto della sua connotazione “dal basso”, è dovuto a molteplici fattori. In particolare, sul piano culturale, la diffusione e lo sviluppo delle idee cooperative è merito di numerosi studiosi,

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De Cristofaro, A. – Dizionario di storia moderna e contemporanea, Paravia Bruno Mondadori, www.pbmstoria.it

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economisti e uomini illuminati. Le correnti di pensiero possono essere sintetizzate così:

Integralista: la cooperazione è vista come un mezzo per trasformare la

società in maniera radicale e non violenta. L’economia cooperativa deve diventare l’unico tipo di economia possibile, investire tutti i settori ed essere alla base di un sistema sociale basato sulla giustizia e sulla solidarietà tra le persone. L’abolizione del capitalismo e il livellamento delle condizioni di vita passano attraverso la cooperativizzazione integrale e universale della società. Anche se in Mazzini non troviamo una vera e propria teoria del cooperativismo, egli ha ispirato in gran parte questa linea di pensiero. Un altro studioso che sostenne la visione integralista fu Owen, al cui pensiero si ispirarono i Probi Pionieri di Rochdale, i quali avevano in mente un piano di ricostruzione della società. Anche se questa pare una visione fortemente utopica, ha il merito di contenere un principio fondamentale di democratizzazione della intera vita economica. Sotto questo punto di vista l’integralismo cooperativo ha rappresentato un’idea guida per la gestione dell’intero sistema socio-economico. Da menzionare anche il contributo di Gide, il quale auspicava una “Repubblica Cooperativa”, che si concretizzava con la cooperativizzazione di ogni attività, sia nel settore del consumo che in quello della produzione. Gide ispirò un gruppo di cooperatori francesi che crearono la scuola di Nimes, il cui scopo era, in generale, constatate l’inefficacia e la malvagità della libera concorrenza, la costituzione di un sistema economico che tutelasse i consumatori contro i produttori;

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Liberale: secondo questa visione, la cooperazione è un mezzo

insufficiente per giungere alla radicale trasformazione del sistema economico e sociale, ma è uno strumento fondamentale al fine di operare una correzione degli “eccessi”, o, meglio, degli squilibri prodotti dal sistema economico generale5. Anche se in una economia liberista-democratica fondata sulla libertà di concorrenza l’intervento correttivo dello Stato è giudicato fondamentale, già la coesistenza di imprese capitalistiche e imprese cooperative elimina o attenua gli squilibri presenti nel sistema economico-sociale. A questa concezione aderì il Faquet, uno studioso francese che fu tra i maggiori teorici del movimento cooperativo. Egli divise l’economia di ogni paese in quattro settori: il settore pubblico, il settore capitalista, il settore “propriamente privato” e il settore cooperativo;

Classista: il terzo filone individua nel movimento cooperativo uno

strumento utile a difendere e tutelare gli interessi delle classi lavoratrici, ma insufficiente al superamento degli effetti negativi del sistema capitalistico. Questa impostazione, di evidente matrice marxista, si fonda sulla convinzione che solo la lotta di classe rappresenti il reale strumento di affermazione e riequilibrio delle classi lavoratrici. Tale ordine nuovo può essere realizzato solo con la conquista del potere e la socializzazione dei mezzi di produzione. Per Marx e i suoi seguaci la cooperazione di lavoro (associazione di operai) è più interessante della cooperazione di consumo. In generale è

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utile notare che, nonostante la larga diffusione di questa scuola di pensiero, la cooperazione si sviluppò in maniera abbastanza autonoma. Infatti non furono solo gli operai ad associarsi, ma anche i braccianti e i piccoli borghesi e non certo per ragioni politiche quanto per ragioni economiche. Oltretutto, le classi lavoratrici abbandonarono ben presto le idee rivoluzionarie cercando di essere parte attiva della società esistente.

E’ evidente che sia la concezione integralista che quella classista si siano rivelate solo utopie storicamente importanti. La concezione liberale, invece, mantiene ancora oggi un suo significato, tanto che la cooperazione riveste un ruolo importante nella economia del nostro Paese, rivelandosi una “forma societaria” che, se ben organizzata, è in grado di operare sia in condizioni di arretratezza che di maturità economica.6

In Italia, già nei primissimi anni, benché tutte le associazioni si dichiarassero apolitiche e apartitiche, si rilevava che <<dalla lotta delle opinioni manifestatesi dappoiché l’Italia colla indipendenza conquistò la libertà, sorsero associazioni, le quali nascondono sotto il manto della reciproca assistenza ben altri intendimenti7>>. Ritroviamo, in questa categoria, alcune associazioni di “ferventi cattolici”, ma soprattutto un cospicuo numero di associazioni legate alla lotta operaia e alla resistenza. La cooperazione nascente, dunque, sorse soprattutto in seno alle idee di sinistra e fu fortemente legata alle associazioni di stampo sindacale, anche se, in seguito, fu appoggiata da uomini di diverse forze politiche. Due erano le linee di tendenza dominanti: da un lato, i repubblicani, radicali e liberali, che diffondevano una cooperazione “neutrale”, in alternativa alla lotta di classe; dall’altro i socialisti che ritenevano che la cooperazione fosse

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Venditti M. – Caratteri economici delle imprese cooperative. G. Giappichelli editore, Torino, 1995 7 MAIC, Statistica delle società di mutuo soccorso (1873), Roma, 1875

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strumentale alla lotta di classe, in quanto espressione della presa di coscienza e dell’emancipazione dei lavoratori. Le idee che costituirono un elemento formativo essenziale per i primi cooperatori furono soprattutto Mazziniane e Marxiste, mentre i padri fondatori del movimento, in Italia, sono considerati Viganò e Luzzatti.

1.3.1 Mazzini e la cooperazione.

Per Mazzini la cooperazione, sostituita all’individualismo, avrebbe rappresentato la soluzione ai problemi sociali dell’epoca in cui viveva: primo passo sarebbe stato la partecipazione degli operai agli utili; secondo passo, la creazione di cooperative di produzione gestite dagli stessi lavoratori, padroni dell’impresa. Era fondamentale sottrarre il lavoratore al <<giogo del salario e fare a poco a poco, colla libera associazione, padrone il lavoro del suolo e dei capitali d’Italia8>>. Egli, inoltre, aveva una visione pessimistica della condizione del popolo che, a parer suo, dopo la Rivoluzione Francese non era migliorata, ma peggiorata: crisi e miseria dilagavano sebbene la ricchezza sociale e la massa dei beni materiali fossero in aumento. Le conclusioni dell’analisi di Mazzini erano sostanzialmente simili a quelle dei socialisti; il suo sogno era la creazione di associazioni di lavoratori volontari, che producono servendosi di un capitale loro proprio e perciò ricavano tutti i frutti della produzione, ponendo come base della proprietà il lavoro. Anche gli utili dovrebbero essere divisi secondo il lavoro e non secondo i conferimenti iniziali, come avviene nell’impresa tradizionale. Ciò

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che discosta il pensiero mazziniano da quello socialista sono i tempi e i modi di conquista dei mezzi di produzione: non un esproprio di proprietà già conquistata, ma la possibilità per i molti di acquistarla. Egli confidava anche in cospicui aiuti alle cooperative da parte dei governi, che ne favorissero lo sviluppo9.

1.3.2 Marx e la cooperazione.

Lo stesso Marx, nel suo indirizzo all’Associazione Internazionale degli operai, aveva affermato che l’economia politica della classe operaia aveva riportato, attraverso la cooperazione, una grande vittoria sull’economia politica della proprietà. Egli disse che <<Coi fatti, invece che con argomenti, queste cooperative hanno dimostrato che la produzione su grande scala, e in accordo con le esigenze della scienza moderna, è possibile senza l’esistenza di una classe di padroni che impieghi una classe di lavoratori, che i mezzi di lavoro non hanno bisogno, per dare i loro frutti, di essere monopolizzati come strumento di asservimento e di sfruttamento del lavoratore; e che il lavoro salariato, come il lavoro dello schiavo, come il lavoro del servo della gleba, è solo una forma transitoria e inferiore, destinata a sparire dinanzi al lavoro associato, che impugna i suoi strumenti con mano volenterosa, mente alacre e cuore lieto10>>.

8 Mazzini, G. – Scritti ed inediti, vol. LXIX, Imola, 1935

9

Zangheri, R. – Storia del movimento cooperativo in Italia, Einaudi, 1987. 10 Marx K., Engels F. - Il partito e l’Internazionale, Edizioni Rinascita, 1948

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Tuttavia egli lamentava la frammentarietà degli esperimenti cooperativi e la necessità di elevarli a sistema: dimensione nazionale e fondamenti scientifici. Pur di fronte a questi limiti, l’esperienza cooperativa, insieme a quella mutualistica, rappresenta l’unica forma di associazione operaia verso la quale il socialismo viene a trovarsi in posizione propulsiva11. La cooperazione, lungi dall’essere un punto di arrivo, era un punto di partenza per la lotta operaia e per lo stato socialista, era una palestra di consapevolezza per i lavoratori, in attesa che i tempi e le coscienze fossero maturi per la rivoluzione.

1.3.3 L’utopismo cooperativo di FrancescoViganò.

Per Viganò, come per Mazzini, scopo della cooperazione è risolvere la “questione sociale”. Egli, figlio delle idee di Rochdale, era un utopista e auspicava la diffusione della cooperazione a tutti i settori e a tutti i livelli dell’economia. Un’economia basata sul prezzo di mercato in cui le differenze di prezzo servono a salvaguardare e sviluppare la cooperazione stessa tramite l’acquisto di beni funzionali alle cooperative esistenti e alle nuove cooperative. Dal mutuo soccorso si sarebbe passati alle società cooperative di fatto: cooperative di produzione, di consumo, alimentari, di istruzione e persino organi statali cooperativi, iniziando dai municipi cooperativi. Scrisse il Viganò: <<Il comune cooperativo renderà inutili le funzioni degli intermediari,

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Ricci-Garotti G., Cossarini A. - La cooperazione: storia e prospettive. A cura della Federazione Provinciale Bolognese delle Cooperative e Mutue, Bologna, 1974.

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generalizzerà il benessere, sanerà la società, inaugurerà integralmente il regno della giustizia12>>.

Egli non vedeva la detenzione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori una conquista ai danni dei capitalisti, ma auspicava una pace e una collaborazione tra tutte le forme economiche esistenti. La cooperazione doveva essere basata sul principio di fratellanza e quindi doveva cessare il dissidio del povero col ricco e del capitale con il lavoro13.

1.3.4 Luigi Luzzatti.

Proveniente dalla destra storica, Luzzatti è interessato alla questione sociale e tende a visioni di conciliazione e di moderazione delle lotte di classe, immagina lo sviluppo economico come frutto di associazione degli sforzi, piccoli risparmi e iniziative diffuse. La cooperazione, per lui, deve integrarsi nel sistema economico già esistente e svilupparsi in un contesto regolato da norme e non in maniera del tutto spontanea, poiché non condivide la fiducia degli economisti classici nella razionalità dei mercati e ritiene necessari interventi dello Stato a sostegno dei membri più deboli della competizione economica. Mentre Mazzini intendeva la cooperazione come un mezzo per creare un nuovo assetto sociale, Luzzatti concepiva la stessa come una forma d’impresa inserita nel contesto capitalistico, con la peculiarità dell’impresa

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Viganò, F. – La fratellanza umana, 1873

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cooperativa di poter crescere con il solo risparmio dei soci, senza finanziamenti esterni o speculazioni.

Nel corso della sua vita, si dedicò con grande impegno alla divulgazione della cultura cooperativa, in particolare, alla diffusione della cooperazione di credito e pose le basi dell'Associazione fra le banche popolari. Nel 1864 tenne per invito dell’Associazione generale di mutuo soccorso degli operai di Milano un corso di lezioni serali “sul credito popolare e sulle associazioni mutue e cooperative nei loro rapporti colle classi operaie”. In queste lezioni, egli espresse i caratteri fondamentali della sua concezione sociale: l’idea che le nuove istituzioni mutualistiche e cooperative sono ben diverse dagli istituti di beneficenza: <<Non è più la storia dei benefici che l’operaio riceve dall’altrui carità, ma di quelli che egli può impartire a se stesso>>; parlò dell’istituzione delle pensioni diffusa in Francia, dell’importanza delle casse popolari e del credito cooperativo, delle cooperative di produzione come il “supremo fastigio delle associazioni popolari”14.

Fu parlamentare tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 e continuò a occuparsi delle più rilevanti tematiche sociali; promosse importanti normative nei settori del credito, della cooperazione e un'innovativa legislazione sociale che ebbero una vasta eco internazionale. Contribuì poi in modo decisivo all'elaborazione della legge che istituì l'Ufficio e il Consiglio superiore del lavoro. Nel 1902 presentò una proposta di legge, che venne sottoscritta da altri deputati, per favorire la costruzione di case popolari: la legge che ne derivò - tenendo presente la legislazione vigente in Belgio, Francia, Gran Bretagna e negli Imperi centrali - fu la prima legge organica in materia (l. 31 maggio 1903, n. 254). Derivarono da questa normativa la l. 8 luglio 1904 sulle aree fabbricabili e la nascita degli Istituti autonomi per le case popolari, che favorirono la

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proliferazione del movimento cooperativo nel settore edilizio e che contribuirono a risolvere alcuni problemi derivanti dalla crescita demografica verificatasi in quel periodo nelle maggiori città.

Il Luzzatti prese pure l'iniziativa per l'istituzione della Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e vecchiaia degli operai e della Cassa nazionale infortuni, presentando alla Camera, nel 1904, un apposito disegno di legge15.

1.3.4 Leone Wollemborg.

Tra coloro che si prodigarono per lo sviluppo del credito cooperativo, grande importanza è da attribuire a Leone Wollemborg.

Egli sviluppò, soprattutto nel Veneto, un'efficace azione in favore del credito rurale sul modello delle coperative di credito, create da F. W. Raiffeisen, alla cui diffusione indirizzò il periodico La cooperazione rurale, da lui fondato (1885) e diretto (fino al 1904).

Fu deputato dal 1892 al 1913 e, quindi, senatore. Infine, nel 1901, ricoprì la carica di ministro delle Finanze.

Nel 1883 fondò a Loreggia, in provincia di Padova, la prima Cassa Rurale di ispirazione laica, cui seguirono, nel 1884, quella di Cambiano di Castelfiorentino, in provincia di Firenze, e quella di Trebaseleghe, ancora in provincia di Padova. Scriveva, a proposito della cassa rurale di Loreggia, lo stesso Wollemborg: "La società non conosce azioni né dividendi; non si estende

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oltre ai confini del comune di Loreggia; tutti gli uffici vi sono gratuiti; nessuna operazione si compie fuorché il ricever depositi dai soci e da persone estranee alla società e far prestiti ai soci.(...) Eccetto tre, il dott. Leone Wollemborg, il segretario e il medico comunale pure possidente ed agricoltore, tutti sono contadini. (…)L’ordinamento della società e il modo ond’essa funziona giungono ad una estrema semplicità qual è necessaria perché genti agricole ne siano capaci. Nessuno ha parte nell’amministrazione che non sia socio. L’ufficio di ragioniere è gratuitamente compiuto dal segretario comunale; ed egli ha la custodia dei registri che tiene e della cassa, la società avendo asilo in una stanza del municipio. (…)Le operazioni sociali consistono soltanto nel ricevere prestiti, sia dai soci che da persone estranee alla società, e nel farne ai soli soci, rigorosamente serbando il principio della mutualità. 16 "

La sua idea del credito rurale è sia di supporto che di educazione e la esprime egli stesso quando, riferendosi alla cassa rurale di Loreggia, afferma che essa, per la maniera in cui opera, per la sua struttura e per la sua semplicità, si addice alla popolazione rurale e ha per fini: “pareggiare nel credito ai grandi gl’imprenditori più muniti, recando quell’aiuto potente ai piccoli e piccolissimi proprietari coltivatori, ai piccoli e piccolissimi affittaiuoli e redimendoli all’usura; diffondere la moralità, insegnando praticamente alla popolazione il valore economico dell’onestà; stimolare le energie morali assopite, ridestando negli anni avviliti la speranza, richiamando forze latenti alla vita.17”

15 Dizionario biografico degli italiani, volume 66 – Treccani, 2007

16

Wollemborg, L. – “L’ordinamento delle Casse di Prestiti”, tratto dal testo di una conferenza svolta il 24 novembre 1884 all'Associazione agraria friulana. In: Ruggiero Marconato, La figura e l'opera di Leone Wollemborg, Ecra, 1984, "La Cassa Cooperativa di Prestiti di Loreggia",pp. 251-258.

17 Wollemborg, L. – “L’ordinamento delle Casse di Prestiti”, tratto dal testo di una conferenza svolta il 24 novembre 1884 all'Associazione agraria friulana. In: Ruggiero Marconato, La figura e l'opera di Leone Wollemborg, Ecra, 1984, "La Cassa Cooperativa di Prestiti di Loreggia",pp. 251-258.

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1.4 Progressiva organizzazione della cooperazione.

Il movimento si diffuse in maniera esplosiva e si iniziò ad avvertire l’esigenza di una sistematizzazione, di un organismo di riferimento che facesse gli interessi dei cooperatori, che definisse delle regole generali, che chiarisse dei dubbi, che avesse voce in capitolo nei confronti della classe politica e dirigente. Il 10 ottobre 1886 si tenne a Milano il primo congresso dei cooperatori italiani. Emerse la situazione della cooperazione italiana: un movimento vivo e in forte sviluppo, ma molto frammentato e in preda alla confusione organizzativa e gestionale. Una moltitudine di realtà simili, seppur con delle differenze specifiche, che necessitava di indirizzo, di unità, di appartenenza. Il congresso sancì la nascita della Federazione delle società cooperative italiane, la quale diventò, nel 1893 (durante il quinto congresso, che si tenne a Sanpierdarena), la

Lega nazionale delle cooperative italiane e tuttora esiste con il nome di LEGACOOP. L'importanza e lo scopo della Lega sono da ricercare nella

capacità che, attraverso essa, ebbero le diverse imprese iscritte di far sentire la propria voce, le proprie ragioni e i loro interessi comuni in ambito nazionale, anche se i Governi conservatori di fine Ottocento si dimostrarono sospettosi verso qualsiasi esperienza che comportasse un ampliamento della democrazia. Alla costituzione della federazione parteciparono esponenti di tutte le correnti politiche e ideali del tempo: socialisti, repubblicani, radicali, liberali, e cattolici. Aderirono, inizialmente, 148 società cooperative, prevalentemente del nord e del centro Italia (nelle regioni del Mezzogiorno le cooperative risultavano scarse, se non del tutto inesistenti). Dal primo congresso emerse anche la necessità di un giornale della cooperazione. L’idea si concretizzò nel gennaio 1887 con La

Cooperazione Italiana, organo della Federazione, diretto dal radicale Carlo

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portava a teorizzare l’unione delle cooperazione di ogni genere in un unico interesse, il lavoro compensato secondo il merito, turni di lavoro sempre più brevi e sempre maggior tempo da dedicare all’intelletto, una solidarietà diffusa, che avrebbe condotto a uno scambio incessante di servizi e alla cooperazione collettiva all’armonia dell’universo. Il giornale pubblicherà, oltre a notizie, interviste, informazioni utili alla cooperazione, la storia dei Probi Pionieri di Rochdale a puntate. Nello stesso anno, con il secondo congresso, anche la

Federazione delle società cooperative italiane trova una definizione più

puntuale; vengono votati: l’ordinamento definitivo di questa, il segretario generale, nella persona di Antonio Maffi e lo Statuto.

L’ultimo decennio dell’800 fu caratterizzato dalla fortissima espansione e dal consolidamento del movimento, che, ormai, aveva trovato una sua identità anche in Italia. Fu rilevante, in questo periodo, lo sviluppo della cooperazione cattolica, favorito anche dall’emanazione dell’enciclica di Leone XIII, che incoraggiava l’associazionismo e la formazione di società di operai. L’associazionismo cattolico trovò terreno fertile e si specializzò nel settore del credito. La promozione delle casse rurali favorì lo sviluppo di molte aree del territorio, combattendo, in particolar modo, il fenomeno dell’usura. Nonostante l’iniziale orientamento, negli anni sorsero anche cooperative di consumo, di credito e agricole, tutte di stampo cattolico, con proprie caratteristiche. Peculiarità delle cooperative agricole cattoliche era, ad esempio, l’affittanza collettiva a conduzione divisa, in contrapposizione a quella a conduzione unita di scuola socialista. Proprio negli ultimi anni del secolo, però, si assistette a una crisi che investì alcune aziende cooperative che cercavano di espandersi, sulla scia dell’entusiasmo, oltre le loro possibilità. In generale, i costi delle materie prime aumentarono e questo influì sulla cooperazione di consumo; per quel che riguarda la cooperazione di lavoro, invece, si verificò un calo del lavoro e un

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aumento di lavoratori: ciò portava ad impiegare più lavoratori del dovuto per ogni lavoro o a turnazioni svantaggiose per tutti, perché tutti avessero un po’ di lavoro. Tutto ciò influiva sui bilanci delle cooperative e parecchi progetti ambiziosi furono costretti a ridimensionarsi o a contare su aiuti statali o regi. Anche a livello politico, le cose a fine secolo non furono semplici. La miseria incalzante aveva generato un clima di rivolte e proteste, alle quali le autorità politiche rispondevano con la violenza, in atti di feroce e sanguinosa repressione. Il movimento, che scontava ancora le sue incertezze, fu osteggiato fortemente da Crispi e subì persecuzioni politiche, scioglimenti forzati, espropriazioni, violenze. Ancora era forte la confusione tra cooperativa e movimento rivoluzionario operaio. Su La Cooperazione Italiana la dirigenza della Lega cercò di prendere le distanze, dichiarando che <<la cooperazione non può e non deve confondersi con la politica>>. Intanto Romussi era stato arrestato e Maffi, scrivendo un articolo su La Cooperazione Italiana a difesa di Romussi, venne arrestato a sua volta.

1.5 L’età giolittiana.

Durante il governo Giolitti, si iniziò a respirare un’aria nuova. L’economia si stava riprendendo e mostrava segni di sviluppo. Con i liberali al potere, una mutata congiuntura internazionale, la fortificazione del sistema bancario e lo Stato in qualità di committente, anche la cooperazione ricominciò a respirare. Il crescente numero di appalti e di ettari di terreno affidati alle cooperative favorirono anche il fiorire di istituti di credito creati esclusivamente per le stesse. Inoltre, il governo Giolitti era tendenzialmente favorevole allo sviluppo della cooperazione e con Luzzatti Ministro del Tesoro i provvedimenti

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a favore di questa non tardarono ad arrivare. Ricordiamo che Giolitti, a sua volta ministro del Tesoro sotto il governo Crispi, fu patrocinatore della legge dell’11 luglio 1889, la quale, derogando alle norme della contabilità dello Stato, stabiliva all’art.4 la possibilità di stipulare contratti di appalto a licitazione o a trattativa privata fra lo Stato e cooperative di lavoratori legalmente costituite fino a Lire 100000 e in esenzione di cauzione18. Tra il 1904 e il 1910 ci furono dodici provvedimenti legislativi volti a favorire, in maniera diretta o indiretta, la cooperazione; nel 1907 vengono promossi vari provvedimenti riguardanti le agevolazioni creditizie e fiscali a beneficio delle aziende cooperative e nel 1909 viene promulgata una legge che prevede addirittura sussidi diretti a sostegno delle cooperative.

Nel frattempo, si acuiva il conflitto tra cooperazione laica e cooperazione cattolica (o cooperazione rossa e cooperazione bianca), che portò a una rottura completa del movimento in due grandi aree ideologiche e organizzative. Un avvenimento eclatante fu l’esclusione della cooperazione cattolica dal nuovo organismo consultivo pubblico, il Consiglio Superiore del Lavoro, istituito nel 1903, al quale la Lega era ammessa, con tre delegati, a rappresentarvi il settore della cooperazione. Le polemiche da parte dei cattolici non tardarono ad arrivare e nemmeno le risposte. Lo stesso Maffi, sul giornale della Lega, spiegava che nel nuovo organismo erano state ammesse le tre grandi organizzazioni della previdenza e del credito solo in quanto organizzazioni “esclusivamente economiche e senza epiteti”. Tuttavia l’argomento non era convincente e l’ammissione al Consiglio del Lavoro dell’associazione delle banche popolari, nelle quali la presenza cattolica era più che significativa, non accreditava la tesi dell’esclusione delle cooperative cattoliche solo in funzione del loro carattere confessionale19. Il movimento cattolico nel settore cooperativo prendeva sempre

18

Zangheri, R. – Storia del movimento cooperativo in Italia, Einaudi, 1987. 19 Zangheri, R. – Storia del movimento cooperativo in Italia, Einaudi, 1987.

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più piede per poter essere ignorato, ma anche l’anticlericalismo in Italia si stava accentuando, soprattutto in politica.

1.6 Il primo conflitto mondiale, la ripresa economica del dopoguerra e l’avvento del fascismo.

Solo due anni prima che l’Italia entrasse in guerra, nel 1913, Lémon scriveva che <<La solidarietà sociale (era a quel momento) praticata e compresa in Italia meglio che in ogni altro paese>>. Per lui le cooperative, che avrebbero continuato a crescere, avevano già avuto il merito di essere state <<I migliori agenti della ripresa economica del paese: senza di esse i contadini, gli operai, i piccoli proprietari, avrebbero vissuto e vivrebbero una vita quotidiana meno agiata>>. Ciò giustificava l’attenzione crescente che gli economisti dedicavano alla cooperazione italiana e, in particolare alla Lega, già negli anni giolittiani. Persino durante la guerra, nel 1917, il Bachi elogiava l’operato della Lega, che incrementava l’attività nel settore del consumo e si sforzava di <<dare alla cooperazione una più larga funzione nell’opera annonaria>>20. Anche se con parziale insuccesso, questo si era tradotto in un indiscutibile beneficio a vantaggio dei consumatori e il volume di affari di molte cooperative era addirittura aumentato (i dati sono comunque viziati dal rialzo generale dei prezzi).

In linea di massima, però, escludendo le cooperative che risposero in maniera diretta alle misure di mobilitazione bellica, gli effetti della guerra sull’economia, e quindi sulle cooperative, furono devastanti. Aumento generale dei prezzi delle materie prime, svalutazione della moneta, aumento dei costi e

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difficoltà ad accedere al credito (situazioni che influirono anche sugli appalti già firmati con i prezzi precedentemente stabiliti e, ormai, non più modificabili), la sospensione delle opere in corso e dei contratti da parte della Pubblica Amministrazione, la spinta a speculazioni private sulle cooperative di consumo, senza parlare della mancanza di risorse umane dovuta alla chiamata alle armi di tutti gli uomini con determinati requisiti di età e di salute. La Lega, in questo periodo, subì conflitti interni e tentativi di riorganizzazione e adattamento alla nuova situazione economica, mostrò la sua non del tutto neutralità politica, ma riuscì a dimostrare di essere ormai un organismo maturo e di rilievo nel quadro politico nazionale. Per quanto riguarda la posizione della Lega nei confronti del conflitto, dapprima essa si mantenne neutrale, poi diede per scontato l’intervento italiano, augurandosi soltanto che tutte le forze politiche collaborassero insieme alla difesa della patria. Per tutta la durata della guerra, la Lega non fece altro che battersi per la sopravvivenza della cooperazione. Essa dichiarò di aver avuto <<una preoccupazione e uno scopo: quello di richiamare l’attenzione del Governo e del Paese sulla necessità di risollevare l’economia nazionale>> e si prese il merito di <<aver considerato che l’organizzazione cooperativa, pel fatto della sua deficienza finanziaria, per la mancanza di coordinamento e compattezza, non avrebbe potuto da sola esercitare una efficace azione>>21. Ecco perché si rendeva necessario (e la Lega chiedeva a gran voce) l’impegno di risorse statali: lavori pubblici e finanziamenti comunali.

Nel dopoguerra assistiamo a un nuovo, enorme sviluppo. La cooperazione risorge, più forte che mai, sia per l’aumento dei prezzi che, in una situazione di impoverimento sociale, favorisce la cooperazione di consumo; sia anche per le prospettive intraviste da chi, tornato dalla guerra, povero e disoccupato, vuole tentare la via cooperativa per garantirsi un futuro. Si concretizza in questi anni la

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definitiva rottura tra la Lega, sempre più orientata a sinistra, e la cooperazione cattolica. Quest’ultima dà vita a un organismo proprio nel 1919, la

Confederazione delle cooperative nazionali, alla quale aderiscono tutte le

numerosissime cooperative cattoliche esistenti e che si fa forte dell’appoggio politico del partito di don Luigi Sturzo e dell’appoggio finanziario del neonato istituto di credito Banca Nazionale del Lavoro e della Cooperazione.

L’entusiasmo per il nuovo florido periodo calò con l’avvento di una nuova disgrazia per la cooperazione: il fascismo. I fascisti presero di mira le cooperative fin dall’inizio e attuarono nei confronti di esse dei veri e propri blitz di devastazione: violente incursioni a scopo distruttivo. Dal 1919 al 1924 fu questo l’approccio fascista, che, in seguito, cambiò nella direzione del controllo. Così come in ogni altro settore, infatti, il regime volle impadronirsi delle strutture e del consenso. In quest’ottica venne creato l’Ente Nazionale Fascista

della Cooperazione con sede a Roma, venne, ovviamente, sciolta la Lega e

vennero imposti princìpi fascisti (legati all’economia corporativa) in contrapposizione ai vecchi princìpi solidaristici delle cooperative. Il fascismo, nell'applicare il suo progetto di cancellare tutte le altre culture politiche a favore del regime, cercò d'integrare la realtà della cooperazione all'interno del sistema che aveva creato: furono attivati controlli e scoraggiati tutti i tentativi che sembravano volti ad operare in piena democrazia, e tale scelta risultò deleteria per il cooperativismo. Il fascismo impose l'adesione di tutte le cooperative

all'Ente Nazionale Cooperative, ingessando in tal modo la vita sociale e

democratica delle aziende e impedendo la libertà d'iniziativa economica, e, pur riconoscendo nel cooperativismo un opportuno mezzo di risanamento economico per il paese, indirizzò verso le cooperative aggressioni squadristiche, inserimenti di soggetti appartenenti allo stato nelle assemblee, tagli finanziari lì dove la

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violenza avrebbe creato contraccolpi negativi e ogni tipo d'azione volta a creare disordini e tumulti, in particolare durante le assemblee.

Nel gennaio 1945, quando ormai il regime era agonizzante e molte cooperative stavano risorgendo, nascendo o uscendo allo scoperto, Mussolini tentò il riavvicinamento alla cooperazione nella speranza di un ultimo consenso: offrì alle cooperative la gestione diretta delle industrie dei generi alimentari e dei servizi di distribuzione. La manovra, in effetti, fallì perché le cooperative si erano ormai già alleate con il CLN, che, nello stesso anno, aveva, tra le altre cose, provveduto a ricostituire la Lega. Già nel periodo della clandestinità, del resto, alcune rappresentanze locali del CLN avevano provveduto ad elaborare programmi specifici per il settore della cooperazione e a designare le persone incaricate di realizzarli. I comitati furono il vero motore trainante della ricostruzione del tessuto democratico e associazionistico: fornivano il loro appoggio nella costituzione della cooperativa, nel reperimento delle attrezzature e dei magazzini necessari, ne convocavano il primo consiglio. Tutto ciò con una sola linea guida: l’apoliticità e l’antifascismo della cooperativa; solo così poteva nascere una cooperazione “sana”. I partigiani e i dirigenti politici, gli esponenti di tutti i partiti e di tutte le linee di pensiero, comunisti, socialisti, democratici, nel programmare la ricostruzione dell’Italia dopo la guerra, avevano incluso nei piani il movimento cooperativo, che avrebbe rappresentato un agente di primo piano nella rinascita di un’economia prospera, libera e democratica.

1.7 Il dopoguerra: ricostruzione e problemi.

Sebbene la cooperazione fosse ritenuta così importante per la ricostruzione di una solida economia e l’entusiasmo fosse stato così forte da

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includere la salvaguardia del movimento anche nella Costituzione, i primi governi parvero non occuparsene prioritariamente e, di fatto, tardò di molti anni una legislazione chiara ed esauriente in materia. La definizione di un nuovo ordinamento legislativo alla fine degli anni quaranta fu, senza dubbio, il problema più importante che la Lega si trovò ad affrontare. Sia perché, in presenza del codice del 1942, le cooperative continuavano ad essere equiparate agli altri tipi di società aventi scopo di lucro; sia perché, in assenza di un riconoscimento formale dei “fini sociali della cooperazione”, il movimento cooperativo non avrebbe potuto ottenere dallo Stato alcun intervento che ne favorisse lo sviluppo22. La prima legge in materia fu il decreto legge del 14 dicembre 1947, concepito originariamente come un semplice provvedimento di emergenza alla vigilia dell’entrata in vigore della Costituzione, la cosiddetta legge Basevi, contenente “provvedimenti per la cooperazione”. Lo scopo di questa era proteggere la vera cooperazione da aziende che si definivano cooperative, ma erano “spurie” e perseguivano prevalentemente fini di lucro, definendo i principi ai quali dovevano ispirarsi le società cooperative per essere riconosciute tali dalla legge, il requisito di mutualità da rispettare e istituiva un registro nel quale le aziende cooperative, così definite, dovevano obbligatoriamente registrarsi per poter accedere alle agevolazioni previste dalla legge. La legge Basevi rappresentava una soluzione temporanea al problema, nell’attesa di una riforma e di un coordinamento delle leggi cooperative che dessero vita a un eventuale codice della cooperazione. Infatti, al momento, vi era l’impossibilità di modificare il Codice Civile e la Costituente era sfornita di qualsiasi potere per la legislazione ordinaria: ecco perché il Governo poté intervenire soltanto con un decreto legge - tappabuchi. Proprio per il suo carattere e per la fretta con cui fu emanata ed approvata, la legge Basevi

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presentava diverse lacune e imperfezioni, che rendevano eludibili parecchi punti, oltre a non favorire affatto lo sviluppo della Cooperazione. Di fatto, però, fu l’unica legge sulla cooperazione per alcuni decenni ancora.

L’altro grande problema, oltre a quello normativo, era quello del credito, sul quale i dirigenti della Lega avevano più volte richiamato il Governo. Di fatto, nemmeno all’interno della Lega e dello stesso movimento vi era una uniformità di vedute che consentisse una pacifica soluzione. Per alcuni, il fabbisogno finanziario della cooperativa doveva essere colmato soltanto dai soci, con capitale proprio e/o con ore di lavoro a pagamento differito (i rischi, però, erano la mancanza di fondi e l’isolamento nell’autarchia); mentre per altri era normale ricorrere a finanziatori esterni o alle banche. Per il credito d’impianto, invece, c’era chi si aspettava il completo aiuto statale e chi, invece, lo prevedeva soltanto in minima parte.

La Lega, nel frattempo, non cessò la sua attività di sostegno alla cooperazione e di pressione sul Governo e, al Congresso di Firenze del 1949, programmò un’azione rivendicativa e di rafforzamento, mediante la fusione e la concentrazione delle cooperative e di appoggio alle iniziative politiche e sociali dei lavoratori mediante i piani economici, il sostegno ai lavoratori nel corso degli scioperi e la cura dell’educazione e ricreazione infantile mediante le colonie, gli istituti d’istruzione, le biblioteche.

Ai due già citati problemi si aggiunse, negli anni cinquanta, anche il problema politico, con lo “scoppio” della Guerra Fredda. Già alla fine degli anni quaranta la contrapposizione tra cooperazione cattolica e cooperazione di sinistra andava sempre più accentuandosi e lo stesso De Gasperi, dopo aver parlato della cooperativa come un fenomeno del tutto trascurabile presente solo in alcune regioni ed entro certi limiti, ammise che la Dc <<poneva la sua influenza politica a favore delle cooperative cosiddette bianche>> mentre il ministro del lavoro

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Fanfani, contemporaneamente, escluse definitivamente la possibilità di un ministero della cooperazione (fortemente rivendicato dalla Lega) a tutela di un movimento <<la cui importanza non è tale da giustificare la richiesta dei cooperatori>>. In una simile situazione l’appello all’unità della cooperazione del neo-presidente della Lega Cerreti appariva assolutamente vano.

Fu così che, all’inizio degli anni cinquanta, il movimento si trovò sotto la tutela dei partiti di sinistra, osteggiato dal governo, senza leggi o organismi che concretamente lo tutelassero, spaccato al suo interno dietro le apparenze unitarie e con scarse disponibilità economiche. Nemmeno il sindacato era d’aiuto, dal momento che Camere del lavoro e federazioni di mestiere erano pronte in ogni occasione a chiedere assistenza alle cooperative e posti di lavoro per i propri elementi e militanti, senza, però, ricambiare in alcun modo i favori. Il governo Scelba, dal canto suo, fece di tutto per osteggiare la cooperazione di sinistra. I provvedimenti varati sembravano avere come obiettivo non l’accertamento dei fini mutualistici delle imprese cooperative, ma la liquidazione delle “retrovie del movimento operaio”. Le cooperative erano accusate soprattutto di essersi avvalse dei contributi pubblici oltre il dovuto e per fini speculativi piuttosto che mutualistici. Diverse stazioni appaltanti smisero di invitare cooperative e consorzi alle gare. Le “ispezioni straordinarie” misero in ginocchio molte cooperative, accusate di finanziare i partiti di sinistra e di organizzare o sostenere le lotte contro il governo; molte licenze furono ritirate per motivi del tutto futili. Anche le cooperative associate alla Cci e quelle senza etichetta politica furono sottoposte a misure di controllo; tanto che alcune di esse furono sciolte e altre caddero sotto regime commissariale. Contro il carattere arbitrale dell’azione governativa il partito comunista e quello socialista si batterono tenacemente in Parlamento e in altre sedi, invocando il ritorno di tutte le aziende passate sotto regime commissariale ai loro soci e l’abolizione di tutte le restrizioni comunque

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varate a danno delle cooperative. A bloccare l’ondata di persecuzioni subite dal movimento cooperativo fu, infine, la mobilitazione dei partiti di sinistra che, in collaborazione con la Lega, organizzarono a Milano il 16 Gennaio 1955 un’imponente manifestazione, seguita da assemblee di massa in varie località.

La situazione delle aziende cooperative restava tuttavia critica, sia per i contraccolpi della guerra fredda, le ideologie forti e controproducenti, che vedevano ancora la cooperazione solo come un prologo alla creazione di un’economia collettiva socialista, sia per l’incapacità di gestione di molti di coloro che erano alla guida delle cooperative (non di certo manager d’esperienza o uomini d’affari), ma anche per i costi che l’indirizzo deflazionista e la crescente disoccupazione comportarono per il settore. Situazione, questa, che iniziò a mutare solo con gli aiuti internazionali e le spinte americane, ma l’arretratezza del movimento italiano rispetto a quelli europei e l’eccessiva frammentazione restavano ancora evidenti.

1.8 Gli anni sessanta, il boom e il dibattito sull’aziendalismo nella gestione.

Alla fine degli anni cinquanta, la gestione economica delle cooperative era ancora prevalentemente ideologica. Osserverà più tardi Franco Tioli, uno dei dirigenti della cooperazione modenese: <<Prevaleva nella cooperazione l’idea che si dovessero evitare gli organismi “elefantiaci”, come si diceva allora. Questa posizione, a mio parere, era determinata dall’estrazione politica di molti funzionari sindacali, che li portava a privilegiare la politica sociale, la presenza diffusa “sul territorio”, rispetto alle necessarie misure di rafforzamento aziendale. Io ritenevo che, se una cooperativa andava male economicamente,

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funzionava male anche come strumento di politica sociale, ma dire queste cose negli anni cinquanta portava perlomeno all’accusa di “aziendalista” se non di borghese23>>. Sta di fatto che l’obiettivo principale che allora si assegnava a un’azienda non era di “avere buoni bilanci e di migliorare i propri servizi”, ma di “educare i soci all’autogestione e di contribuire alla costruzione di una società socialista”24.

Le cooperative di consumo, in particolare, risentivano della cattiva gestione più delle altre, non solo per la scarsa capacità contrattuale (date le dimensioni) nei confronti dei fornitori, ma anche per la cattiva gestione delle risorse umane e per la pratica oltremodo diffusa dei crediti di banco. L’unificazione significava ridurre i costi generali e aderire così a una visione imprenditoriale dell’azienda cooperativa. Di fatto, solo per la pressione esercitata dalle difficoltà finanziarie che travagliavano le cooperative troppo esili e disperse si procedette gradualmente alla fusione in organismi di più grandi dimensioni e alla creazione di consorzi d’acquisto unici su base provinciale. Il Consorzio acquistava in proprio dalle ditte private alcuni prodotti che venivano poi rivenduti alle cooperative e, soprattutto, curava l’intermediazione e la contrattazione tra le ditte produttrici e i negozi cooperativi, nell’ottica di “acquistare bene per vendere bene. Tuttavia, anche gli stessi consorzi, nei primi anni, non furono accettati di buon grado da tutti, tanto che alcune cooperative decisero di non aderirvi. La diffidenza nei confronti di strutture verticali, quali i Settori e i Consorzi, era manifesta nella sinistra e, in particolare, nel Pci.

Gli anni sessanta segnarono una vera e propria svolta strategica della Lega, un ripensamento sugli obiettivi e sulla gestione delle cooperative: si lavorava per introdurre criteri di funzionalità ed economicità all’interno del sistema. E’ significativo che ciò avvenne quasi in sintonia con il processo di

23

Francia M., Muzzioli G. – Cent’anni di cooperazione, Il Mulino 1984 24 Castronovo V. – Storia del movimento cooperativo in Italia, Einaudi 1987.

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revisione manifestatosi nella Cgil, indotta a una seria autocritica sotto il peso dei suoi errori di “astrattezza e schematismo”. Sono gli anni in cui il boom economico investì l’Italia e ci fu grande attenzione delle unità su dimensioni che permettevano una migliore gestione quantitativa e qualitativa delle risorse economiche e non. Lo stimolo al rinnovamento prese le mosse dalla constatazione dell’isolamento al quale si stava riducendo il movimento cooperativo, ma anche alla ridefinizione del partito comunista enunciata da Togliatti nel 1956. Non fu tuttavia facile imprimere la nuova direzione al movimento, gonfio ancora di timori e di prudenze e perplesso sul rapporto tra partito e cooperazione. La Lega era, di fatto, considerata in quegli anni come “cinghia di partito”; non fu perciò facile accreditare l’idea che essa dovesse orientarsi verso funzioni di coordinamento e di formazione più caratterizzate in senso imprenditoriale. Né fu facile convincere i cooperatori a stabilire nuovi rapporti con i piccoli e medi produttori.

Con le nuove logiche, la cooperazione ebbe nuova vita e finalmente si sviluppò con forza esplosiva. I grandi consorzi nazionali come Coop videro, in questi anni, un forte sviluppo e l’affermazione definitiva, con punti vendita che uscivano dalla riorganizzazione sempre più moderni e con la capacità e la volontà di concorrere con le grandi catene di supermercati privati. L’esperienza maturata in alcune regioni servì da guida alla direzione della Lega e questa, a sua volta, agì da stimolo e da sostegno ad iniziative locali. In Toscana, per esempio, il processo di concentrazione avviato a suo tempo portò allo sviluppo di due grosse aziende: l’Unicoop di Firenze e la Proletaria di Livorno, che giunsero ad annoverare complessivamente più di 160000 soci e quasi un terzo dei punti vendita cooperativi. Si trattava non più di monospacci o di altre piccole botteghe. <<La strategia del riassetto aziendale – dice Celso Banchelli, allora responsabile del settore della Toscana – è consistita nel concentrare gli sforzi, laddove c’erano

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possibili obiettivi di sviluppo e d modernizzazione della rete di vendita. Così abbiamo proceduto a una ristrutturazione su tre piani: le cooperative deputate ad impegnarsi nell’attività di istituzione e di gestione moderna dei punti vendita, cioè le grandi cooperative; le cooperative destinate a gestire un numero limitato di negozi tipo Superette – che è il negozio “bastardo”, diciamo così, rispetto al supermercato ed al grande magazzino e rispetto al negozio tradizionale – dunque le medie cooperative; infine le cooperative che invece dovevano – e devono – gestire negozi di campagna, di agglomerati urbani modesti, dove non c’è la giustificazione economica per un impianto di grande distribuzione. In questa maniera, a differenza della grande distribuzione, la quale ha scremato settori in cui la domanda dei consumatori era più ricca e più concentrata, noi abbiamo assicurato una presenza cooperativa dovunque>>. A questo processo di riorganizzazione aziendale era seguita una più accurata opera di selezione degli articoli posti in vendita, basata non solo sulla difesa della genuinità del prodotto, ma anche sulla restrizione delle varianti, delle cosiddette “referenze”, per ogni famiglia di prodotto, nell’intento di evitare sprechi e diseconomie>>25.

La strada, comunque, che portò la cooperazione di consumo a misurarsi con le regole del mercato e non più soltanto con le finalità assistenziali, fu tortuosa, oltre che differente da provincia a provincia, da caso a caso.

1.9 Gli anni settanta.

Dopo due decenni in cui la cooperazione, in pratica, fu snobbata da più parti, considerata come un movimento marginale e quindi destinata a scomparire, abbandonata al vuoto legislativo, all’inizio degli anni settanta qualcosa si mosse.

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Furono questi gli anni in cui si tentò finalmente una riforma alla ormai datata legge Basevi. Nel 1971 una prima piccola riforma diede ampio spazio al rafforzamento imprenditoriale delle cooperative con una serie di provvedimenti mirati alla modernizzazione del funzionamento delle stesse e con importanti agevolazioni fiscali non solo per le cooperative, ma anche per i consorzi, purché questi rispettassero il requisito di mutualità.

Nel frattempo, la situazione economica italiana era mutata rispetto agli anni sessanta: assistiamo a una stasi della produzione, con forte inflazione e disavanzo pubblico crescente, aggravato da una situazione politica non facile, caratterizzata da stragi terroristiche. In questo frangente, però, il movimento cooperativo era ormai forte e, cosciente del proprio valore, nel congresso del 1973 a Firenze si pose come uno strumento indispensabile per dare soluzione ai problemi che investivano il paese. Esso, infatti, era connotato da una potenza sia economica che sociologica e avrebbe potuto capitanare l’avanzamento democratico del paese. Le speranze dei giovani disoccupati e delle persone che vivevano nel Mezzogiorno si riposero, così, nella cooperazione, che assunse, di fatto, un ruolo da protagonista nell’economia italiana, caratterizzandosi come la “terza via”, alternativa sia al capitalismo delle imprese private che al sistema delle imprese pubbliche. A metà degli anni settanta, a seguito di un processo di fusioni e ristrutturazioni in fase di definitivo compimento, le cooperative non erano più delle imprese marginali, subalterne alla media e grande impresa privata, e non sempre competitive con la piccola-media impresa.

Sussistevano, naturalmente, situazioni molto differenziate e problemi di inefficienza e di scarsa concorrenzialità. Tuttavia, accanto ad alcune piccole e medie cooperative che tentavano di coprire la loro arretratezza con appelli solidaristici alle altre cooperative o con una politica di bassi salari, esistevano molte altre aziende cooperative che avevano raggiunto un elevato livello di

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produttività e di efficienza e che erano costantemente impegnate sia nell’aggiornamento delle tecniche produttive, sia nella formazione dei quadri e del personale, e in alcuni casi persino nel campo della ricerca scientifica e dell’organizzazione del lavoro26.

Non solo la “vecchia” cooperazione si rinnova, ma nascono anche nuove forme di cooperazione, quali associazioni tra dettaglianti, culturali, di servizi. Particolare attenzione va data a quelle cooperative di servizi che entrano in un settore prima esclusivamente pubblico, lasciato al welfare, come quello dei servizi socio-assistenziali e sanitari. Altro dato importante è l’attivazione del Fincooper, consorzio delle cooperative di servizi finanziari, accompagnato da un programma di sviluppo della politica finanziaria delle cooperative che si basava sul prestito dei soci. Si trattava, da un lato, di aumentare notevolmente il capitale del consorzio finanziario della Lega, dall’altro, di raccogliere ogni possibile eccedenza di liquidità dalle cooperative di base e dai loro organismi. Questa prima operazione di ricapitalizzazione, sebbene non tutte le cooperative si fossero mosse allo stesso modo, si risolse in un enorme successo. Il rilancio del Fincooper avvenne in tempo utile per attutire in parte i contraccolpi più gravi dell’aumento del costo del denaro che, dal 1977, superò gli indici di crescita dell’inflazione. Larga importanza iniziò ad essere data all’accumulazione, prima demonizzata, ora una misura della validità dei processi produttivi. Così il cerchio si chiudeva: partecipazione dei soci con capitale direttamente alle imprese, prestito dei soci alle cooperative, accumulazione, attività produttiva e investimento, necessità di governare gli investimenti. Si passò, in pratica, dagli imprenditori-comunisti ai finanzieri della cooperazione rossa.

Nel 1977 la cooperazione aveva suscitato un interesse talmente forte che venne ufficialmente riconosciuta come forza economica di rilevanza nazionale e

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protagonista dello sviluppo del paese, tanto che il Governo convocò una conferenza nazionale sulla cooperazione che ebbe il duplice merito di riunite dopo più di trent’anni tutte le componenti della cooperazione in un’unica assemblea e di ristabilire i rapporti tra le istituzioni pubbliche e il movimento cooperativo.

Tra il 1978 e il 1979 si ha una nuova fase espansiva, caratterizzata da un nuovo impegno per la questione meridionale e incoraggiata dagli ottimi rapporti con il Governo e dall’approvazione del piano decennale per la casa, nuove strutture per l’agricoltura e la legge per l’occupazione giovanile.

1.10 Dagli anni ottanta ai giorni nostri.

Gli anni ottanta furono anni difficili per il movimento cooperativo, che si trovò a fare i conti con il mercato, la concorrenza dei privati, la possibilità di espansione oltre i confini nazionali, la qualità del prodotto, del management, la solidità finanziaria, l’accumulazione e il profitto. Insomma, le trasformazioni del sistema produttivo portarono ad interrogarsi sui medesimi problemi sui quali si interrogava l’azienda privata e il capitalismo in generale. Come coniugare tutto ciò con i valori cooperativi? Era ancora possibile parlare di imprese “diverse”, “etiche”, “anticapitaliste”?

Fino allora concetti come profitto, managerialità, cultura imprenditoriale avevano fatto a pugni con i princìpi tradizionali del decalogo cooperativo27. Sebbene la Lega avesse abbandonato ormai da un pezzo certi miti utopistici che l’avevano portata negli anni cinquanta a respingere ogni compromissione con la socialdemocrazia, è vero tuttavia che non tutta la base aveva rinunciato in cuor suo a quella pratica della “doppia verità”, a quella scissione fra prassi e

27 Vedi Capitolo 2

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