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Antefatto in una Riserva Artificiale

Capitolo terzo DISCOVER

3.1 Antefatto in una Riserva Artificiale

Per comprendere appieno il suo significato è corretto risalire la corrente fino ad arrivare a un progetto svoltosi nel 2003, coordinato dall’artista Cesare Pietroiusti. Alla guida di un gruppo di studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, Pietroiusti aveva individuato un’area strategica in cui mettere in pratica il suo progetto. Trattavasi di una zona di confine, piena di sbarramenti, utile per nessuno, ma dove vi transitavano accanto moltissime persone ogni giorno. Una landa fantasma, un piccolo triangolo dimenticato e comunque ancora capace di mantenere la sua strana storia. Tutto questo nel porto di Marghera, dove proprio i confini così incerti e diversi caratterizzano l’abbandono di quest’area. È una sorta di darsena per i rimorchiatori, con un bar, alcuni uffici e delle officine, materiali di deposito sulla banchina, circondata da strade in cui camion corrono veloci, le industrie sono a due passi, il transito fugace è all’ordine del giorno. Riserva Artificiale è diventato il nome del progetto, un laboratorio dove vengono individuati dei percorsi per ripensare gli oggetti, rari e in via di estinzione, da proteggere come in una riserva per l’appunto, unici protagonisti rimasti su una scena la cui natura è artefatta, metallica, in apparenza senza storia.

Nello specifico, ai visitatori che entravano nelle sedi centrali della Biennale veniva dato anche un coupon che offriva la possibilità di recarsi nella riserva. Gli studenti poi, come vere guide, prelevavano le persone da Piazzale Roma per accompagnarle fino al luogo prescelto, dove poi erano organizzati i diversi percorsi. Questo significava da parte dello spettatore la presenza, a monte, di una scelta libera e consapevole per abbandonare i lussureggianti Giardini e l’Arsenale e addentrarsi come esploratori moderni in una giungla di relitti e cose non ben identificate. Tra tutti i visitatori della Biennale, dunque, questi gruppetti formati da una dozzina di personaggi alla volta potevano essere indicati come i soggetti veramente interessati a dinamiche fuori dagli schemi istituzionalizzati e pervasivi, costantemente alla ricerca di forme altre, di un’arte capace di manifestarsi là dove un luogo non ha qualità, sapendo leggere il sostrato.

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Molto spesso capitava di dover camminare lungo un cavalcavia, scavalcare parapetti, attraversare nel pieno del traffico, muoversi in bicicletta per raggiungere la Riserva. Fin da subito si instaurava un clima diverso da quello percepibile nei Padiglioni, in cui a muovere la macchina era l’attivazione concreta dei partecipanti, che sebbene avessero scelto liberamente di visitare questi luoghi, non avevano scelto altrettanto liberamente la modalità per raggiungerlo. Avevano accolto la sfida e si erano messi in gioco ancor prima di usufruire dell’arte. Inconsapevolmente facevano già parte del progetto.

Arrivate nella darsena, le persone venivano invitate a percorrere sei sentieri diversi, che incrociando una chiesa, un archivio, un’aiuola accanto a un metanodotto e alcune barche terminavano puntualmente in corrispondenza di pareti, mura colme di crepe che lasciavano intravedere altri orizzonti, mantenendo intatta la soglia senza via di fuga. Ogni azione era pensata e agita non per rivoluzionare lo stato delle cose, ma per comprendere nel profondo lo scenario, catalogando gli oggetti, ascoltando le storie dei lavoratori che sono passati per la darsena. L’arte così vuole indagare l’esistente, guarda alla sua eterogeneità nell’ottica di una sua salvaguardia. Attraverso il documentare, si cerca di agire per creare collettivamente nuove possibilità di interpretare le sottese dinamiche di complessità presenti in loco, a volta affiancate da inaspettati sguardi poetici, semplici e taglienti, capaci di leggere la realtà in modo sottile.

Inventando nuovi metodi di comunicazione, l’arte è come una novella colonizzatrice, che positivamente cerca di far riemergere il sito proprio mediante il suo essere anonimo, per molto tempo negato a un pubblico che ora sembra voler partecipare alla sua rilettura. Una specie di capolinea a cui donare nuova forza motrice.

Intervistando Viviana, ciò che lei ricorda con maggior interesse è l’incipit di tutta la storia. Come lei e gli altri studenti si sono trovati a fare un sopralluogo sul posto: le visioni degli oggetti, gli odori respirati, i rumori percepiti sono stati gli elementi scatenanti di un’intensa discussione che, avendo saputo recepire ogni stimolo possibile, è poi riuscita a innescare l’intero progetto. Il fatto che per lei fu strabiliante va a inscriversi nella pratica messa in atto da questi studenti, che sotto la guida di Pietroiusti in una giornata avevano già definito la forma del progetto, semplicemente condividendo idee e conoscenze, sapendo di dover sporcarsi le mani per dare forma concreta ai propri desideri.

Prendere parte a questo disegno fu per lei la fondamentale nell’arrivare a delineare l’embrione del suo personale progetto. Assistere e agire in prima persona all’interno di un contesto diverso, più sincero e autentico, senza dover sottostare a pesanti schemi e

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linee guida, aiutò nel trasporre queste stesse basi per un’altra idea, parimenti legata a un luogo e ad altri volti.

Ulteriore aspetto da precisare è la presenza di Cesare Pietroiusti come mentore della Riserva. Il suo lavoro di fonda in buona sostanza sull’elaborazione dei comportamenti della gente in maniera non convenzionale. Secondo il suo pensiero, l’arte funge da opportunità che va colta per sperimentare e provare emozioni nascoste, pensieri indicibili, un’occasione con cui conoscere a fondo se stessi. Senza seguire, però, strade già battute, ma nutrendo il pensiero laterale, riscoprendo una fantasia bambinesca. Nel mondo che si percorre ogni giorno, a fare da padrone sono le convenzioni, le logiche di potere e la mania incontrollata per il consumo.

Quello che sta a cuore a Pietroiusti è scardinare queste situazioni, optando per un’ottica dell’insensatezza. Crea binomi impensabili, eventi fuori posto, dove sembra tutto senza senso. Soltanto da questa situazione paradossale si può arrivare a misurare la positività delle risposte delle persone, il loro disorientamento. I limiti previsti dalla nostra mente, con tutti i suoi meccanismi psicologici interessano molto l’artista, il quale ha una formazione medica specializzato in clinica psichiatrica. Mette in atto dei gesti con cui cerca di provocare lo spettatore, introducendo formule logiche nei rapporti interpersonali e osservando il decorso del processo, la manifestazione di un paradosso.

Per Pietroiusti la scoperta di poter fare l’artista è diventata la sua modalità di vivere, esplorando il suo essere e i legami tessuti con gli altri, indagando tali dinamiche sapendo che la pratica artistica fosse il punto di partenza da cui innescare il movimento generale ed anche il movimento di per sé, nel mezzo del quale collocare il proprio intervento. Con ciò si intende il significato di arte eventualista.

Dall’ambiente del laboratorio artistico è passato poi a proseguire le sue sperimentazioni all’interno di una cornice più ampia, come quella della Riserva Artificiale, in cui far confluire e agire spettatori ignari del piano stabilito in precedenza. Il contesto urbano ha fatto così il suo ingresso, permettendo a Pietroiusti di andare a fondo della sua ricerca inerente allo spazio. Uno spazio che non presenta la sola dimensione fisica, ma che prevede quello sociale inteso come sistema e quello psichico, il pensiero. Tra questi spazi sono poi possibili rapporti di scambio e di movimento, collegamenti tra un interno e un esterno e forse si potrebbe parlare di esplorare anche ambienti finora ritenuti non praticabili. Pietroiusti guarda all’arte in tale prospettiva, come un fare capace di creare spazio e rendere possibile ogni sorta di spostamento.

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