Capitolo terzo DISCOVER
3.9 Un trampolino per tutt
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Non è facile inquadrare con un unico focus tutto ciò che riguarda LFF, ci sono troppe diramazioni, troppi personaggi che vi hanno preso parte, troppi posti connessi tra di loro. A un’attenta analisi può sfuggire cosa sia LFF, che progetto si ricollega a cos’altro, chi segue quel dato laboratorio, quale sia il ruolo di una persona in una macchina che gira così velocemente.
Come è stato delineato dalla descrizione del festival, Lago è parlare di progetti e di coloro che lo animano, non un semplice decalogo delle cose che capitano in paese, ma un ricco susseguirsi di azioni, reazioni, novità e forza che le menti del progetto fanno sì che si realizzino. Lago non è propriamente un festival, o meglio, lo sono quei nove-dieci giorni all’anno in cui si proiettano film, si danza e ci sono concerti. Vi è poi tutto un contorno frastagliato che negli anni si è via via allargato, dando la possibilità a sempre più soggetti di avere un ruolo partecipe, proattivo.
Riprendendo brevemente il discorso del paragrafo precedente, relativo alla testualità nelle sue diverse sfaccettature, la piattaforma si offre come buon banco di prova per affrontare la questione dell’intermedialità, che si nutre del rimando a differenti dimensioni simboliche per poi farle convergere in un unico ambiente. Coniato in campo performativo dal compositore facente parte di Fluxus Dick Higgins, il lemma si riferiva alla possibilità di esprimersi mediante l’uso di tecniche differenti riunendole in un unico sistema funzionante. Intermedialità indica un ambiente colmo di intersezioni tra svariati ambiti, da quello sensoriale a quello linguistico, a quello più generalmente comunicativo, in cui i soggetti sanno mantenere la propria peculiarità rappresentativa. Tale breve descrizione sembra calzare a pennello con ciò che estrinseca Piattaforma Lago (PL).
In aggiunta, la costante contaminazione che si effettua grazie a questo metodo è un altro degli obiettivi perseguiti dal progetto, che proviene non solo dalla molteplicità dei processi messi in atto, ma anche dalla dimensione personale che ogni artista e ogni soggetto fa arrivare a Lago con la sua partecipazione.
L’intermedialità è come un grandioso concerto composto da polialfabeti che, recuperando porzioni di linguaggi e aggiungendo nuovi tasselli al mosaico, sanno creare armonie connettive che a loro volta si diffondono nello spazio e nel tempo attraverso produzioni di se stesse in cui i significati sono cresciuti, così come sono cambiati gli attori dell’azione. La natura così essenzialmente reticolare del fenomeno costituisce la ricchezza intrinseca del progetto e ne conserva l’autenticità, poiché non è prevedibile conoscere lo sviluppo futuro della successiva metamorfosi.
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A ben vedere, si può affermare che tutti questi movimenti centripeti e tendenti simultaneamente all’esterno alla fin fine somigliano a quello che potrebbe essere una creatura vivente: la spinta che fa convergere le azioni (verso un corpo) è controbilanciata da quei meccanismi che invece riportano tutta l’eterogeneità proveniente da una sensorialità dinamica. Una sorta di sistema poroso, che funziona grazie ai moti in uscita e in entrata.
Tale sistema nasce da un’idea precisa di Viviana che al seguito di alcune esperienze vissute quando era ancora una studentessa l’hanno portata a formulare la sua particolare ricetta.
Pensando al proprio piccolo borgo, il desiderio era principalmente quello di avvicinare i propri compaesani all’arte contemporanea in tutte le sue forme, decostruendo l’alone mitico di materia incomprensibile e senza scopo alcuno, rendendola leggibile e trasferibile alla vita quotidiana.
Secondo ingrediente, il carattere informale della cosa. Le persone dovevano incontrarsi in un contesto sereno, privo di etichette, dove ricercatori di ogni campo potessero confrontarsi vivendo in stretto contatto con un luogo ricco di una sua specificità e con gli abitanti, facendo entrare pian piano anch’essi nel disegno generale in cui far interagire le persone con musica, film, teatro e danza.
Si trattava di legare qualcosa di semplice, naturale con qualcosa di straordinario.
Di unire l’artisticità alle dinamiche a essa sottese, facendole venire a galla, facendole evolvere affinché fossero le persone, rese consapevoli, ad appropriarsene per farle proprie e costantemente altre.
Viviana si riferisce a Lago come a un progetto vivente e duraturo di public art, la cui scena sono le case di pietra, le viuzze, il lago e la sua spiaggetta, mentre i protagonisti sono gli abitanti stessi, che dialogando con i visitatori occasionali riescono a nutrirsi di questa esperienza, passando naturalmente attraverso il cinema e la sua magia.
Il festival essenzialmente come luogo di passaggio e di scambio, dove capitano un sacco di eventi sovrannaturali che grazie alla loro sorprendente genuinità riescono a lasciare un segno nella storia di ciascuno.
La metodologia con cui ci si pone nel proporre e nel creare un qualcosa è cruciale, soprattutto per un tipo di arte che tendenzialmente resta invisa alla maggioranza della popolazione, che dopo un primo approccio negativo, decide di astenersi da futuri avvicinamenti, perché ritiene di non poterla capire, di non poterla fare propria.
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Nel metodo sembra inscriversi una definizione di arte relazionale dunque. Inoltre, se simili interventi sono efficaci è perché riescono a inserirsi nel contesto agendo in silenzio, intrufolandosi in quei famosi interstizi di cui trattava per altri scopi Marx.
Già da queste considerazioni iniziali si palesa la necessità di parlare non di evento, ma di progetto con una progettualità per l’appunto definita, con obiettivi precisi, che per riuscire ad avere risultati positivi sull’ambiente deve preporsi di agire lentamente, senza avere l’impeto e la smania dei grandi numeri e dell’impatto mediato tout court.
Quasi certamente l’idea della piattaforma è nata prima di quella del festival, come logica risposta alla volontà di creare un’occasione di scambio reciproco mediato dall’arte. La prima applicazione concreta di tale desiderio si è estrinsecata in quello che oggi è a tutti gli effetti Lago Film Fest. Dell’intera Piattaforma, Lago non è che una zolla, una parte che negli anni ha saputo rappresentare il tutto e che, nonostante tutte le difficoltà economiche affrontate, rappresenta tutt’oggi. Dal primo anno dove ci si sedeva sulle panche fornite dagli alpini, dove il proiettore non era altro che un lenzuolo e il pubblico era un’allegra combriccola di amici e qualche laghese più coraggioso, oggi le cose sono cambiate in maniera radicale. I giovani sono cresciuti col festival affezionandosene, dando il loro contributo come volontari, le sale cinematografiche si sono sparse tra le case invadendo con grazia i cortili (che da privati sono divenuti suolo pubblico), qualche abitante ospita nella propria dimora un artista, uno straniero. Moltissimi altri, però, con la sistemazione di tutto il centro storico, hanno iniziato a decorare finestre e cortili con vasi di fiori, curando anche l’aspetto esteriore del paese, quasi ad affermare con fierezza la propria appartenenza al paese e per estensione anche al festival.
L’ultima proposta per dare una svolta significativa alla Piattaforma è stata la partecipazione al bando Culturability, indetto da qualche anno dalla Fondazione Unipolis, il cui scopo è sostenere progetti miranti a una innovazione in campo sociale e culturale per favorire il benessere diffuso a una collettività. La proposta di LFF viene dalla consapevolezza di non possedere un luogo ben preciso che possa aiutare nell’identificazione da parte del territorio di un’entità effettivamente presente, il cui edificio di rappresentanza ne simboleggia in parte la localizzazione.
Quasi a dire che l’assenza del luogo fisico stia a indicare conseguentemente l’assenza del festival stesso.
Nuovamente, la metodologia del questionario è risultata rilevante per la scelta della futura casa di LFF. I cittadini hanno avuto così l’opportunità di esprimere la loro opinione, anche
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in riferimento a valutazioni su edifici abbandonati e sulla zona in cui vivono, mettendo nero su bianco un loro sentire veritiero e necessario per un avvicendarsi positivo della situazione attuale. Lo staff ha ricevuto un buon riscontro grazie a questa inchiesta, notando con piacere la presenza diffusa del bisogno di comunicare del singolo abitante, portatore di pensieri consapevoli molto più di quando non si immagini, attento alle esigenze di diverse fasce d’età.
L’idea è allora quella di recuperare un edificio per ora proprietà del Comune di Revine Lago trasformandolo nel proprio quartier generale. Già indicato dal Comune come l’ente migliore nella zona per il riutilizzo dello stabile, LFF si prefigge di farne un centro di sperimentazione e di diffusione della cultura, un hub creativo dove ospitare incontri, eventi e far fiorire collaborazioni interartistiche e con diverse realtà geografiche.
Ivi troverà anche una sede stabile l’interno archivio cinematografico del festival, con degli spazi adibiti alla visione, con le strumentazioni adatte, ulteriore luogo per ospitare workshop professionalizzanti e specifici, grazie all’aiuto di partner qualificati.
Proprio la mancanza di un piano lungimirante che finora ha segnato il destino dell’edificio diventerebbe quindi il punto di forza del nuovo progetto, capace di confidare sulle competenze di un team giovane e sulla rete che attraverso il festival in questi tredici anni si è sviluppata, rendendo più saldi i rapporti con esperienze nazionali ed estere.
Il tutto sarà a disposizione gratuitamente, e la sede potrà essere anche affittata a terzi. Trovandosi a dialogare in uno scenario frammentato e dislocato, la Piattaforma si prefigge di divenire un polo strategico per far convergere e comunicare le diverse proposte già presenti nel territorio ma sotto l’egida di una differente angolatura, molto più propensa all’ibridazione e allo sviluppo trasversale delle competenze. La presenza di un network organizzato e con scopi condivisi non sarà utile solo per la crescita della Piattaforma, ma porterà frutto all’intera area. La prospettiva resta costantemente volta al benessere altrui: partendo da un punto, lo stesso che in origine era il festival, si guarda al generale, cercando di mantenerne intatte le peculiarità attraverso unna propensione alla compartecipazione, al sostegno reciproco fatto sì di idee e propositi, ma soprattutto di abilità e contatti che vengono tramandati e usati da più soggetti nello stesso momento. Questo è quanto si auspica.
La realtà dei fatti, tuttavia, si trova ancora in una zona di confine, dove sono ancora presenti dubbi e timori.
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Una prima problematica riscontrata è la quasi totale assenza dell’ente pubblico. L’ente pubblico non solo costituisce agli occhi esterni una garanzia della qualità dei contenuti e della manifestazione in sé, ma supporta la continuità degli eventi in qualità di appoggio fondamentale, di promotore conscio della validità della proposta perché cosa che fornisce un valore aggiunto unico alla zona, in termini di cultura, nei confronti della società più prossima e in un’ottica di politica e sviluppo sostenibile. Il tutto per dare volto e personalità nuove a un paese, alla regione stessa.
La crescita lenta di cui si è parlato in precedenza, se da un lato è un aspetto positivo perché non va a incidere in modo subitaneo sulla quotidianità di un luogo, dall’altro per coloro che vi lavorano può essere logorante. Le persone hanno bisogno di continui stimoli per migliorare e darsi da fare, devono sentirsi investite di compiti ragionevoli e significativi di volta in volta. La visione umana spesso fatica a notare i minimi passi di miglioramento così come accorgersi che la loro somma porta a buoni risultati. Risultati che, però, necessitano di molto tempo per manifestarsi.
La creatività e la quotidianità possono sembrare in conflitto, muovendosi su due piani diversi se viste sotto quest’ottica.
L’idea del domani, del dopo ossessiona l’uomo moderno. Si tratta di far coincidere tali pensieri con una loro attuazione concreta, senza lasciarsi coinvolgere solo momentaneamente e per un unico progetto, ma nutrendo con pazienza il disegno della visione, aggiungendo un tassello alla volta. Se ogni giorno più di una persona mette il suo tassello, gli esiti saranno certamente visibili in minor tempo.
Un ragionamento analogo vale parimenti per le istituzioni pubbliche, che da tempo si dimostrano poco presenti per LFF. Viene allora da pensare a un’azione da parte di un privato. Le critiche sarebbero pronte a sorgere a iosa.
Come è possibile proseguire sulla linea tracciata dal festival per un ente privato? Ciò significherebbe che l’interesse della comunità, così profondamente a cuore dello staff, verrebbe guidato dalle decisioni di un soggetto. Trattandosi di dinamiche anche altamente formative, il privato sarebbe insignito del potere di decretare le sorti di ogni azione intrapresa, finendo quasi sicuramente per scatenare dissapori proprio tra quella cittadinanza di cui dovrebbe invece essere portavoce, assicurandone la felicità. Inoltre, potrebbero insorgere discrepanze troppo evidenti tra visitatori casuali e la popolazione autoctona, che si vedrebbe ulteriormente spogliata dei suoi caratteri primigeni. Etichette da sempre presenti nel linguaggio come residente o turista andrebbero a caricarsi di
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valenze politiche, finendo per rinchiudere in categorie sociali poco aderenti al reale stato delle cose.
Neanche questo può delinearsi come un futuro probabile.
Un punto di fuga è stato, dunque, assumersi la responsabilità di avere un luogo fisico dove agire. Lavorando costantemente sull’immateriale, confrontarsi con quattro mura potrebbe essere una prima soluzione agli occhi del potere.
Inoltre, rinforzando progetti europei e non già attuati si avrebbe l’occasione di poter organizzare più festival sullo stampo di quello già esistente. In tal modo, l’anno verrebbe costellato da una pluralità più sentita e facilmente individuabile.
Come la nuova idea del progetto Borders che avrà luce quest’edizione, in simbiosi con Concorto Film Festival, di Portenure in provincia di Piacenza. Si tratterà di una rassegna di cortometraggi ruotanti intorno al motivo dei confini, discusso sotto prospettive innovative ma senza vestirsi di retorica. Essendo una tematica fortemente attuale, il concorso diventa un fenomeno del segno di cui simili manifestazioni possono essere creatrici. È un progetto di cui i due eventi vanno molto fieri soprattutto in relazione alla sfera dei significati che potranno essere indagati. Senza la pretesa o l’intenzione di schierarsi politicamente, i film dovranno rispondere al reale, ai conflitti percepiti nel vasto mare che separa le nazioni, o che separa la personalità di ogni essere umano.
Nel contesto in cui si muovono localizzazione e globalizzazione, intesi come procedimenti gemelli, i festival diventano siti privilegiati per l’elaborazione di concetti legati all’autenticità e all’identità. Tale costrutto aiuta a specificare gli elementi essenziali per la resistenza e il futuro di ogni fenomeno di località.
Il festival, così come altre forme simili di creazione di cultura, riesce a costituire un mezzo vincente tramite il quale una collettività può rendersi puntualmente situata, rispetto a un
non-locale che fa da contrasto, rafforzando quindi l’immagine primaria (Gabbert, 2007).
Con questo stratagemma, una comunità può attivarsi, mettendosi a dialogare con la modernità e le sue forme facendo rivalere le proprie tradizioni e unicità, intimamente connesse al luogo. Il festival può usare la globalità inventandola come punto di riferimento per definire una diversità, per poi sfruttarla nelle varie forme d’arte che in esso trovano espressione.
Questo continuo rimbalzo di situazioni e significati può essere un valido aiuto nell’evoluzione della Piattaforma e dei suoi progetti.
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Se osservato da una maggiore distanza, questo fenomeno viene a emergere come nuovo modo di fare curatela. Non più semplicemente esatto allestimento di opere, la curatela diventa più informale, una metodologia dove convergono diversi attori come l’amministrazione, i cittadini, il team del festival e tutti gli artisti. Il successo dell’operazione viene in primis dalla scelta del luogo, che in questo caso è già presente con una personalità ben definita e, nonostante ciò, tuttora permeabile. Ben oltre l’idea del white cube, il sito sfrutta le proprie fonti di misticismo dal carattere metafisico per valorizzare l’intervento dei performer. La soglia che separa l’inizio del mondo circostante dall’inizio dell’opera si sporcano e si confondono, diventando labili, in cui è permesso l’accesso al fruitore.
Si parla dunque di una concezione della curatela come tentativo di mediazione culturale che sta avvenendo in questi esempi nell’ambito che afferisce alla rigenerazione urbana. A ben vedere, partendo dai presupposti di un mondo sempre più sottoposto a conflitti e rotture, questa speciale curatela potrebbe incidere positivamente per ricostruire almeno in parte il puzzle, grazie all’operato di artisti, ma soprattutto professionisti e persone che hanno a cuore i posti indivisibili dalla gente che li abita. Nel mondo di oggi, purtroppo, è ancora difficile realizzare queste imprese, perché aver cura delle persone non viene considerato un lavoro se non sei un medico o un insegnante.
Riprendendo infine le redini del discorso, per un occhio allenato è abbastanza facile intravedere lungo tutti questi argomenti, anche abbastanza dissimili tra loro, un filo rosso che tenta di tenere unito il progetto sotto un unico tetto. Il filo conduttore è quello della partecipazione, tema indissolubilmente connesso a quello della possibilità di portare innesti sociali dall’ester(n)o per mezzo dell’arte sotto tutte le sue sembianze.
Fin dal principio, Viviana ha sempre confessato “abbiamo iniziato a fare il Lago Film Fest” (Gazzettino), ponendo l’accento sul plurale humilitatis invece che parlare di se stessa soltanto. È vero, era sua l’idea principe, ma da sempre si è caratterizzata per l’impronta all’incontro e alla condivisione.
Gli artisti e gli altri coinvolti in questo progetto un po’ incosciente continuano ad accogliere la sfida di anno in anno, chi per ormai consolidata affezione, chi per novità, chi per voglia indiscussa di conoscere altre persone. La sfida sta innanzitutto nell’aderire a un progetto che si pone come promotore di una località che è sempre più a rischio, combattendo un potere sempre più accentratore, che opta per una condanna della periferia.
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Il luogo in sé si è da subito dimostrato un ottimo antidoto a tale pratica avversiva, fornendo da solo una serie infinita di spunti su cui riflette e creare, come da svariati anni continuano a cimentarsi i DICIOTTOCCHI, interpreti sopraffini di dinamiche silenti, atmosfere amene e gioviali serate. Il paesaggio è insieme anche palinsesto di ricordi, che riescono ad abbellirne la scenografia tramite l’esistenza stessa degli abitanti. Le loro parole, i loro racconti aprono altre storie, altrettanto tristi, avventurose o felici come quelle narrate dai film. Una lettura possibile potrebbe essere individuata nella corrispondenza tra il festival e la propensione dei paesani a parlare. Entrambi sono fatti di eventi, di narrazioni che hanno bisogno di essere ascoltate da qualcuno. E se queste sono le storie di ieri, allora le creature avvistate dai bambini parlano dei sogni del domani. È un intrecciarsi che non ha più fine, e che vale la pena di vivere e tramandare.
Sembra, dunque, che non sia più valida l’asserzione per cui l’arte si fonde con la vita. Pare più sensato affermare che sia la vita a farsi arte.
Anche la Piattaforma è tra quelle proposte che hanno trovato il loro modo di operare in cui il metodo del pensare viene sempre confrontato e poi applicato a un modo di usare e agire, sottendendo una progettualità tutta volta a un’arte che si estrinseca facendo concretamente. Non per forza deve produrre del materiale, l’importante è costruire legami, creare una rete.
Come altri posti apparentemente dimenticati, Lago mette in pratica delle operazioni che traggono spunto dalla quotidianità investita di un dissenso silenzioso, che a loro volta portano in superficie provocazioni semplici. Senza la pesantezza di un’ideologia distante e inutile, tali pungoli identificano uno spazio altro, che si erge a difesa della piccola comunità in quanto contesto libero per la ricerca, per una formazione fuori dagli schemi. Si potrebbe azzardare con l’idea che Lago stesso costituisca un contesto site-specific, non soltanto le performance e le opere sono site-specific. Dal momento che ogni cosa che avviene a Lago è ideata per il sito, l’intera area può dirsi site-specific, ovvero ponendo in primo piano la propria puntualità riesce a donarsi una veste singolare e forte, ma al tempo stesso mutabile a seconda delle persone che vi circolano. Se il paese è una naturale