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Lo spazio come punto di partenza e di continua ri-definizione

QUANDO L’INTERAZIONE LASCIA UN SEGNO

2.2 Lo spazio come punto di partenza e di continua ri-definizione

In ogni lavoro che inerisce alla sfera delle partiche relazionali, lo spazio è certamente uno degli elementi con cui l’artista deve confrontarsi.

Come è già stato evidenziato, l’arte relazionale non prevede un unico modo con cui esplicitarsi, ma sono previsti incontri, installazioni, performance di ogni tipo, esibizioni

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inusuali, che per forza di cose occupano dei volumi, si espandono cercando spesso di raggiungere un altrove.

Inoltre, poiché l’orizzonte semantico e d’azione della suddetta arte sono i legami interpersonali, molto di frequente lo spazio investito dall’opera coincide con uno spazio che diventa anche sinonimo di socialità, di insieme di persone che per dei momenti riesce a costituire una comunità a sé, riunita intorno a un’esperienza.

Inoltre, altro connotato da non dimenticare, il luogo diventa pubblico nel momento in cui vi si può accedere senza vincoli di alcun tipo. Basta pensare alla piazza di un paese: è aperta in ogni ora e per chiunque, è predisposta a ospitare discussioni e avvenimenti che coinvolgano gli abitanti, abitanti che sono caratterizzati da interessi e vite diverse, ma accomunati dal fatto di essere cittadini del medesimo posto, cosa che li unisce sotto un cielo che per quanto colorato e variegato è pur sempre lo stesso per ognuno.

Spazio come carta bianca, dunque, su cui l’artista interviene abbozzando le linee del suo progetto, che si definiranno soltanto nel momento in cui ad agire non sarà più solo, ma circondato da un’eterogena collettività, pensante e imprevedibile.

Tra i primi movimenti a porre in rilievo la questione dello spazio esterno, è doveroso accennare alla cerchia dei situazionisti. Per Debord e compagni, lo scopo principale era creare situazioni in cui vivere interventi concreti mediante la coniugazione tra la struttura materialmente esistente e gli atteggiamenti in essa insiti. Essi guardavano all’elemento urbano nella sua dinamicità, influenzata proprio dai diversi stili di fare delle persone, che si riflettevano infine nell’architettura, intesa come unione delle molteplici componenti che si rapportano con il paesaggio circostante.

La conclusione di tale processo si inquadra nel momento in cui anche l’aspetto urbano include e fa risaltare le realtà emozionali che nascono nella città, rivoluzionando la sua routine ordinaria. Questo può accadere solo se non vi è un unico procedimento, quanto più un insieme di azioni che si svolgono e accadono simultaneamente senza lo stretto controllo di uno schema prestabilito. L’orchestrazione avviene da più punti allo stesso tempo, per mano di diverse menti che collaborano ognuna col proprio punto di vista. Si ha l’impressione di assistere, così, allo scardinamento dell’ordine preesistente in favore di un cosmo caotico.

Ancora, forse i primi a poter essere considerati i padri di un rinnovato senso del paesaggio (genericamente inteso) sono stato i geografi (Detheridge, 2012). Non più semplice orizzonte estetico, l’ambiente diventa un territorio da sondare nel profondo, scoprendolo

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attraverso le sue connotazioni naturali e culturali, i cui confini spesso si mostrano ibridi, poco visibili a occhio nudo. Col loro lavoro si inizia a valutare l’impatto dell’urbanizzazione, presto divenuta globalizzazione, sulla natura precedente, ma anche in un’ottica più microscopica, indagando gli spazi della città, delle case stesse. Così, si è andato notando che l’organizzazione prevista dalle economie moderne ha privilegiato uno sfruttamento dello spazio. I luoghi in precedenza adibiti allo spazio, costieri e montuosi, si trasformano in spazi eccessivamente controllati dall’uomo, fino al parlare di city users e non più di residenti.

A ciò fa da contraltare il mito dell’abitare immersi nel verde, che impone l’edificazione di condomini come grattacieli attorniati da un’esigua aiuola incolta. Il paesaggio, essendo lo specchio di un processo più generale, suggerisce allora una drastica virata anche nelle relazioni interpersonali. Sembra che ogni movimento venga già previsto in precedenza, sembra che non ci sia alternativa per una mente che vuole essere libera o quanto meno creativa.

C’è chi afferma che un modo possibile per uscire da questa prigione lo si possa trovare nelle operazioni dei fotografi. Come archeologi in cerca di preziosi reperti, capaci di leggere gli strati della storia, anche questi artisti usano la loro abilità per scovare nelle immagini che sviluppano i processi storici e decisionali che hanno portato al presente. Nella loro analisi profonda, vi è l’intenzione a rileggere codeste stratificazioni, per saperle meglio interpretare e poi decostruire.

Di seguito, il cosiddetto movimento della Land Art ha rimesso in primo piano la questione dello spazio, riscuotendo grande successo con le sue altrettanto invasive opere sul paesaggio. Probabilmente i geografi si sarebbero comunque trovati in disaccordo per un approccio simile, capace di far riflettere e scuotere le coscienze di certo, ma al punto da causare trasformazioni troppo dolorose per l’ambiente. Gli artisti optano per vivere appieno il paesaggio, dall’interno, tentano di riformulare la peculiarità del legame con ciò che li attornia. Quest’arte crea opere con del materiale puro, invitando il pubblico a riconoscerne il cambiamento intrinseco. Si vuole anche evidenziare lo stato in cui versa il pianeta, la sua entropia portata in gran parte dal lavoro umano, in uno scenario in cui gli artisti cercano di porsi talvolta come figure mediatrici tra le istanze ecologiche e le nemiche economiche.

Ecco allora che l’arte comincia a fungere da mediatrice tra mondi diversi, cercando di creare un ponte, delle connessioni che verranno presto rivalutate dal mondo dell’arte

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relazionale. Si intravede anche il bisogno di ricercare un dialogo tra molteplici discipline, spaziando dalla formazione e la ricerca, per arrivare a una più ampia consapevolezza degli strumenti disponibili all’artista.

Sul finire degli anni Settanta si fa largo il concetto di expanded field, con cui Rosalind Krauss individua tutti quegli spazi amorfi e incerti che occupano la distanza tra architettura e arte. Tali discipline, sempre più antagoniste tra loro, vedono compiersi operazioni che invadono spazi diversi dai musei e dalle gallerie, in cui le menti creatrici possano liberare le loro idee. Si susseguono artisti che usano lo spazio come novelli architetti, e architetti che difendono i loro confini senza tregua.

Un radicale esponente fu certo Gordon Matta-Clark: nel paesaggio egli nota una profonda coabitazione della dimensione sociale tanto quanto di quella culturale, essendo il paesaggio una realtà sottoposta a incessanti trasformazioni, fatta di stimoli e immagini. Ogni suo lavoro è pervaso da una concezione della vita come instabile, complessa, segnata dall’interdipendenza di fattori casuali. Fa proprio il concetto di spazio come entità generatrice e non un semplice contenitore di oggetti, in cui esplorare tutti i lati della vita, da quello comportamentale all’atto del cibarsi come gesto alchemico, di mutamento infinito.

Il suo scenario prediletto è la città, luogo dove regna la precarietà, dove ogni cosa è polimorfa, in una perpetua altalena tra entropia e armonia, capace di rigenerazione. A cavallo tra anni Ottanta e Novanta si fa strada una nuova corrente, detta New Genre Public Art che, distanziandosi dalla Public Art, focalizza il proprio campo di ricerca nell’audience e nelle dinamiche sociali che possono nascere dal suo operato. Il nodo cruciale della sua ricerca risiede proprio in tutte quelle forme artistiche che si attuano lontano dai luoghi classici di rappresentanza.

Così facendo, l’arte diventa un tutt’uno con lo spazio in cui si estrinseca, zone di confine in cui gli artisti sono liberi di dar vita ai loro laboratori. Non ricercano più architetture già consolidate e riconosciute, ma necessitano di luoghi altrettanto autorevoli e senza vincoli. Se l’opera cosiddetta site specific prevede un posizionamento in uno spazio a cui viene comunque data una sacralità, con un alone protettivo, la Ngpa incarna una sfida alle istituzioni. Svicolando le strutture, decide di occupare con coscienza dei luoghi marginali, vedendoli come opportunità e per niente affatto limitanti. Lì sarà possibile contaminare, discutere e porre sotto accusa concetti come quelli di comunità e di cultura stessa.

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Si delinea il bisogno di agire attraverso lo scambio e il concorso tra la collettività e i suoi rappresentanti civici e gli artisti, in una prospettiva che chiede un supporto a quel pragmatismo di Dewey in cui l’educazione ha un posto di primo piano.

Secondo gli esponenti della Ngpa (fatto interessante che si tratti per la maggioranza di donne) il significato ultimo del lavoro di questi artisti non è più costituito dall’opera stessa o dal posto in cui si colloca, ma dai legami che essa sa costruire, chiamando in causa i sentimenti delle persone.

In simili considerazioni di partenza sono riconoscibili certe caratteristiche del progetto curatoriale descritto per il Palais de Tokyo, e altre peculiarità si avvicinano di molto ai progetti che stanno per essere presentati in tale capitolo, che peraltro, citano espressamente il contesto situazionista come valido predecessore.