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CAPITOLO TERZO: CANNIBALI E CANNIBALISMO POP

3.2 L’antropofagia dei vivi e dei non-mort

Il portato politico dell’atto cannibalico, della sopraffazione e annientamento del proprio simile, è stato un aspetto fondamentale intorno al quale si sono sviluppate le rappresentazioni che miravano a mettere in luce le contraddizioni e gli aspetti più critici e controversi della società occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le visioni post-apocalittiche, sempre più diffuse nell’immaginario popolare della seconda metà del ‘900 e i cui libri e film accennati nel capitolo precedente sono solo una minima parte, hanno trovato nel cinema e nei fumetti il mezzo più potente per dare forma, attraverso l’immediatezza della visione, alle idee e al portato culturale sottointeso alla figura del cannibale. In questo senso, George A. Romero attua una vera e propria rivoluzione copernicana all’interno dell’immaginario popolare, stravolgendo la figura dello zombi della tradizione haitiana e inserendolo in un contesto molto più ampio che fa capo alla situazione politica e sociale degli anni ’60. L’antropofagia è il tratto distintivo che caratterizza questi mostri, dapprima come loro esclusivo attributo per giustificare la loro assoluta lontananza rispetto al mondo degli uomini e poi, nel corso del tempo e delle rielaborazioni, riportato fra i vivi per

sottolineare la loro non estraneità alla barbarie.

La Notte dei Morti Viventi (titolo originale: Night Of The Living Dead) esce nel 1968 in piena epoca di contestazioni studentesche, guerra del Vietnam e Guerra fredda, caricandosi, man mano che sempre un numero crescente di spettatori visiona la pellicola, di nuovi significati, dalla critica al capitalismo al razzismo, dalla disintegrazione della famiglia nucleare alla messa in luce della violenza insita nel cosiddetto sogno americano. Attraverso queste nuove prospettive, diviene sempre più esplicito l’intento di Romero di umanizzare la figura dello zombi antropofago che fino a pochi anni prima era considerata lontana da espliciti riferimenti socio-politici.

“È Romero stesso a incoraggiare la lettura allegorica del suo film che vorrebbe, parole sue, <<tracciare un parallelo tra quello che le persone stanno diventando e l’idea che le persone si muovano su diversi livelli di follia, chiari solo a loro stesse>>. […] Tornando alle parole di Romero, quindi: cosa stanno diventando le persone? Chi sono e cosa rappresentano gli zombi? Il vero volto del sogno/incubo americano o la furia irrazionale dei contestatori? La sola cosa certa, e che spinge forse alla sovrainterpretazione, è che

questo piccolo horror parla evidentemente di noi.”56

Nonostante le creature romeriane siano intrappolate in una sorta di limbo fra la vita e la morte, privi di volontà e razocinio, aspetti, questi, che li rendono degli esseri differenti dall’uomo, lo scarto fra i non-morti e i vivi, nella visione del cineasta

americano, è molto labile, e proprio questa peculiarità intrinseca alla rappresentazione ha determinato la fortuna dello zombi moderno nel corso dei decenni. Lungo la saga cinematografica di Romero, infatti, la linea che separerebbe “noi”, i vivi abitanti del pianeta, da “loro” è continuamente messa in discussione, spinta sino al punto estremo che fa coincidere e sovrapporre le due istanze, come avviene ad esempio in Zombi (titolo originale: Dawn Of The Dead del 1978), critica esplicita alla società dei consumi, e in Il giorno degli zombi (titolo originale: Day of the Dead del 1985). Nonostante queste forti connessioni che Romero e i suoi successivi epigoni vogliono creare, un aspetto rimane, però, inalterato: l’antropofagia. L’atto cannibalico di coloro che un tempo erano vivi, e non il loro avanzato stato di decomposizione o, addirittura, l’assenza di qualsiasi forma di raziocinio, volontà, linguaggio o capacità di aggregazione (caratteristiche che nel corso degli anni vengono aggiunte man mano alla figura dello zombi in varie opere, tale da renderli sempre più simili all’uomo: si veda ad esempio La terra dei morti viventi del 2005, sempre di Romero), è il vero discrimine fra l’essere umano e lo zombi. L’alterazione che conduce alla disumanizzazione passa attraverso l’aggressione fisica ai corpi ed è l’elemento che permette di identificare i vivi, ovvero i sani, dai

non-morti, gli infetti; già le prime scene di La notte dei morti viventi ci fanno comprendere, a titolo di esempio, la portata di questa distinzione basata sull’atto cannibalico: durante le prime scene della pellicola, i due personaggi del film non riconoscono come tale lo zombi che si aggira nel cimitero sino a quando entrambi non gli sono molto vicini e quest’ultimo non li aggredisce. È da questo semplice atto, unito alla caratteristica del ritornare in vita, che prende avvio la successiva e sempre più radicale distinzione operata dai vivi, i quali, è bene sottolinearlo, si comportano in maniera meschina, opportunistica e spesso non meno violenta delle stesse creature antropofaghe, ma che comunque non si abbandonano mai ad atti di cannibalismo, per lo meno reiterato e sistematico.

Il consumo di carne umana è, quindi, ancora una volta un elemento identitario molto forte, non inteso però in maniera particolare per distinguere una comunità da un’altra, bensì l’intera umanità dalle orde dei non-morti: finché i vivi, infatti, non inizieranno a cibarsi l’un l’altro, finché rispetteranno ed osserveranno questa prima, basilare norma dell’umano, possono sperare di ricostituire la propria società ormai nel caos. Il cannibalismo quindi assume una connotazione universale: la potenza della sua carica destabilizzante investe l’umanità intera,

unita sotto il segno della globalizzazione del mercato, della tecnologia e dell’etica umanitaria, elementi, questi, che vengono costantemente messi in pericolo e difesi strenuamente.

La figura dello zombi non si esaurisce nel solo aspetto dell’antropofagia: è una figura sfaccettata, capace di adattarsi a molteplici contesti, carica anche di significati fortemente teologici e metaforici grazie alla sua capacità di resuscitare dalla morte. In ogni caso, al di là di ogni possibile interpretazione, la caratteristica dell’antropofagia lega ogni rappresentazione che del non-morto è stata data nel tempo, sollevando questioni problematiche circa il nostro rapporto col corpo che, in queste visioni post-apocalittiche dominate dagli zombi, assume un valore non ininfluente. La morte e il successivo ritornare in vita possono essere visti anche come un modo per giustificare un atto fuori da ogni codice morale come è il cannibalismo: lo zombi, d’altronde, essendo morto e poi solo in un secondo momento resuscitato non appartiene più alla comunità degli uomini, e di conseguenza ha perso qualsiasi connotazione di carattere psicologico che possa reinserirlo nuovamente nel mondo. Lo zombi, da questo punto di vista, è colui che è totalmente “altro” dai vivi, più vicino probabilmente alla figura classica dell’alieno proveniente da un’altra galassia invece che agli indigeni

antropofagi dei cannibal movie degli anni ’70 e ‘80, poiché proviene da un mondo, quello della morte, regolato da altre regole, prima fra tutte quella che vede la carne consumarsi e corrompersi. Il cannibalismo dello zombi non sarebbe altro, quindi, che un tentativo di riappropriarsi di ciò che un tempo c’era ma che ora non si ha più a causa della morte, ovvero il corpo. Essere infettato dal morbo degli zombi, per i vivi, significa entrare metaforicamente a far parte di un altro mondo in cui bisogna cibarsi di carne umana, elemento dotato di vita, per non soccombere al lento ma inesorabile processo di decomposizione a cui il corpo è sottoposto. In quest’ottica, in sostanza, il cannibalismo assume il valore di atto di resistenza al tempo.

La figura dello zombi conoscerà una sua variante sempre grazie a Romero, che nel 1973 girerà La città verrà distrutta all’alba (titolo originale: The Crazies): gli abitanti di una piccola cittadina americana iniziano a manifestare chiari segni di follia che li spinge ad uccidere indiscriminatamente chi è sano e a distruggere qualsiasi cosa in seguito all’infezione delle acque locali dovuta ad un’arma batteriologica contenuta in un bombardiere militare precipitato nelle vicinanze.

molte opere romeriane, nel film (così come nel remake del 2010) si accenna solo agli omicidi e ad episodi di violenza diffusa ma senza fare riferimento ad atti di cannibalismo. In ogni caso l’idea di base che vede i vivi, e non i non-morti, come soggetti violenti che portano al collasso la stessa società in cui vivono, crea uno scarto notevole rispetto alle creature cannibali dei precedenti film horror, ponendo l’accento, quindi, sulla follia insita nell’uomo stesso pronta ad esplodere da un momento all’altro e che non tiene conto dei legami sociali e famigliari, facendo precipitare la comunità in una guerra di tutti contro tutti. Questa idea originale e in controtendenza anche per l’epoca, “umanizza” ancora di più il disastro e il collasso, influenzando opere future in cui l’elemento del cannibalismo sarà parte integrante della pazzia dei vivi.

La pellicola di Danny Boyle del 2002, 28 giorni dopo (titolo originale: 28 Days Later), così come anche il seguito 28 settimane dopo (titolo originale: 28 Weeks Later, diretto invece da Juan Carlos Fresnadillo), sviluppano il tema contenuto in La città verrà distrutta all’alba: degli animalisti si infiltrano in un laboratorio per liberare degli animali sui quali si stanno conducendo alcuni esperimenti genetici ma la situazione sfugge di mano nel momento in cui una scimmia portatrice di un virus

altamente pericoloso morde uno degli attivisti; le conseguenze saranno catastrofiche, portando alla diffusione in tutta l’Inghilterra del contagio che rende i soggetti infetti altamente violenti e affamati di carne umana.

Messi da parte, decenni dopo, gli zombi antropofagi che ritornano in vita dopo la morte, l’occhio si concentra sui vivi. Questo slittamento rende possibile ed ancora più esplicito il concetto secondo cui la disumanizzazione, cioè la degradazione dell’uomo ai livelli più bassi ed istintuali del suo sviluppo, passa attraverso il cibarsi di carne umana e che quest’atto quindi non faccia altro che rivelare l’“animalità” latente nell’uomo, ben nascosta attraverso secoli di condizionamenti etici e morali. Non è un caso quindi che la prima persona a contrarre il virus sia venuta in contatto con una scimmia, l’animale più simile all’uomo ma che comunque non condivide totalmente le sue stesse caratteristiche; o che gli infetti siano, a differenza dei caracollanti zombi romeriani, capaci di correre come feroci

predatori senza apparentemente stancarsi. Questa

rappresentazione che prende come riferimento concettuale la figura dell’animale, nella saga di 28 giorni dopo si riflette anche nella critica che i film muovono verso lo sfruttamento che la tecno-scienza opera sugli esseri viventi e sulle risorse naturali:

per la legge del contrappasso, la tecnologia, nella forma contemporanea delle biotecnologie, si ritorce contro l’uomo, trasformandolo nella figura caricaturale e inquietante dell’animale che lui stesso vorrebbe sfruttare. L’ottica eco- critica, in ogni caso, non è l’unica ad entrare in gioco, ed anzi è lei stessa che, da un altro punto di vista, viene intelligentemente messa in discussione: l’apertura della gabbia della scimmia infetta avviene proprio a causa dell’intervento degli attivisti che, nonostante fossero stati avvisati del pericolo, portano ugualmente a compimento ciò che si erano prefissati. Si delineano quindi due fronti oppositivi, due modi estremi e divergenti nell’intendere il rapporto dell’uomo con la natura: lo sfruttamento bio- tecnologico del pianeta affinché l’uomo possa raggiungere esclusivamente il suo bene e, dall’altra parte, la salvaguardia della natura che però non tiene conto dell’intervento umano col quale bisogna necessariamente fare i conti. L’estremismo di queste due posizioni, la mancanza di volontà nel cercare strategie comuni e la rinuncia a qualsiasi forma di auto critica, sembra suggerire la pellicola, gettano nel caos la società. Il cannibalismo non sarebbe nient’altro che il sintomo di questa chiusura reciproca, l’effetto più evidente dell’uomo trasformato in un essere ormai privo di qualsiasi forma di raziocinio e la

conseguenza a cui il mondo rischia di andare incontro se non prova a mettere in discussione le sue “verità” ritenute assolute. La serie a fumetti americana Crossed creata a partire dal 2008 dallo sceneggiatore Garth Ennis (insieme ad altri scrittori che si alternano nel corso delle pubblicazioni) estremizza ancora di più le idee di 28 giorni dopo e di Romero. Nel corso della storia, che fra numerosi volumi e spin-off ha assunto i contorni di un vero e proprio universo narrativo, si racconta di un mondo portato al collasso a causa del manifestarsi dei più cruenti atti di violenza fra persone comuni, commettendo omicidi, torture, perversioni di varia natura e cannibalismo, assumendo le forme di una vera e propria pandemia trasmissibile tramite fluidi corporei, nonostante non sia ben chiara la natura dell’infezione che porta alla completa follia chi ne è affetto. Le intenzioni dell’autore sono proprio quelle di non chiarire in che maniera questo virus sia sorto, tralasciando e mettendo sullo sfondo le eventuali cause scatenanti naturali o artificiali, per concentrarsi quanto più possibile invece sul confine che separerebbe l’”umano” dal “disumano”. Come si legge nella nota introduttiva all’edizione italiana del primo volume, infatti:

“In realtà nello scenario costruito da Ennis e Burrows si confrontano sopravvivenza dell’uomo e sopravvivenza del concetto stesso di umanità. Per descrivere il processo che trasforma gli umani in assassini depravati e inarrestabili,

nell’edizione originale Ennis usa la formula “to cross over”, ovvero “passare dall’altra parte”, “scavalcare”. Abbandonare l’umanità per diventare altro. Tralasciando tutte le possibili interpretazioni allegoriche del racconto, la morale della favola è proprio questa: quando tutto è perduto, l’unica

salvezza è restare umani.”57

A differenza dei virus che portano gli uomini a diventare zombi o esseri violenti assetati di sangue, in Crossed non ci sono, o per lo meno non vengono palesate, motivazioni esterne e lontane dall’umano e da ciò che si pensi che sia: tutto va ricercato in quella parte più oscura, nascosta e rimossa della psiche, che naturalmente coincide con gli aspetti più brutali, perversi e istintivi dell’interiorità. I personaggi (chiamati dai sopravvissuti, ovvero, ancora una volta, i sani, “scrociati”, dall’escoriazione facciale a forma di croce riportata sul viso una volta infetti) sono estremamente sadici: uccidono e torturano per il solo gusto di farlo, così come anche il cibarsi di carne umana. Per loro ogni atto violento assume i contorni di un vero e proprio gioco, aspetto questo che li rende simili al profilo di molti assassini seriali, per i quali le vittime sono solo oggetti di cui disporre e sulle quali poter esercitare un completo dominio. Il concetto di “limite” viene messo in discussione dal fatto che gli assassini di Crossed sono persone comuni ben inserite nei rispettivi contesti sociali ma che una volta che “passano dall’altra parte” fanno

57 G. Ennis (testi); J. Burrows (disegni), Crossed, traduzione in lingua italiana di Diego

riaffiorare quegli aspetti più repressi e rimossi dalla società. Gli infetti, oltre a dedicarsi ad azioni aberranti, presentano molte caratteristiche simili ai soggetti sani, come l’uso di oggetti, guidare mezzi di trasporto, organizzarsi, almeno inizialmente, in piccoli gruppi, sino a mantenere un’elementare forma di linguaggio. La distanza fra l’”umano” e il “disumano” quindi è molto ristretta, e il limite che assicura di comprendere chi ancora si attiene alle regole istituite e chi no, chi è sano e chi infetto, chi ancora mantiene intatto il valore della domesticazione istintuale e chi invece l’ha abbandonato, mai estremamente chiaro; ad esempio, è esemplificativo il volume intitolato ironicamente Valori di famiglia, dove una famiglia religiosa cerca di sopravvivere nel proprio ranch isolato sulle montagne ma che deve fare i conti con un padre violento che stupra le sue stesse figlie.

Se quindi ogni rapporto interumano è inteso come gioco (gioco, in questo caso, mortale) non può vigere più alcuna possibilità di costruire una forma civile di convivenza: l’”altro” viene deprivato della propria soggettività e, di conseguenza, esiste solo per soddisfare gli altrui desideri. In Crossed vige un senso macabro dell’edonismo, che si mischia ad aspetti infantili proprio per questa configurazione “giocosa” delle forme brutali messe in

atto dai personaggi: le violenze e il cannibalismo, infatti, non sono rivolti solo ai sopravvissuti ma anche verso altri infetti da parte degli stessi “scrociati”. Un aspetto, questo, che indica come una società che non riesce ad autoimporsi delle regole condivise sia inevitabilmente condannata all’autodistruzione.

3.3 Differenti rappresentazioni: cannibali classici e cannibali