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Ultimi mondi cannibali: il cannibalismo fra mito, teoria antropologica e immaginario pop

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CAPITOLO PRIMO: LO SGUARDO FILOSOFICO SUI

SELVAGGI

1.1 L’impatto del Nuovo Mondo sulle scienze europee

Il tema che si cercherà di affrontare in questa prima parte del presente lavoro, ovvero l’impatto e la ricezione culturale ad ampio raggio della scoperta dell’America per l’Europa del ‘500, è un tema assai ampio e dai risvolti fondamentali e profondamente influenti su tutta la cultura occidentale. La scoperta del Nuovo Mondo ebbe sicuri effetti sulla mentalità europea, sulla cultura e sull’immaginazione degli occidentali. Coloro i quali ebbero a trasferirsi in America cercarono di “trasportare”, se così vogliamo dire, uno schema di riferimento proprio della religiosità e dei mores d’Europa. Doveva essere sconvolgente per chi vantava il codice di diritto romano, ovvero tutta la storia della scienza dal VIII secolo a.C., sino al

cinquecento, il contatto coi “selvaggi”. Questi, a Cristoforo

Colombo, apparivano gentili e miti e disposti a condividere il proprio patrimonio.

Nel corso dei decenni successivi al 1492, il tempo modificò gli intenti dei nuovi arrivati europei, e si passò dall’accettazione della benevolenza alla violenza pura, alla sopraffazione e al vero

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e proprio sterminio di intere popolazioni: i “selvaggi” dovevano essere assoggettati, schiavizzati e sfruttati.

“In modo confacente al suo nuovo rango di ammiraglio dell’Oceano e viceré delle Indie, Colombo tornò nel Nuovo mondo con diciassette navi e millecinquecento uomini, col duplice scopo di colonizzare ed esplorare l’area. Poiché l’obiettivo principale era la pacificazione dei caraibi, non ancora conosciuti direttamente, la prima tappa della flotta furono le ignote isole meridionali. Con probabile sorpresa dell’ammiraglio i caribi della Guadalupa, alla vista degli spagnoli fuggirono dai loro villaggi; anche loro forse sapevano della esigenza in isole lontane di mangiatori di uomini. Tuttavia i membri di una spedizione che era sbarcata a terra, ritornarono dai villaggi abbandonati affermando di aver visto ossa umane nelle case. Essi portarono con sé anche alcune donne arawak dai caribi, le quali interrogate, confermarono la voce secondo cui i loro rapitori mangiavano

uomini”.1

Lo stesso Colombo, così come riportato dallo stesso Bartolomeo de Las Casas, non credeva a simili dicerie.

Per poter coadiuvare e autogiustificare questa terribile missione, quelli che vennero indicati con il termine “selvaggi” vennero percepiti come malvagi e portatori di una ferocia mai vista nel mondo civilizzato.

La conquista e la distruzione degli indios andava di pari passo con la degenerazione e la denigrazione nei riguardi di queste popolazioni, considerate, ormai, inumane. Chi poté sostenere tale posizione e tale pre-giudizio riuscì persino a teorizzare che

1 W. E. Arens, Il mito del Cannibale. Antropologia e antropofagia, Bollati

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queste genti non avessero un’anima e che non potessero nemmeno essere convertiti al Cristianesimo. Come fatto notare da Todorov, la riduzione delle popolazioni americane a rango animale o non umano va di pari passo con l’idea europea di una mancata capacità simbolica complessa ed elevata da parte degli indios:

“il comportamento simbolico degli aztechi è meno evoluto di quello degli europei. Nei loro simboli infatti si riscontra una forte vicinanza del significante con il referente: il segno comunica il suo significato attraverso un significante molto vicino al referente stesso [cioè l’oggetto a cui il significato fa riferimento]; in altri termini, il referente spesso non è solo evocato dal segno, ma deve essere presente. Mentre invece il simbolo serve proprio a far sì che il referente possa operare pur essendo assente.

Questa immaturità della competenza simbolica sarebbe comprovata dall’assenza di scrittura e di moneta nella civiltà azteca, dall’uso scarso dei vestiti, così come dalla materialità del sacrificio religioso e dalla pratica del cannibalismo rituale, che prevede l’effettivo ingerimento del corpo della

vittima affinché se ne possa trarre beneficio”.2

Fu Papa Paolo III nel 1537 con la bolla Sublimis Deus a riconoscere gli indios quali esseri umani.

In prima battuta, il dibattito in Europa sulla cultura degli indios si riferiva a vari aspetti che andavano dai sacrifici umani, all’idolatria, alla schiavitù e alla inferiorità antropologica, principalmente sulla scorta di quanto sostenuto dai primi scopritori e da Bartolomeo de Las Casas, che tratteggiarono la

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figura del “selvaggio” come un soggetto degno di protezione in quanto mite e pacifico, disposto ad “assorbire” i precetti cristiani. In particolare, l’argomento della presente trattazione, ovvero il cannibalismo vero o presunto di quelle popolazioni, colpì fortemente l’immaginario europeo, arrivando a dar luogo ad una serie di stereotipi e preconcetti funzionali per lo sfruttamento degli indios da parte dei colonizzatori europei.

Pertanto, sono teologi, filosofi e scienziati a chiedersi lo status antropologico delle popolazioni del nuovo mondo. Fra gli autori che si sono occupati di questa tematica troviamo senza dubbio

Acosta, Bacone, Grozio, così come altri ancora.3

Una delle figure centrali all’interno del panorama culturale dell’epoca è senza dubbio Montaigne, grazie al suo sguardo relativista capace di mettere in discussione la presunta centralità dell’Europa in relazione ad altre culture, espresso principalmente nel saggio Des Cannibales datato attorno al 1575-1576 ed anche in Des Coches, successivo al 1584. Montaigne critica l’etnocentrismo, ossia il privilegio su base ideologica di una determinata razza, etnia o civiltà, attraverso delle espressioni divenute ormai emblematiche:

3 G. Gliozzi, Adamo e il Nuovo Mondo. La nascita dell'antropologia come

ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 47.

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“Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui viviamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto

governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”.4

I brasiliani, continua Montaigne, vivono una condizione felice che proprio i filosofi dovrebbero comprendere ed abbracciare o quanto meno reputare desiderabile. Essi possono essere addirittura considerati, secondo un’espressione di Seneca, viri a diis recentes, vicini ad uno stato divino proprio grazie alla loro purezza derivante dalla vicinanza alla natura. I selvaggi sono per il filosofo come dei frutti esotici, dal gusto autentico che il palato occidentale non riesce più a percepire. Secondo Montaigne si sono traditi da soli, nel senso che non hanno saputo gestire il proprio tempo e comprendere i rischi del fuoco nemico. Gli europei, dal canto loro, li hanno subito attaccati, non intendendo che sarebbe stato possibile convivere con la loro legge naturale. I civilizzati hanno corrotto completamente gli indigeni, esportato, vizi, malattie, fame dell’oro: uno scontro ideale tra continenti, il primo vergine e pronto, magari a nuove evoluzioni, il vecchio invece compromesso e fin troppo instradato verso il bene e il male della propria storia.

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Neanche le cronache, secondo Montaigne, possono aiutare una chiave di lettura, poiché i viaggiatori ed i messaggeri non sempre si sono soffermati su una realtà effettiva: il messaggero è stato viziato dal proprio credo religioso o ideologico. Per Montaigne:

“i barbari non ci appaiono per nulla più strani di quanto noi

sembriamo a loro, né con maggior ragione”.5

In queste parole del filosofo francese, emerge una sorta di moralismo, in quanto si evidenzia la decadenza del vecchio

continente, così come emerge il suo relativismo culturale.6 In

questi indigeni vi era un mondo considerato puro e felice, e quindi idealizzato che, ormai, gli europei avevano completamente smarrito dal loro orizzonte e che al massimo riviveva nell’idea politica dell’utopia. Emblematiche risultano le parole di Montaigne, che prendendo atto dei costumi dei popoli americani, li usa di rimando per criticare l’atteggiamento ipocrita dei suoi connazionali e non solo:

“Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non

solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma

fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto

5M. De Montaigne, Saggi, Libro I, cap. XXXI, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1992, p.145

6 Ancora oggi il termine “relativismo culturale” implica il contrario

dell’etnocentrismo. Nella maggior parte dei manuali di sociologia, i termini sono posti in totale antitesi.

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della pietà religiosa), che nell'arrostirlo e mangiarlo dopo che

è morto”.7

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1.2 Gli indios a contatto con l’organizzazione politico-sociale europea

Dopo aver considerato il “relativismo” e il “moralismo” di Montaigne, bisognerebbe comprendere in quale modo, in Occidente, si andava conformando l’idea di organizzazione civica e cosa, in realtà, si poteva esportare nel Nuovo Mondo. Il pensiero di Thomas Hobbes in merito allo stato di natura è assolutamente fondamentale: secondo il filosofo, infatti, l’uomo si trova per sua natura non disponibile alla pace sociale e incapace di accettare l’altro in modo automatico, bensì, attraverso un patto, un “contratto”.8

“Una legge di natura, lex naturalis, è un precetto, una regola generale, scoperta dalla ragione, in base alla quale viene vietato all'uomo di fare ciò che è dannoso per la sua vita o che lo priva dei mezzi per conservarla; e gli viene inoltre vietato di omettere ciò che egli considera il mezzo più adatto per conservarla. Infatti sebbene coloro che trattano di questo argomento confondano spesso jus e lex, diritto e legge, tuttavia tutti questi termini debbono essere ben distinti; poiché il diritto consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la legge stabilisce e impone una delle due cose; cosicché la legge e il diritto differiscono fra loro come l'obbligazione e la libertà, le quali riferite a uno stesso oggetto sono due cose impossibili. E poiché la condizione dell'uomo, come è stato detto nel capitolo precedente, è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo,

8 Il contratto in filosofia politica viene ad assumere via via, da Hobbes a

Rousseau una chiara conformazione di accordo collettivo che, poi, sfocerà nella concezione dello Stato.

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dove ognuno è governato dalla propria ragione e non c'è cosa di cui egli possa fare uso che egli non abbia la facoltà di impiegare per preservare la propria vita contro i suoi nemici, ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto su

ogni cosa; perfino ognuno sul corpo di ogni altro”.9

In questa prima parte del Leviatano, al capitolo XIV, dunque, Hobbes ci dice, chiaramente, spostando completamente l’asse della filosofia politica aristotelica (l’uomo inteso come animale sociale), che l’individuo deve placare la sua ferinità, il suo lato istintuale e non sociale. La ragione può giungere al contratto per evitare la guerra di tutti contro tutti e l’uscita dallo schema l’uomo è il lupo dell’uomo. In Hobbes, il selvaggio non è più visto come il soggetto da psicoanalizzare o da inserire in parametri religioso-morali: egli è il manifesto compimento di ciò che l’uomo è per sua natura, in una condizione pre-contrattuale. Partendo dalla concezione di uguaglianza psico-fisica negli individui, Hobbes sceglie di indicare nello spirito di conservazione il tratto fondamentale del proprio incedere teorico: rivalità, diffidenza ed orgoglio sono principi ineludibili dell’agire umano; di conseguenza, la guerra è una delle universalità riconosciute dal filosofo.

L’insicurezza e la miseria che ne derivano fanno si che l’uomo si organizzi in società e cerchi di allontanare quanto più possibile

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l’eventualità di una guerra totale e continua. Questa teoria giusnaturalistica (ossia legata allo stato di natura) è vissuta dai selvaggi, perennemente in lotta tra le proprie tribù, e quindi in totale antitesi con gli Europei che il “contratto”, quindi uno stato politico, l’hanno già consolidato dai tempi dell’antica Grecia e delle polis. Il selvaggio non viene mitizzato da Hobbes, ma preso in esame in modo totale. “Così accade che, per paura reciproca, pensiamo che si debba uscire da tale stato, e cercare dei soci, affinché, se si deve affrontare la guerra, non sia contro tutti, né senza aiuti”.10

Il selvaggio non possiede un governo degno di tale nome e riesce a governare solamente situazioni a bassa complessità sociale dove domina la “concupiscenza naturale”, con famiglie e gruppi derivanti da quest’ultime. Può esservi il germe della società ma non si può parlare di Stato.

Chiaramente Hobbes tende dalla parte dello Stato Assoluto, ritenuto dal filosofo stesso il più valido nell’esercizio del potere. I selvaggi sono in una condizione di mera aggregazione, dispersione di individui nella guerra infinita e inevitabile distruzione della propria specie. In definitiva la nostra Europa un

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tempo fu tale e quale, secondo Hobbes, alla società dei selvaggi, ovvero poco longeva, poco numerosa e assai feroce.

Non bisogna credere, in ogni caso, che il passaggio dal caos all’ordine stesso sia semplice: proprio perché consumato e propiziato dalla guerra, una volta stabilizzato, continua ad essere

minacciato da una possibile involuzione.11

In Hobbes, il selvaggio è la negazione stessa della socialità, e in particolare della socialità statuale: esso è il simbolo negativo della conflittualità, una conflittualità non gestita da un organismo superiore e completamente abbandonata a sé stessa, dal carattere quasi “anarchico”, per usare un termine estraneo al filosofo ma che potrebbe rendere l’idea se si osservasse il fenomeno societario dei selvaggi dal punto di vista di questo organismo centrale.

Per Locke, così come vedremo più avanti per Rousseau, è necessaria una doverosa premessa: il “contratto” non è di tipo assolutistico ma di tipo liberale. Locke individua la figura del selvaggio come quella dell’indiano d’America. Anche Locke cerca di individuare il passaggio tra il “semplice aggregato di individui” a quella forma più alta del “corpo politico”.

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“Gli americani sono popoli prepolitici ed il selvaggio viene utilizzato per la descrizione della legge di natura: “quale idea infatti volle egli darci di questa legge naturale, quando in forza dei suoi principi, altro non è che il risultato dei costumi e delle abitudini contraddittorie. Il selvaggio l’osserva se divora il suo figlio, se scanna il suo padre; un Europeo se lo fa dicesi un mostro. Come mai Locke non vide l’orribile assurdo e come mai non sentì che era questa una conseguenza necessaria dei suoi principi? Se la legge naturale non è un sentimento proprio dell’anima, se questa è indifferente ad ogni impressione, e non è altra regola per giudicarne l’educazione, le compagnie, i costumi del proprio paese che formano la coscienza, essa non avrà altra legge naturale giammai che i costumi del proprio paese e avendo questi avrà

conosciuto la legge naturale che ignorava”.12

Il discorso intorno alla dissociazione società-stato è il filo rosso del testo, già citato, di Landucci, che proprio in rapporto all'osservazione delle società selvagge, da Pufendorf a Leibniz, da Locke a Helvetius, dice:

“le idealizzazioni moderne dei selvaggi [...] non ebbero solo la funzione di dar voce in qualche modo a quel ‘disagio nella civiltà’ che attraversa probabilmente ogni cultura ed ogni società umana [...], ma ebbero anche quest'altra funzione essenziale, di anticipare letterariamente e forse di rendere possibile e vieppiù urgente, infine di accompagnare a guisa di ridondante commento, una grande scoperta teorica come la

distruzione della necessità e dell'universalità

dell'implicazione società-Stato.”13

Per quanto concerne l'altro tema, quello del progresso, Landucci individua in Vico, cui dedica un intero densissimo capitolo, il fondatore della teoria settecentesca dell'evoluzionismo.

12 V. Palmieri, Analisi ragionata de’ sistemi e de’ fondamenti dell’ateismo e

dell’incredulità, Dissertazioni VIII, III, Delle Piane Stampatore, Genova 1811 13 G. Gliozzi, op. cit., p. 312

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“Si dovrà dire che, per il crescere e il maturare dell'ideologia moderna del progresso dell'umanità, ha avuto una funzione decisiva il riferimento ai selvaggi americani – e segnatamente, per l'appunto, attraverso la tesi di una corrispondenza del loro livello culturale con quello degli antenati antichissimi delle nazioni successivamente pervenute a civiltà”14.

Per Locke l’uomo agisce in primis sul piano individuale ed i suoi bisogni stessi sono alla base dell’idea di società. Il discorso di Locke, logicamente, è figlio del proprio tempo e del delinearsi del pensiero liberale. Il filosofo, infatti, si interroga sul concetto di proprietà privata in seno alla mentalità degli indiani: questi vivono in uno stato di comunismo primitivo, in particolar modo le tribù americane organizzate.

È importante a questo punto soffermarsi sul passaggio tra le terre possedute nelle condizioni naturali ed il potere dello Stato.

Per Locke non vi è la situazione “bellicosa” ritenuta assolutamente necessaria ed universale da Hobbes:

“ecco qui evidente la differenza fra stato di natura e stato di guerra, che taluni hanno confuso, e che sono invece tanto lontani l'uno dall'altro quanto uno stato di pace, benevolenza, assistenza e difesa reciproca è lontano da uno stato di

inimicizia, malvagità, violenza e reciproco sterminio”.15

La proprietà per Locke è il frutto della logica e del lavoro umano, quindi, nella logica espansionistica e coloniale inglese, quelle terre così naturalmente non sfruttate, si possono prestare

14 Idem, p. 313

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all’organizzazione delle stesse da parte degli Europei. Ritorna in Locke l’anima liberale. Quindi già con Locke l’indiano non viene percepito come un nomade senza alcun tipo di organizzazione: essi vengono disegnati come tribù stanziali dedite all’agricoltura e dotati di un sistema economico proprio, lontani da ciò che è lo Stato ma che hanno potuto garantire in ogni caso un terreno fertile per poterlo fondare in futuro. Scompare quasi del tutto il mito dell’anarchia. Locke riconosce addirittura agli indiani d’America una sorta di pionierismo nella coltivazione, nello sfruttamento seppur minimo delle risorse e nella esplorazione. Il punto di vista inizia a capovolgersi: il barbaro “capitalista” sembra essere il nobile europeo che deve imporre una propria concezione della vita, degli scambi, dello sfruttamento delle

risorse in nome del progresso16 (senza considerare, inoltre,

l’introduzione dell’uso della moneta che sarà determinante per il cambiamento radicale di quei territori). I selvaggi, gli indiani d’America in particolare, per Locke sono i popoli pre-proprietari, quindi, si potrebbe dire, pre-borghesi.

Non vi è più, a questo punto, la logica hobbesiana dello stato di natura e lo stato di guerra: qui si pensa alla estensione ed ampliamento delle ricchezze, dove l’indiano si accontenta di un

16 Anche in Locke si sente una forte influenza baconiana in merito all’idea della

tecnica. Solo la tecnica può portare un giusto passaggio tra ricchezze naturali e beni di consumo.

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consumo veloce e limitato, senza porsi il problema di costituire un “progetto” che preveda l’accumulazione o la conservazione a lungo periodo delle risorse.

Con Locke si evince un riconoscimento di koinè, di comunità, seppur prive di organizzazione della proprietà.

Il selvaggio è un anello di congiunzione tra l’astratta libertà delle origini e lo stadio della sottomissione ad un potere costituito. Profondo assertore del liberalismo inglese, Locke, dunque, rende un nuovo merito ai selvaggi rispetto ai filosofi a lui precedenti, ma indica la giusta strada a chi, in Europa, vuole mettere a frutto il patrimonio dei selvaggi stessi.

Per Jean Jacques Rousseau, le considerazioni in merito ai selvaggi meritano un ulteriore discorso differente, non solo perché il “contratto” di cui ci parla non è come quello assoluto di Hobbes o di natura liberale come in Locke: il suo è quello che animò la rivoluzione francese, quindi di natura prettamente democratica.

Anche il selvaggio, quindi, non è solo più il “semplice selvaggio”, ma il “buon selvaggio”, sebbene l’aggettivo “buono” risulta essere superfluo poiché il selvaggio non avendo né vizi né virtù non può avere particolari appellativi. La formula bellum omnium contra omnes nella concezione hobbesiana dello Stato di

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natura è riconosciuta da Rousseau non nella fase primordiale della vita sociale dell’uomo, ma successivamente, ovvero in quel momento di crescita quando inizia l’organizzazione della proprietà, le lotte intestine alla tribù, la religione e via dicendo. L’amor proprio, ossia l’egoismo, è inteso in modo diametralmente opposto all’amore di sé, ovvero lo spirito di sé. Per Rousseau, la bontà nell’uomo è innata sin da fanciullo, ed è proprio a questa figura che il selvaggio, per il pensatore francese, può essere avvicinato: buono e privo di influenze esterne, praticamente incontaminato. La società, pertanto, tende a corrompere l’uomo, ad indurlo ad uno stato di alterazione negativa, ad essere un prodotto artigianale e nocivo che lo induce inoltre a non accorgersi degli errori che lo opprimerebbero lungo il suo cammino.

Nel suo Discorso sull’ineguaglianza, secondo il filosofo, i selvaggi tendono ad una sorta di auto trasformazione che dimostrerebbe quanto il costituirsi della società e di ferree regole comunitarie operino una profonda modificazione psicologica che si riverserebbe nei costumi dei popoli ormai “corrotti” ed “infetti” dalla società stessa: in sostanza, in quest’idea, Rousseau fa riecheggiare l’immagine di un’età dell’oro nella quale l’uomo viveva libero da legami e felice per la sua condizione naturale.

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Lo sviluppo della proprietà, della metallurgia, dell’agricoltura nelle forme più avanzate portò, inoltre, verso l’abisso della disuguaglianza; nacque, quindi, negli uomini primitivi, il passaggio fondamentale dall’amore di sé al famigerato amor proprio.

Il mito dell’età dell’oro o del regno di Saturno è in Rousseau assai pregnante, specialmente se si pensa che già nel Discorso intorno alle scienze e ai mestieri egli analizza il tracollo delle virtù: la prima radice del male è l’ineguaglianza, dalla quale la ricchezza ha generato il lusso e l’ozio. Le nuove popolazione scoperte da Colombo, invece, sarebbero di tutt’altro tipo:

“I selvaggi d’America, che van tutti nudi e che vivono solo del prodotto della caccia, non sono mai stati domati: qual giogo, infatti, potrebbe imporsi ad uomini che non han bisogno di nulla?”17

I vizi relativi alla politesse non riguardano i selvaggi, ma è proprio quella virtù che Locke intravede nella proprietà privata e nella divisione in classi a preoccupare Rousseau. Infatti, qui, l’individuo cade, così come anche per Montesquieu, nella sauvegerie quando si contrappone alla politesse. Rousseau si distanzia nettamente dai giusnaturalisti nell’analisi dei selvaggi e

17 J.-J. Rousseau, Scritti Politici (volume primo: Discorso sulle scienze e sulle

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dell’uomo in generale: per lui la dicotomia è chiara, ossia, naturale-artificiale, selvaggio-civile.

“Il grande difetto degli europei è di filosofare sempre sulle origini delle cose a partire da ciò che succede intorno a loro: essi non mancano di mostrarci i primi uomini abitanti di una terra ingrata e rude, morenti di freddo e di fame, occupati a farsi un riparo e degli abiti; ovunque essi vedono la neve e i ghiacci dell'Europa: senza pensare che la specie umana, così come tutte le altre, ha avuto origine nei paesi caldi e che sui due terzi del globo, l'inverno è a malapena noto. Quando si vogliono studiare gli uomini occorre guardare vicino a sé, ma per studiare l'uomo occorre imparare a spingere lo sguardo lontano; occorre prima osservare le differenze per scoprire le proprietà”.18

Già da queste righe, si può notare come Rousseau contesti gli scritti noti al suo tempo proprio in materia antropologica e della storia dell’uomo, e quindi anche nella presa in esame del discorso intorno ai selvaggi. Del resto il suo pensiero fu

determinante per scardinare un atteggiamento assai

“politicamente corretto”, fungendo da base teorica per la rivoluzione francese. Soprattutto in contrapposizione a Hobbes e Pufendorf, Rousseau crede che il selvaggio sia da assimilarsi al mito platonico del pescatore beotico, la cui anima immortale viene corrotta da elementi esterni ed estranei. “Tutte queste osservazioni sulle varietà, che mille cause posson produrre e han prodotto infatti nella specie umana, mi fan dubitare se diversi

18 J.-J. Rousseau, Saggio sull'origine delle lingue, a cura di P. Bora, Einaudi,

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animali, simili agli uomini, presi dai viaggiatori per bestie senza grand'esame, o a cagione di qualche differenza che rilevano nella conformazione esterna, o soltanto perché tali animali non parlavano, non fossero in realtà veri uomini selvaggi, la cui razza, dispersa anticamente nei boschi, non avesse avuto occasione di sviluppare alcuna delle sue facoltà virtuali, né avesse acquistato alcun grado di perfezione, e si trovasse ancora nello stato primitivo di natura”.19 Questi selvaggi si trovano in uno stadio intermedio che esce fuori dallo schema del giusnaturalismo: nella propria trattazione, l’idea di libertà da accostarsi alla perfettibilità dell’individuo in genere, ed anche del selvaggio, è assolutamente centrale. Vi è sostanza spirituale in ogni essere umano, vi è carattere virtuale, inteso come virtù, nonché possibilità di evoluzione e progressione, complici anche le fattispecie ambientali. La civiltà è per Rousseau una sorta d’incrostazione, una sorta di inutile aberrazione per lo stato di natura che invece vorrebbe l’uomo selvaggio libero di possedere null’altro che sé stesso: “concludiamo che, errando nella foresta, senza industria, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senz'associazione, senz'alcun bisogno dei suoi simili come senza

19 J.-J. Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza, op.

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desiderio di nuocer loro, forse anche senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l'uomo selvaggio, soggetto a poche passioni, e bastando a se stesso, non aveva che i sentimenti e le conoscenze adatte a tale stato; non sentiva che i suoi veri bisogni, non considerava che ciò che credeva di aver interesse a vedere, e la sua intelligenza non faceva più progressi che la sua vanità. Se per caso faceva qualche scoperta, poteva tanto meno comunicarla, in quanto non riconosceva nemmeno i suoi figli. L'arte moriva con l'inventore. Non v'era né educazione né progresso; le generazioni si moltiplicavano invano; e, partendo ognuna sempre dallo stesso punto, i secoli scorrevano in tutta la rozzezza delle prime età; la specie era già vecchia e l'uomo restava sempre fanciullo”. 20

L’uscita dallo stato di natura è per Rousseau un atto certamente doloroso ma comunque necessario: per fare ciò il “contratto” roussoniano è ti stampo democratico, anche nella riscoperta della sauvegerie.

L’uomo va ricostruito ricercando nelle sue origini le qualità più vitali e più importanti per una pacifica coesistenza. È chiaro che Rousseau mira alla democrazia intesa come assolutismo elettivo (contrariamente all’ipotesi di un assolutismo illuminato di cui

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parlerà Voltaire): “i più saggi governano la moltitudine, quando si sia sicuri che la governeranno per suo e non per loro profitto; non bisogna moltiplicare inutilmente le sfere di competenza, né fare con ventimila uomini ciò che cento uomini scelti possono fare anche meglio”.21

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1.3 Le prime indagini sul cannibalismo e i limiti della ricerca

Il tema del cannibalismo vede la propensione a miscelare alcuni saperi a volte tra loro complementari, a volte invece escludenti l’uno con l’altro. Per cercare di andare a fondo alla questione sarà necessario capire se vi sono delle basi storiche, etnologiche ed antropologiche a supporto della tesi che vede il fenomeno del cannibalismo antropofagico come pratica esistente e radicalmente diffusa nel periodo e nella parte geografica presi fin qui in esame. Nonostante tale approccio multidisciplinare nel quale si sono cimentati numerosi studiosi nel corso dei decenni e considerando le forme superstiti, assai poco numerose ed isolate, della pratica, bisogna comunque sottolineare che condurre degli studi sistematici sul cannibalismo risulta attualmente molto complesso, data la scarsità delle informazioni a riguardo. Il cannibalismo risulta essere ancora oggi un argomento di difficile interpretazione, legato principalmente a testimonianze di dubbia affidabilità e inficiato dal fatto che le popolazioni di cui ci sono giunte queste testimonianze sono completamente o in larga parte scomparse. Risulta utile e necessario, allora, approcciarsi al

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fenomeno anche attraverso punti di vista differenti, analizzando non solo le società tradizionali ma anche quelle contemporanee occidentali, dove l’antropofagia ha assunto un valore completamente diverso, non più legato ad aspetti rituali e magici com’era per le popolazioni antiche, ma che rimanda invece all’aspetto psichico e psicologico di soggetti ritenuti deviati e socialmente pericolosi come per alcuni criminali e assassini. Una traslazione di significato, questa, che dice molto sulle trasformazioni in seno alle culture e sulle culture stesse.

Il testo da cui è necessario partire quando ci si avvicina al tema dell’antropofagia è Il Cannibalismo di Ewald Volhard, etnologo tedesco che all’inizio del novecento stilò un’innovativa classificazione nella quale suddividere le differenti pratiche cannibaliche, grazie alla raccolta di materiale etnografico, antropologico e storico dei vari studiosi che si erano cimentati nell’argomento prima di lui. Pur non essendo materiale di prima mano raccolto direttamente sul campo, quella di Volhard rimane indubbiamente una trattazione cruciale per orientarsi nel complesso quadro dell’antropofagia, grazie alla mole di dati in esso contenuti e debitamente catalogati in classificazioni che verranno meglio esplicitate nel capitolo successivo del presente lavoro. Dalla pubblicazione del tomo dell’etnologo tedesco

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derivano, successivamente, altre opere di carattere più o meno vario che vanno dalla filosofia alla psicologia, sino alla sociologia; l’antropologia e l’etnologia rimangono, in ogni caso, almeno fino ad ora, i due ambiti privilegiati per studiare l’antropofagia, grazie al contributo apportato negli ultimi sessant’anni da studiosi che, seppur in maniera alquanto sporadica, hanno avanzato numerose ipotesi per ricostruire l’origine del fenomeno, con punte estreme che arrivano addirittura a negare che sia mai esistito un fenomeno come l’antropofagia. Un’idea così estrema può essere in parte giustificata dalle motivazioni precedentemente citate, ovvero la mancanza di prove e di testimonianze assolutamente affidabili, e anche dalle sensazioni e dallo sconcerto che un tema come il cannibalismo antropofagico può comportare soggettivamente; in ogni caso, bisogna però anche affermare con decisione che negare in maniera assoluta un fenomeno, per quanto cruento e inquietante possa apparire ai nostri occhi, non aiuta la sua comprensione e non tiene comunque conto dei progressi che, seppur cautamente, le scienze paleontologiche hanno compiuto nel corso degli anni, per non parlare inoltre delle numerose testimonianze iconografiche tramandate dalle stesse popolazioni indigene. Sarebbe importante ribadire, quindi, che ciò che

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realmente è necessario mettere in discussione non è tanto il fenomeno in sé ma, più che altro, l’interpretazione che vede l’antropofagia come una pratica sanguinaria dai contorni animaleschi appartenente ad alcuni popoli barbari e selvaggi. Uno degli studi più interessanti ed anche provocatori in questo senso è il testo Il mito del cannibale. Antropologia e antropofagia dell’antropologo americano William E. Arens e pubblicato nel 1979, dove si compie una disamina delle prove che sosterrebbero l’idea di un cannibalismo di tipo universale, distinto da quello prettamente rituale e sociale o al massimo di sopravvivenza ove realmente osservato, che avrebbero contribuito a creare nel corso dei secoli un vero e proprio mito intorno alla figura del cannibale. Un mito, questo, ad uso e consumo di chi avrebbe voluto imporre la propria cultura su quella delle popolazioni indigene, emarginandole, etichettandole come “diverse” e giustificando così il loro sterminio sistematico. Arens vaglia numerose testimonianze dell’epoca sino ad arrivare ai reperti archeologici e fossili più recenti e alle forme di antropofagia residue ancora praticate negli altopiani della Nuova Guinea fra gli anni cinquanta e settanta, mettendo in discussione non tanto l’idea che l’uomo si possa cibare della carne dei suoi simili, bensì il punto di vista di chi ha osservato, con occhio

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molto poco oggettivo, determinate pratiche cannibaliche. L’antropologo americano, infatti, afferma che:

“I caribi devono unicamente a Colombo l’onore di avere il loro nome usato come sinonimo moderno per l’inglese man-eater, mangiatore di uomini”.22

Logicamente la posizione di Colombo e di tutti coloro che narravano l’esistenza dei cannibali all’indomani della scoperta del Nuovo Mondo, sostenevano la medesima posizione proprio per avallare e giustificare tutte le possibili speculazioni sulla schiavitù, in modo tale che i conquistadores potessero sottomettere più facilmente gli indios senza preoccuparsi più di tanto di compiere un vero e proprio sterminio di massa.

“Il più autorevole studioso contemporaneo di questi indiani ha recentemente scritto, in un articolo destinato ad un pubblico colto non specializzato, che gli Arawak riferirono a Colombo di essere frequentemente vittima di incursioni da parte di mangiatori di uomini chiamati caribi. L’autore, Rouse, non dimentichiamolo, un antropologo di professione, citando il giornale di Colombo, aggiunge, quindi, per la soddisfazione dei suoi lettori, che Colombo confermò la voce secondo la quale i caribi mangiarono i loro prigionieri per assimilarne la forza nel combattimento. In un precedente articolo del 1948 scriveva con vivacità degna di un cronista di corte del XVI secolo che i nemici catturati venivano

mangiati (tra molte manifestazioni di piacere)”.23

Tutto ciò dunque è fuorviante, poiché, Colombo, è ampiamente dimostrato, doveva compiacere i suoi governanti e non era convinto di tale cannibalismo.

22W. E. Arens, op. cit., p.46

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Una grande speculazione, dunque, che già come testimoniato da Bartolomeo De Las Casas non vede nei caribi i temibili cannibali. Il mito del cannibale viene costruito, quindi, per ragion di stato e per assecondare lo spirito di conquista, alimentato dalla paura del “diverso” e dell’”altro” che si contrappone all’europeo civilizzato per i suoi costumi completamente opposti.

La linea di ricerca di Arens sembra essere la maggior accreditata anche dagli studi della Enciclopedia Treccani che, sotto la voce “cannibalismo” curata da Enrico Comba, riassume efficacemente i possibili discorsi intorno a questa pratica:

“i dati affidabili sull'effettiva pratica dell'antropofagia come costume culturale da parte di un qualsiasi gruppo umano sono ben scarsi, mentre diffuso universalmente è il costume di attribuire ad altri la caratteristica di cannibali: ai popoli circostanti, agli affini, ai membri di un altro clan o agli appartenenti all'altro sesso. Ogni gruppo umano tende a rafforzare la propria identità e a concepire la propria individualità come gruppo, contrapponendosi ad altri gruppi, i quali vengono caratterizzati con tratti distintivi opposti, o 'capovolti'. Così i gruppi diversi, gli 'altri', vengono facilmente connotati con categorie di inumanità, quali l'incesto, la mancanza di regole morali, la stregoneria, il cannibalismo. Queste istanze ideologiche, sostiene Arens, si sovrappongono spesso alle descrizioni etnografiche, provocando ogni sorta di malintesi e confondendo i fatti concretamente accertati. Lungi dal negare qualsiasi realtà al fenomeno, come qualche critico ha sostenuto, Arens intende sottolineare come il cannibalismo fosse pratica molto meno comune di quanto gli europei, e fra questi gli antropologi, siano stati sempre disposti a credere.

Le difficoltà sollevate dal lavoro di Arens mettono in luce quanto sia difficile, nel caso del cannibalismo, discernere i

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fatti dai contesti mentali e immaginari con cui costantemente si presentano intrecciati”.24

Come si è potuto evincere, le considerazioni di Colombo e degli esploratori a lui successivi costituiscono le prime testimonianze e gli iniziali punti di partenza per la raccolta dei dati intorno al cannibalismo, mettendo così al centro delle considerazioni teoriche che si formuleranno nel corso dei secoli soprattutto le cosiddette società tradizionali.

Un altro studioso americano che, fra i numerosi temi di antropologia culturale da lui trattati ha dedicato alcune pagine all’alimentazione e al tema controverso del cannibalismo è stato Marvin Harris, esponente del materialismo culturale in campo antropologico e autore di Cannibali e re. Le origini delle culture del 1977 e Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari del 1985. Il punto di vista dell’antropologo sul fenomeno è molto pragmatico poiché guarda ai risvolti pratici che il consumo di carne umana può portare in termini di costi-benefici per le popolazione che adottano questa particolare pratica. Il suo sguardo si concentra principalmente sull’impero azteco, passato alla storia anche per i suoi riti religiosi in cui erano frequenti i sacrifici umani in occasione di particolari festività solari in cui si adoravano gli dei nei templi gemelli di

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Uitzilopochtli e Tlaloc, situati in cima alla più alta piramide di Tenochtitlàn, al centro di quella che è oggi Città del Messico. Già nel 1519, Cortés e i suoi uomini visitarono quei templi come ospiti dell’ultimo re azteco Moctezuma, e già all’epoca gli spagnoli rimasero colpiti dai rituali di sangue che venivano consumati in quei luoghi, dove a un gran numero di schiavi, prigionieri di guerra e, più raramente, giovani e fanciulle vergini impersonanti particolari dei e dee veniva strappato il cuore (spesso descritto come ancora palpitante) e poi bruciato come offerta votiva, mentre un po’ di sangue veniva schizzato verso il sole e il corpo fatto rotolare giù dai gradini della grande piramide dove poi veniva recuperato, ricondotto nel recinto del padrone che era stato proprietario della vittima sacrificata, tagliato e preparato per la cottura. Secondo Harris:

“Tutte le parti commestibili venivano utilizzate in modo strettamente paragonabile al consumo della carne di animali domestici. I sacerdoti aztechi si possono definire, a buon diritto, come macellatori rituali di un sistema statalistico dedito alla produzione e redistribuzione di sostanziose quantità di proteine animali nella forma di carne umana. Ovviamente, i sacerdoti avevano altri doveri, ma nessuno aveva un’importanza pratica maggiore di quello di macellai”.25

Per Harris, che per avallare le sue teorie si avvale di studi condotti anche da altri etnologi, il cannibalismo azteco era molto

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peculiare poiché aveva una valenza strettamente politica

collegata alla particolare situazione dell’ecosistema

mesoamericano che, messo a dura prova da secoli di produzione intensiva e di crescita demografica, soffriva di ricorrenti crisi di produzione che andavano ad abbassare le percentuali di proteine disponibili a livelli che avrebbero giustificato biologicamente l’appetito di carne. Carne che veniva distribuita in periodi critici soprattutto presso le classi dominanti della nobiltà, dei soldati e dell’entourage politico per evitare il crollo sociale e assicurare l’ordine.

“Il punto non è in quale misura queste redistribuzioni cannibalistiche contribuivano alla salute e al vigore del cittadino medio ma in quale misura il rapporto costi-benefici del controllo politico migliorava sensibilmente in seguito all’uso di carne umana per ricompensare gruppi scelti in periodi cruciali”.26

Oltre i sacrifici aztechi, anche il cannibalismo e le torture ai prigionieri di guerra praticate dai Tupinamba brasiliani, dagli Irochesi nord americani e dagli Uroni canadesi vengono spiegati sempre in un’ottica che tira in ballo i costi e i benefici per la comunità, siano essi di tipo militare, politico o alimentare. Se da una parte questo approccio può essere valido e scientificamente accurato, poiché si basa su testimonianze tratte dalla vita quotidiana in relazione all’ambiente nel quale questi popoli si

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trovano a vivere, dall’altro rischia di appiattire questi temi su un unico punto di vista, tralasciando tutto il complesso magico-rituale che invece costituisce il cuore di molte di queste pratiche, in particolare del cannibalismo e dei sacrifici umani. Non sarebbe infatti chiaro, ad esempio, il motivo per cui gli aztechi avrebbero dovuto prendersi il fastidio di costruire delle immense piramidi con sopra dei templi dove officiare ai loro sacrifici, invece che uccidere direttamente sui campi di battaglia o in altri luoghi le vittime designate; oppure ci si potrebbe chiedere perché venivano sacrificati solo alcuni soggetti invece che altri e perché veniva asportato loro il cuore e non un altro organo. Per il cannibalismo in particolare, inoltre, Harris non sembra dare motivazioni sufficienti alle sue tesi, nonostante critichi un approccio fin troppo psicologico (specialmente di stampo freudiano) che attribuirebbe a innati impulsi umani aggressivi la giustificazione di determinate pratiche violente.

Per quanto riguarda l’analisi delle società tradizionali e antiche, la letteratura scientifica di stampo europeo e soprattutto quella americana risulta essere la più fiorente, con opere e saggi di grande interesse, da quelli dei già citati Arens e Harris, probabilmente i più noti, ai lavori di Isabelle Combès sui Tupì-Guaranì, Eli Sagan, Sawday, Brady, Lestringant e De

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Montellano, sino ad arrivare agli importanti lavori sulla tematica dell’alimentazione in chiave sociale di Lévi-Strauss. Nel 1966, infatti, l’antropologo francese concepì l’idea di collegare alcune modalità di cottura della carne, umana e non, alla struttura sociale delle etnie da lui prese in esame, Aztechi e Tupinamba in particolare. I suoi risultati teorici, convogliati nell’immagine del triangolo culinario e basati sullo studio dei dati forniti da antropologi a lui precedenti, portarono all’individuazione esatta, a suo giudizio, delle diverse parti umane differentemente impiegate e quindi con aspetti valoriali differenti, con le carni arrostite riservate agli ospiti, e quelle bollite esclusivamente

destinate al consumo dei nativi27.

Volgendo lo sguardo all’Italia, il fenomeno del cannibalismo antropofagico non sembra incontrare l’interesse di numerosi studiosi, ma quelli che si sono cimentati nell’argomento hanno apportato spunti di interesse notevoli, sviluppandosi da un’iniziale visione di tipo medico e alimentare, che si concentrava soprattutto sugli Aztechi, che avrebbero fatto ricorso al consumo di particolari cibi, tra cui anche la carne umana, per sopperire alla mancanza di aminoacidi e serotonina in una dieta

27 Gli studi sul rapporto fra cottura dei cibi e struttra sociale vennero pubblicati da

Lévi-Strauss nel 1958 in Antropologia Strutturale e successivamente ripresi e ampliati con l’inclusione del cannibalismo in The Culinary Triangle, in “Partisan Review”, Chicago 1966, n.33, pp. 19-29

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basata principalmente sul mais, per giungere a teorie più originali che vedono nel cannibalismo risvolti di tipo sociale, storico e in generale di più ampio raggio intellettuale. A tal proposito, sono da segnalare i testi Contro l’identità di Francesco Remotti, che dedica un intero capitolo ai classici Tupinamba brasiliani dei quali analizza in profondità il loro rituale cannibalico dandone però una lettura che coinvolge i concetti di identità e alterità nel complesso rapporto che si instaura tra vittima e aggressore, visti questi come soggetti determinanti in un processo di costruzione reciproca; Cannibalismo e antropofagia. Uomini e animali, vittime e carnefici di Angelo Tartabini, nel quale ci si sforza di indagare la genesi del fenomeno antropofagico nell’uomo, soprattutto nel mondo primitivo e dei Primati attraverso la comparazione con quello animale; Cannibali classici e cannibali contemporanei. Ritualità controllata e ritualità impazzita di Laura Monferdini (contenuto nel volume Miscellanea di Studi Americanistici) dove il campo di indagine sul cannibalismo non è limitato esclusivamente alle società tribali antiche di cui ci sono giunte testimonianza e alle poche ancora superstiti ma si rivolge anche alla contemporaneità e soprattutto ai fenomeni di cannibalismo di soggetti considerati pericolosi e deviati come gli assassini seriali; il recente Il fiero pasto. Antropofagie medievali,

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in cui Angelica Aurora Montanari conduce un inedito excursus storico sulle forme di antropofagia nel Medioevo europeo, mettendo in luce casi poco conosciuti e altri fioriti sul fertile terreno dell’immaginario collettivo popolare dell’epoca.

Le indagini sul cannibalismo, quindi, come si vedrà anche più avanti, possono oscillare dal mistificatorio al superficiale, dall’incerto al supposto sino alla totale invenzione, ad uso e consumo di obiettivi assolutamente non scientifici o semplicemente perché il punto di vista di chi ha osservato questo particolare fenomeno rimaneva ancora troppo ancorato a determinati principi e valori che ne inficiavano la giusta comprensione. L’antropofagia, com’è emerso nel corso delle ricerche condotte nel secolo scorso, è un fenomeno complesso poiché, come già ribadito, chiama in causa molteplici saperi, e soprattutto perché ci porta a mettere in discussione paradigmi ed

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CAPITOLO SECONDO: LO SGUARDO

ANTROPOLOGICO SUL CANNIBALISMO

2.1 Il fenomeno: storia e testimonianze sul cannibalismo

Nel capitolo precedente abbiamo cercato di comprendere cosa fosse accaduto all’indomani della scoperta del Nuovo Mondo e come si potesse contestualizzare quel periodo storico. La scoperta di nuove popolazione con usi e costumi completamente inediti per gli europei dell’epoca produsse una profonda frattura nella cultura e nella mentalità: una frattura che, nonostante il sostegno delle idee Rinascimentali, il sorgere di una nuova scienza empirica e di nuovi modelli socio-economici, era difficile da colmare. Come poter spiegare allora agli occhi di un europeo un fenomeno come il cannibalismo antropofagico? Che tipo di valenza poteva avere una pratica considerata dagli osservatori esterni alle popolazioni americane come brutale, violenta e sanguinaria? È molto difficile, se non quasi impossibile, potersi calare completamente nella mentalità di un esploratore o di un missionario che intraprendeva il lungo viaggio verso le Americhe: si può solo immaginare l’insieme di sensazioni, emozioni e pensieri alla vista di quegli atti cannibalici.

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In ogni caso, ciò che si potrebbe facilmente supporre è innanzitutto il disgusto e il senso di terrore di fronte a questa pratica, aspetti questi che emergono ancora oggi nel XXI secolo nonostante numerosi studiosi si siano impegnati ad analizzare a fondo la questione. Il cannibalismo, specialmente quello dell’uomo sull’uomo, è considerato nella mentalità comune un argomento riprovevole, al più controverso. Il disagio che emerge ogni volta che si tenta di discutere di questo tema è ancora percepibile, segno di un mancato superamento di quella frattura accennata all’inizio. Questa reazione comune può portare a due considerazioni interessanti: innanzitutto, bisogna notare che nonostante ci separino sei secoli dalla scoperta dell’America e quindi dalle prime moderne testimonianze sulle pratiche cannibaliche di quei popoli, le nostre sensazioni e soprattutto la nostra considerazione del tema non è cambiata in maniera assai sostanziale (ad esclusione dei circoli accademici); in secondo luogo, il cannibalismo antropofagico, proprio per la sua capacità di configurarsi come una tematica forte, dal profilo non del tutto chiarificato e problematica sotto vari aspetti, può dire molto sul nostro mondo, sulla natura della nostra cultura e sui processi di formazione delle identità. Se non fosse anche così, il disagio che esso suscita ancora non avrebbe trovato fra l’altro forme di

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sublimazione oggi riscontrabili nei mezzi di comunicazione di massa come il cinema, i fumetti, i romanzi e più in generale nell’immaginario della cultura pop, aspetto, questo, che verrà analizzato più avanti nel capitolo finale.

Da un punto di vista storico, se volessimo andare a ritroso in un’ipotetica diagnosi filogenetica delle testimonianze sul cannibalismo, dovremmo pensare ad esempio al filosofo greco Porfirio,, il quale nella sua opera Astinenza dagli animali era convinto che mangiare la carne degli animali equivaleva ad un atto di cannibalismo, visto che in quei corpi potevano trasmigrare anche le anime di esseri umani.

Già ciò che tramandano i classici ci lascia immaginare che vi fosse una consuetudine cannibalistica per fini prettamente alimentari, ma limitati essenzialmente a soggetti come i soldati o alle popolazioni sotto assedio costretti a cibarsi dei corpi dei propri simili in mancanza d’altro; oppure questa particolare consuetudine alimentare era considerata in senso dispregiativo contro popolazioni ritenute barbare e selvagge. Basti pensare ad Erodoto che parlava nei suoi scritti di antropofagia, definendo come orripilante tale pratica, presente solo in caso di totale assenza di cibo; ed è sempre lui che nelle sue cronache ci riferisce che:

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“a settentrione, al di là del deserto che si estende oltre le terre degli Sciti, vivono gli Androfagi, tra di loro si praticano gli usi più selvaggi del mondo e sono un popolo senza giustizia e senza nessuna legge. Sono nomadi, vanno vestiti in modo simile agli Sciti, parlano una loro lingua e, tra quei popoli,

sono gli unici che mangiano carne umana”.28

In Polibio, invece, ritroviamo una testimonianza di pratiche cannibaliche militari:

“Nel periodo in cui Annibale progettava di preparare con le truppe la marcia dall’Iberia in Italia, e si preannunciavano enormi difficoltà per i viveri e la disponibilità di rifornimenti per le truppe uno degli amici espresse il parere secondo cui gli si presentava una sola via che consentisse di arrivare in Italia. Quando Annibale lo invitò a parlare, disse che bisognava addestrare e abituare le truppe a mangiare carne

umana.”29

Proprio l’aspetto prettamente alimentare però, anche se considerato controverso e ancora non ben chiaro, è stato comunque rilevato e la tesi di un cannibalismo finalizzato esclusivamente all’alimentazione è più volte emersa, ciclicamente, ogni volta che si cercasse una spiegazione per l’origine di tale pratica; sembra infatti che più si vada a ritroso nel tempo, spingendosi sino alla comparsa dei primi ominidi, più inizino a spuntare fuori le figure di presunti cannibali preistorici, idea, questa, che sembra affascinare molti studiosi, non ultimo l’archeologo Tim White, il quale ha evidenziato che in Croazia alcuni recenti ritrovamenti risalenti a circa centomila anni fa

28Erodoto, Storie, Libro IV

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attesterebbero l’attitudine di cibarsi di cervello umano a causa della conformazione dei crani ritrovati.

Medesimi ritrovamenti sono stati rilevati in Africa, America centrale, Nuova Zelanda, India e Australia e alcuni ricercatori come Sandra Bowdler e Fernando Rossi hanno consentito di sottoporre all’attenzione della comunità scientifica internazionale l’abitudine al cannibalismo in epoca preistorica.

Interessante è anche quanto apparso su Scientific American nel 2012, dove si parla del sito della caverna di Gough, nella contea inglese del Somerset, dove secondo gli archeologi si sarebbero verificati numerosi atti di cannibalismo. Nel corso del tempo, gli studiosi che si sono imbattuti nel fenomeno utilizzando le tecniche paleontologiche si sono spesso avvalsi della documentazione fossile, ma stabilire se avvenisse davvero e perché gli esseri umani si mangiassero reciprocamente non è comunque sempre semplice. Come riportato dall’articolo, una nuova analisi ha permesso di arrivare a una maggiore comprensione di come fosse praticato nel sito di Gough, suggerendo inoltre che durante la preistoria il cannibalismo sia stato più comune di quanto si pensasse.

È di particolare interesse notare che:

“Gli studi sui resti fossili del cannibalismo si sono tradizionalmente concentrati sui segni di danni alle ossa

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causati da strumenti in pietra, come scalfitture dovute al taglio dei muscoli e segni di percussione per estrarne il nutriente midollo, nel tentativo di distinguere le conseguenze dell'attività umana da quella di grandi felini e altri carnivori. Ma capire se un corpo umano è stato scarnificato per motivi rituali oppure alimentari è difficile. Di recente, quindi, gli scienziati hanno iniziato a cercare i segni di denti umani, una traccia che non lascia alcun dubbio sulle intenzioni. La ricercatrice Silvia M. Bello ha esaminato tali studi con la tafonomia, la branca della paleontologia che studia la formazione dei fossili a partire dai processi di decomposizione. Presso il Museo di storia naturale di Londra sono stati esposti risultati davvero notevoli.

La Bello ha riferito che le ossa della grotta provengono da almeno quattro persone, tra cui un bambino di circa tre anni, e mostrano numerose tracce di rosicchiamento da parte di esseri umani, oltre a chiari segni di taglio con strumenti di pietra. In effetti, la maggior parte delle ossa al di sotto del collo reca rivelatrici tracce di denti. I cannibali sembrano aver sfilettato i muscoli principali con coltelli di pietra per poi strappare con i denti le parti rimaste. Anche le estremità delle falangi e delle costole sono state rosicchiate, forse per poterne aspirare la modesta quantità di midollo presente. Curiosamente, a differenza delle altre, nessuna delle ossa del cranio mostra segni di denti; sono state però scarnificate con grande accuratezza. Ogni frammento di tessuto molle, tra cui occhi, orecchie, guance, labbra e lingua, sembra essere stato meticolosamente rimosso con strumenti di pietra. Tuttavia, i cannibali si sono presi la briga di conservare la calotta cranica, separarla dalla faccia e sagomarne i bordi in modo da produrre ciò che la Bello e i suoi colleghi in precedenza avevano indicato come coppe e ciotole di un tipo già noto nei resoconti etnografici.”30

Da quanto riportato da Angelo Tartabini emerge che alcuni studiosi negli anni ottanta abbiano avvalorato le teorie degli storici antichi come Polibio o Erodoto, riportando ancora

30 K. Wong, Il cannibalismo preistorico, tra utilitarismo e ritualità, articolo apparso

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numerose testimonianze di ritrovamenti fossili che attesterebbero l’esistenza di pratiche cannibaliche in epoca primitiva:

“Philip Tobias, allievo di Dart, sostiene che tra le popolazioni cavernicole di Homo erectus, il diretto progenitore dell’Homo sapiens, ci sono dei resti che evidenzierebbero l’esistenza di rituali di sepoltura. Tobias è però convinto che, tra alcuni di questi gruppi, si praticasse l’antropofagia. Alcune ossa umane, ritrovate spezzate, come quelle degli animali, lo lascerebbero supporre. Ma si può veramente ammettere

l’esistenza del cannibalismo preistorico? Alcune

testimonianze del Paleolitico superiore rileverebbero la presenza di alcune ossa ritrovate accanto ad alcuni focolari domestici. Si tratta di ossa del cranio che sarebbero servite

per alcune pratiche di cannibalismo ritualizzato.”31

Anche le pubblicazioni più accreditate, quindi, sostengono la tesi di un cannibalismo funzionale ai diversi riti all’interno dei quali aveva una connotazione ben precisa, e non quindi solo ed esclusivamente alimentare.

Persino nell’antico Egitto, sulla tomba del faraone Unis, intorno al 2350 a.C., vi è un inno richiamante il cannibalismo: il faraone sarebbe stato capace infatti di divorare suoi consimili, proprio perché assunto a livello di divinità e dando quindi una dimostrazione di superiorità; anche in questo caso siamo all’interno dell’ambito della ritualità.

Quanto più ci si avvicina al mondo classico greco e romano, tanto più l’antropofagia assume maggiormente contorni mitici,

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evidenziando come il cannibale venga additato sempre invariabilmente come l’”altro”, l’appartenente a popolazioni fuori dai confini delle polis e dell’impero e per tanto passabile di connotazioni assolutamente negative sino ad assumere contorni bestiali e mostruosi. Un atteggiamento che sembra percorrere tutto l’Occidente, dal Medioevo sino alla modernità.

Il cibarsi di membra umane fa parte di alcune figure dei racconti mitici greci, com’è il caso ad esempio di Atreo, Tantalo e del popolo dei giganti cantato nell’Odissea dei Lestrigoni, casi che rimandano ad un tipo di cannibalismo a connotazione rigorosamente tribale o praticato tra nemici per simboleggiare una forma di diritto di superiorità applicata tramite un rito violento; o ancora, nei casi più eclatanti viene raramente riportato come episodio bellico, come accadde ad esempio durante le guerre puniche, allorquando le legioni romane portarono alla carestia i cartaginesi o durante l’assedio della città di Numanzia nel II secolo a. C.

All’infuori dell’ambito mitico e del racconto, invece, come rilevato da numerosi storici e antropologi, tra cui anche Marvin Harris, la ritualità greca e romana aboliva il cannibalismo, considerandolo una pratica propria del “barbaro”. Sia Tertulliano che Galeone II ci testimoniano, infatti, la totale avversità dei

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romani alla antropofagia nelle sue diverse forme e la stessa poteva essere sanzionata con la crocifissione proprio perché considerata esclusivo appannaggio di popolazioni non romane, così come anche il De bello gallico riporta che alcune popolazioni nord-europee avevano l’abitudine di bere il sangue dal cranio dei defunti dopo averli mangiati. A differenza di alcuni sporadici episodi in cui degli esseri umani venivano sacrificati per propiziare gli dei o per far scongiurare eventi ritenuti nefasti (quali capitolazioni di città o sconfitte in battaglia), i greci e i romani consideravano, quindi, assolutamente immorale qualsiasi tipo di sacrificio umano e soprattutto qualsiasi atto che comportasse il consumo di carne umana proprio perché queste pratiche, a loro avviso, li avrebbero resi simili a popoli da loro considerati “incivili” come i celti, galli e bretoni per gli antichi romani.

Con l’avvento del cristianesimo, il verbo si è fatto carne e il corpo per eccellenza di questa religione, ovvero quello di Cristo, è al centro del sistema simbolico e cultuale attraverso l’eucaristia, forma teofagica e di antropofagia simbolica a tutti gli effetti. Riferimenti diretti al cannibalismo sono presenti anche nella Bibbia, autorità per eccellenza nell’Occidente medievale, così come anche alle metafore di divorazione che descrivono per

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lo più l’ira di Dio verso chi non si attiene ai suoi precetti divini. Uno degli esempi più riportati è l’episodio narrato nel secondo Libro dei Re, dove si narra la vicenda di due madri in Samaria che avrebbero ucciso i propri figli per cibarsene a causa della terribile carestia che scoppiò intorno al 848 a.C. in seguito all’accerchiamento del sovrano siriaco Ben-Hadad della città; recita infatti il passo:

“Questa donna mi ha detto: Dammi tuo figlio; mangiamocelo oggi. Mio figlio ce lo mangeremo domani. Abbiamo cotto mio figlio e ce lo siamo mangiato. Il giorno dopo io le ho detto: Dammi tuo figlio; mangiamocelo, ma essa ha nascosto

suo figlio (2 Re 6, 28-29)”.32

Episodi come quello appena riportato sono presenti anche nel Levitico, nel Deuteronomio, in Geremia, Ezechiele, Baruc e nelle Lamentazioni, e ispirarono numerose rappresentazioni di antropofagia materna lungo tutto il Medioevo.

In numerosi autori medievali, fra cui anche Sant’Agostino, l’interpretazione metaforica dell’antropofagia nella Bibbia è affiancata sovente alla contestualizzazione storica compiuta da Giuseppe Flavio nel suo Bellum Judaicum per quanto riguarda soprattutto la cronaca dell’assedio di Gerusalemme nel 70 d.C. sotto l’imperatore Vespasiano e messa in atto da suo figlio Tito. Fra le mura della città, Maria, una giudea facoltosa e ridotta in

32 cit. in A. A. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali, Il Mulino, Bologna 2015, p.

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povertà e alla fame dai ribelli e dai romani, al culmine della disperazione e dell’angoscia, decide di cibarsi del suo figlioletto perché ormai entrambi ridotti allo stremo; i saccheggiatori, scoperto il misfatto, si trovano davanti la scena della madre che addirittura avrebbe conservato una razione anche per loro, apostrofandoli con queste parole:

“Questo è il mio bambino, disse la donna, e opera mia è questa. Mangiatene, perché anch’io ne ho mangiato. Non siate né più pavidi di una donna, né più compassionevoli di

una madre”.33

L’episodio della madre antropofaga nell’opera di Giuseppe Flavio verrà ripreso lungo tutto il corso dell’epoca medievale, giocando un ruolo fondamentale per l’immaginario collettivo dell’epoca che venne plasmato fortemente su questo racconto, tanto che nel Trecento divenne uno stereotipo diffuso per descrivere una forte fame causata dalla perenne penuria di cibo, come dimostra il riferimento che ne fa Dante nel Purgatorio tramite i versi “quando Maria nel figlio diè di becco”. Inoltre, il racconto può essere preso ad esempio di come, nel corso del Medioevo, si sia formata una fiorente letteratura ad opera dei cristiani atti a screditare le comunità ebraiche colpevoli da sempre di non aver riconosciuto Cristo come il vero e unico figlio di Dio, tirando in ballo anche presunti atti di cannibalismo

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verso gli infanti sia fuori che dentro le stesse comunità. Come spiega Montanari a proposito della versione di Giovanni Boccaccio sulla vicenda di Maria:

“Inoltre, lo stesso corpo degli ebrei dovrà scontare il trattamento riservato al corpo di Cristo, miseramente lacerato, infangato e coperto di sputi. E poco importa che non si tratti fisicamente degli stessi che tradirono il Salvatore: gli ostinati, perfidi giudei sono considerati nella loro giudaicità come un solo grande corpo sul quale ricade la colpa. Infine, Boccaccio instaura un legame tra le due Marie, la Vergine e, al suo opposto, la giudea che, cannibalizzando se stessa tramite la divorazione del figlio, incarna l’autodistruzione degli ebrei che perseverano nell’errore: <<coloro che avevano fatto violenza al figlio di Maria videro un’altra Maria, nell’estrema rovina della città, spinta dalla fame comune, cibarsi delle membra del piccolo figlio, rese molli dal fuoco>>34.

Nel Medioevo l’atto cannibalico poteva inoltre assumere significato di sfregio nei confronti del nemico o, al contrario, come supremo atto d’amore e di venerazione, come attesta l’idea che solo la figura paterna, tramite il legame di sangue che lo lega al nascituro, potesse sacrificare i figli ed eventualmente ingerire alcune loro parti anatomiche per volere divino, a differenza invece della madre che, nonostante porti i figli in grembo e li nutra, è ritenuta una semplice fattrice e quindi non degna di un rapporto privilegiato col divino; quest’ultima, infatti, non sarebbe mai mossa da nobili intenti nei confronti di Dio ma sempre dalla vendetta o dalla pazzia che la conduce inevitabilmente a ribellarsi

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alla legge divina. Ancora una volta, la figura della giudea Maria assume un significato rappresentativo di un cannibalismo desacralizzato, patologico e bestiale. Il valore positivo o negativo che l’atto antropofagico assume lungo il Medioevo varia a seconda del sesso dei soggetti, divenendo strumento di costruzione delle identità: le donne sono immancabilmente divoratrici, dipinte come animali assetati di sangue e in combutta con forze malefiche, come attesta il Malleus Maleficarum, e i loro corpi, segnati dal peccato e dal sangue mestruale, vengono visti con diffidenza anche dopo la morte e quindi neanche degni di essere ingeriti; quando è esplicitato il sesso del divorato, al contrario esso è quasi sempre un uomo, per il quale l’atto cannibalico ha un valore altamente positivo poiché simbolo di coraggio, valore, invincibilità in battaglia e, come accennato, di canale privilegiato nella comunicazione con Dio. È fondamentale notare, al di là di ogni differente connotazione che il cannibalismo assume a seconda di luoghi e soggetti, che lo sforzo degli esegeti medievali lungo i secoli è stato quello di creare una profonda linea di demarcazione fra la volontà celeste e l’aberrazione del cannibalismo, che non deriverebbe quindi dal diretto volere di Dio stesso ma dal peccato insito negli uomini. L’antropofagia, nel testa biblico, è strumento di minaccia verso

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