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Il fenomeno: storia e testimonianze sul cannibalismo

CAPITOLO SECONDO: LO SGUARDO ANTROPOLOGICO SUL CANNIBALISMO

2.1 Il fenomeno: storia e testimonianze sul cannibalismo

Nel capitolo precedente abbiamo cercato di comprendere cosa fosse accaduto all’indomani della scoperta del Nuovo Mondo e come si potesse contestualizzare quel periodo storico. La scoperta di nuove popolazione con usi e costumi completamente inediti per gli europei dell’epoca produsse una profonda frattura nella cultura e nella mentalità: una frattura che, nonostante il sostegno delle idee Rinascimentali, il sorgere di una nuova scienza empirica e di nuovi modelli socio-economici, era difficile da colmare. Come poter spiegare allora agli occhi di un europeo un fenomeno come il cannibalismo antropofagico? Che tipo di valenza poteva avere una pratica considerata dagli osservatori esterni alle popolazioni americane come brutale, violenta e sanguinaria? È molto difficile, se non quasi impossibile, potersi calare completamente nella mentalità di un esploratore o di un missionario che intraprendeva il lungo viaggio verso le Americhe: si può solo immaginare l’insieme di sensazioni, emozioni e pensieri alla vista di quegli atti cannibalici.

In ogni caso, ciò che si potrebbe facilmente supporre è innanzitutto il disgusto e il senso di terrore di fronte a questa pratica, aspetti questi che emergono ancora oggi nel XXI secolo nonostante numerosi studiosi si siano impegnati ad analizzare a fondo la questione. Il cannibalismo, specialmente quello dell’uomo sull’uomo, è considerato nella mentalità comune un argomento riprovevole, al più controverso. Il disagio che emerge ogni volta che si tenta di discutere di questo tema è ancora percepibile, segno di un mancato superamento di quella frattura accennata all’inizio. Questa reazione comune può portare a due considerazioni interessanti: innanzitutto, bisogna notare che nonostante ci separino sei secoli dalla scoperta dell’America e quindi dalle prime moderne testimonianze sulle pratiche cannibaliche di quei popoli, le nostre sensazioni e soprattutto la nostra considerazione del tema non è cambiata in maniera assai sostanziale (ad esclusione dei circoli accademici); in secondo luogo, il cannibalismo antropofagico, proprio per la sua capacità di configurarsi come una tematica forte, dal profilo non del tutto chiarificato e problematica sotto vari aspetti, può dire molto sul nostro mondo, sulla natura della nostra cultura e sui processi di formazione delle identità. Se non fosse anche così, il disagio che esso suscita ancora non avrebbe trovato fra l’altro forme di

sublimazione oggi riscontrabili nei mezzi di comunicazione di massa come il cinema, i fumetti, i romanzi e più in generale nell’immaginario della cultura pop, aspetto, questo, che verrà analizzato più avanti nel capitolo finale.

Da un punto di vista storico, se volessimo andare a ritroso in un’ipotetica diagnosi filogenetica delle testimonianze sul cannibalismo, dovremmo pensare ad esempio al filosofo greco Porfirio,, il quale nella sua opera Astinenza dagli animali era convinto che mangiare la carne degli animali equivaleva ad un atto di cannibalismo, visto che in quei corpi potevano trasmigrare anche le anime di esseri umani.

Già ciò che tramandano i classici ci lascia immaginare che vi fosse una consuetudine cannibalistica per fini prettamente alimentari, ma limitati essenzialmente a soggetti come i soldati o alle popolazioni sotto assedio costretti a cibarsi dei corpi dei propri simili in mancanza d’altro; oppure questa particolare consuetudine alimentare era considerata in senso dispregiativo contro popolazioni ritenute barbare e selvagge. Basti pensare ad Erodoto che parlava nei suoi scritti di antropofagia, definendo come orripilante tale pratica, presente solo in caso di totale assenza di cibo; ed è sempre lui che nelle sue cronache ci riferisce che:

“a settentrione, al di là del deserto che si estende oltre le terre degli Sciti, vivono gli Androfagi, tra di loro si praticano gli usi più selvaggi del mondo e sono un popolo senza giustizia e senza nessuna legge. Sono nomadi, vanno vestiti in modo simile agli Sciti, parlano una loro lingua e, tra quei popoli,

sono gli unici che mangiano carne umana”.28

In Polibio, invece, ritroviamo una testimonianza di pratiche cannibaliche militari:

“Nel periodo in cui Annibale progettava di preparare con le truppe la marcia dall’Iberia in Italia, e si preannunciavano enormi difficoltà per i viveri e la disponibilità di rifornimenti per le truppe uno degli amici espresse il parere secondo cui gli si presentava una sola via che consentisse di arrivare in Italia. Quando Annibale lo invitò a parlare, disse che bisognava addestrare e abituare le truppe a mangiare carne

umana.”29

Proprio l’aspetto prettamente alimentare però, anche se considerato controverso e ancora non ben chiaro, è stato comunque rilevato e la tesi di un cannibalismo finalizzato esclusivamente all’alimentazione è più volte emersa, ciclicamente, ogni volta che si cercasse una spiegazione per l’origine di tale pratica; sembra infatti che più si vada a ritroso nel tempo, spingendosi sino alla comparsa dei primi ominidi, più inizino a spuntare fuori le figure di presunti cannibali preistorici, idea, questa, che sembra affascinare molti studiosi, non ultimo l’archeologo Tim White, il quale ha evidenziato che in Croazia alcuni recenti ritrovamenti risalenti a circa centomila anni fa

28Erodoto, Storie, Libro IV

attesterebbero l’attitudine di cibarsi di cervello umano a causa della conformazione dei crani ritrovati.

Medesimi ritrovamenti sono stati rilevati in Africa, America centrale, Nuova Zelanda, India e Australia e alcuni ricercatori come Sandra Bowdler e Fernando Rossi hanno consentito di sottoporre all’attenzione della comunità scientifica internazionale l’abitudine al cannibalismo in epoca preistorica.

Interessante è anche quanto apparso su Scientific American nel 2012, dove si parla del sito della caverna di Gough, nella contea inglese del Somerset, dove secondo gli archeologi si sarebbero verificati numerosi atti di cannibalismo. Nel corso del tempo, gli studiosi che si sono imbattuti nel fenomeno utilizzando le tecniche paleontologiche si sono spesso avvalsi della documentazione fossile, ma stabilire se avvenisse davvero e perché gli esseri umani si mangiassero reciprocamente non è comunque sempre semplice. Come riportato dall’articolo, una nuova analisi ha permesso di arrivare a una maggiore comprensione di come fosse praticato nel sito di Gough, suggerendo inoltre che durante la preistoria il cannibalismo sia stato più comune di quanto si pensasse.

È di particolare interesse notare che:

“Gli studi sui resti fossili del cannibalismo si sono tradizionalmente concentrati sui segni di danni alle ossa

causati da strumenti in pietra, come scalfitture dovute al taglio dei muscoli e segni di percussione per estrarne il nutriente midollo, nel tentativo di distinguere le conseguenze dell'attività umana da quella di grandi felini e altri carnivori. Ma capire se un corpo umano è stato scarnificato per motivi rituali oppure alimentari è difficile. Di recente, quindi, gli scienziati hanno iniziato a cercare i segni di denti umani, una traccia che non lascia alcun dubbio sulle intenzioni. La ricercatrice Silvia M. Bello ha esaminato tali studi con la tafonomia, la branca della paleontologia che studia la formazione dei fossili a partire dai processi di decomposizione. Presso il Museo di storia naturale di Londra sono stati esposti risultati davvero notevoli.

La Bello ha riferito che le ossa della grotta provengono da almeno quattro persone, tra cui un bambino di circa tre anni, e mostrano numerose tracce di rosicchiamento da parte di esseri umani, oltre a chiari segni di taglio con strumenti di pietra. In effetti, la maggior parte delle ossa al di sotto del collo reca rivelatrici tracce di denti. I cannibali sembrano aver sfilettato i muscoli principali con coltelli di pietra per poi strappare con i denti le parti rimaste. Anche le estremità delle falangi e delle costole sono state rosicchiate, forse per poterne aspirare la modesta quantità di midollo presente. Curiosamente, a differenza delle altre, nessuna delle ossa del cranio mostra segni di denti; sono state però scarnificate con grande accuratezza. Ogni frammento di tessuto molle, tra cui occhi, orecchie, guance, labbra e lingua, sembra essere stato meticolosamente rimosso con strumenti di pietra. Tuttavia, i cannibali si sono presi la briga di conservare la calotta cranica, separarla dalla faccia e sagomarne i bordi in modo da produrre ciò che la Bello e i suoi colleghi in precedenza avevano indicato come coppe e ciotole di un tipo già noto nei resoconti etnografici.”30

Da quanto riportato da Angelo Tartabini emerge che alcuni studiosi negli anni ottanta abbiano avvalorato le teorie degli storici antichi come Polibio o Erodoto, riportando ancora

30 K. Wong, Il cannibalismo preistorico, tra utilitarismo e ritualità, articolo apparso

numerose testimonianze di ritrovamenti fossili che attesterebbero l’esistenza di pratiche cannibaliche in epoca primitiva:

“Philip Tobias, allievo di Dart, sostiene che tra le popolazioni cavernicole di Homo erectus, il diretto progenitore dell’Homo sapiens, ci sono dei resti che evidenzierebbero l’esistenza di rituali di sepoltura. Tobias è però convinto che, tra alcuni di questi gruppi, si praticasse l’antropofagia. Alcune ossa umane, ritrovate spezzate, come quelle degli animali, lo lascerebbero supporre. Ma si può veramente ammettere

l’esistenza del cannibalismo preistorico? Alcune

testimonianze del Paleolitico superiore rileverebbero la presenza di alcune ossa ritrovate accanto ad alcuni focolari domestici. Si tratta di ossa del cranio che sarebbero servite

per alcune pratiche di cannibalismo ritualizzato.”31

Anche le pubblicazioni più accreditate, quindi, sostengono la tesi di un cannibalismo funzionale ai diversi riti all’interno dei quali aveva una connotazione ben precisa, e non quindi solo ed esclusivamente alimentare.

Persino nell’antico Egitto, sulla tomba del faraone Unis, intorno al 2350 a.C., vi è un inno richiamante il cannibalismo: il faraone sarebbe stato capace infatti di divorare suoi consimili, proprio perché assunto a livello di divinità e dando quindi una dimostrazione di superiorità; anche in questo caso siamo all’interno dell’ambito della ritualità.

Quanto più ci si avvicina al mondo classico greco e romano, tanto più l’antropofagia assume maggiormente contorni mitici,

evidenziando come il cannibale venga additato sempre invariabilmente come l’”altro”, l’appartenente a popolazioni fuori dai confini delle polis e dell’impero e per tanto passabile di connotazioni assolutamente negative sino ad assumere contorni bestiali e mostruosi. Un atteggiamento che sembra percorrere tutto l’Occidente, dal Medioevo sino alla modernità.

Il cibarsi di membra umane fa parte di alcune figure dei racconti mitici greci, com’è il caso ad esempio di Atreo, Tantalo e del popolo dei giganti cantato nell’Odissea dei Lestrigoni, casi che rimandano ad un tipo di cannibalismo a connotazione rigorosamente tribale o praticato tra nemici per simboleggiare una forma di diritto di superiorità applicata tramite un rito violento; o ancora, nei casi più eclatanti viene raramente riportato come episodio bellico, come accadde ad esempio durante le guerre puniche, allorquando le legioni romane portarono alla carestia i cartaginesi o durante l’assedio della città di Numanzia nel II secolo a. C.

All’infuori dell’ambito mitico e del racconto, invece, come rilevato da numerosi storici e antropologi, tra cui anche Marvin Harris, la ritualità greca e romana aboliva il cannibalismo, considerandolo una pratica propria del “barbaro”. Sia Tertulliano che Galeone II ci testimoniano, infatti, la totale avversità dei

romani alla antropofagia nelle sue diverse forme e la stessa poteva essere sanzionata con la crocifissione proprio perché considerata esclusivo appannaggio di popolazioni non romane, così come anche il De bello gallico riporta che alcune popolazioni nord-europee avevano l’abitudine di bere il sangue dal cranio dei defunti dopo averli mangiati. A differenza di alcuni sporadici episodi in cui degli esseri umani venivano sacrificati per propiziare gli dei o per far scongiurare eventi ritenuti nefasti (quali capitolazioni di città o sconfitte in battaglia), i greci e i romani consideravano, quindi, assolutamente immorale qualsiasi tipo di sacrificio umano e soprattutto qualsiasi atto che comportasse il consumo di carne umana proprio perché queste pratiche, a loro avviso, li avrebbero resi simili a popoli da loro considerati “incivili” come i celti, galli e bretoni per gli antichi romani.

Con l’avvento del cristianesimo, il verbo si è fatto carne e il corpo per eccellenza di questa religione, ovvero quello di Cristo, è al centro del sistema simbolico e cultuale attraverso l’eucaristia, forma teofagica e di antropofagia simbolica a tutti gli effetti. Riferimenti diretti al cannibalismo sono presenti anche nella Bibbia, autorità per eccellenza nell’Occidente medievale, così come anche alle metafore di divorazione che descrivono per

lo più l’ira di Dio verso chi non si attiene ai suoi precetti divini. Uno degli esempi più riportati è l’episodio narrato nel secondo Libro dei Re, dove si narra la vicenda di due madri in Samaria che avrebbero ucciso i propri figli per cibarsene a causa della terribile carestia che scoppiò intorno al 848 a.C. in seguito all’accerchiamento del sovrano siriaco Ben-Hadad della città; recita infatti il passo:

“Questa donna mi ha detto: Dammi tuo figlio; mangiamocelo oggi. Mio figlio ce lo mangeremo domani. Abbiamo cotto mio figlio e ce lo siamo mangiato. Il giorno dopo io le ho detto: Dammi tuo figlio; mangiamocelo, ma essa ha nascosto

suo figlio (2 Re 6, 28-29)”.32

Episodi come quello appena riportato sono presenti anche nel Levitico, nel Deuteronomio, in Geremia, Ezechiele, Baruc e nelle Lamentazioni, e ispirarono numerose rappresentazioni di antropofagia materna lungo tutto il Medioevo.

In numerosi autori medievali, fra cui anche Sant’Agostino, l’interpretazione metaforica dell’antropofagia nella Bibbia è affiancata sovente alla contestualizzazione storica compiuta da Giuseppe Flavio nel suo Bellum Judaicum per quanto riguarda soprattutto la cronaca dell’assedio di Gerusalemme nel 70 d.C. sotto l’imperatore Vespasiano e messa in atto da suo figlio Tito. Fra le mura della città, Maria, una giudea facoltosa e ridotta in

32 cit. in A. A. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali, Il Mulino, Bologna 2015, p.

povertà e alla fame dai ribelli e dai romani, al culmine della disperazione e dell’angoscia, decide di cibarsi del suo figlioletto perché ormai entrambi ridotti allo stremo; i saccheggiatori, scoperto il misfatto, si trovano davanti la scena della madre che addirittura avrebbe conservato una razione anche per loro, apostrofandoli con queste parole:

“Questo è il mio bambino, disse la donna, e opera mia è questa. Mangiatene, perché anch’io ne ho mangiato. Non siate né più pavidi di una donna, né più compassionevoli di

una madre”.33

L’episodio della madre antropofaga nell’opera di Giuseppe Flavio verrà ripreso lungo tutto il corso dell’epoca medievale, giocando un ruolo fondamentale per l’immaginario collettivo dell’epoca che venne plasmato fortemente su questo racconto, tanto che nel Trecento divenne uno stereotipo diffuso per descrivere una forte fame causata dalla perenne penuria di cibo, come dimostra il riferimento che ne fa Dante nel Purgatorio tramite i versi “quando Maria nel figlio diè di becco”. Inoltre, il racconto può essere preso ad esempio di come, nel corso del Medioevo, si sia formata una fiorente letteratura ad opera dei cristiani atti a screditare le comunità ebraiche colpevoli da sempre di non aver riconosciuto Cristo come il vero e unico figlio di Dio, tirando in ballo anche presunti atti di cannibalismo

verso gli infanti sia fuori che dentro le stesse comunità. Come spiega Montanari a proposito della versione di Giovanni Boccaccio sulla vicenda di Maria:

“Inoltre, lo stesso corpo degli ebrei dovrà scontare il trattamento riservato al corpo di Cristo, miseramente lacerato, infangato e coperto di sputi. E poco importa che non si tratti fisicamente degli stessi che tradirono il Salvatore: gli ostinati, perfidi giudei sono considerati nella loro giudaicità come un solo grande corpo sul quale ricade la colpa. Infine, Boccaccio instaura un legame tra le due Marie, la Vergine e, al suo opposto, la giudea che, cannibalizzando se stessa tramite la divorazione del figlio, incarna l’autodistruzione degli ebrei che perseverano nell’errore: <<coloro che avevano fatto violenza al figlio di Maria videro un’altra Maria, nell’estrema rovina della città, spinta dalla fame comune, cibarsi delle membra del piccolo figlio, rese molli dal fuoco>>34.

Nel Medioevo l’atto cannibalico poteva inoltre assumere significato di sfregio nei confronti del nemico o, al contrario, come supremo atto d’amore e di venerazione, come attesta l’idea che solo la figura paterna, tramite il legame di sangue che lo lega al nascituro, potesse sacrificare i figli ed eventualmente ingerire alcune loro parti anatomiche per volere divino, a differenza invece della madre che, nonostante porti i figli in grembo e li nutra, è ritenuta una semplice fattrice e quindi non degna di un rapporto privilegiato col divino; quest’ultima, infatti, non sarebbe mai mossa da nobili intenti nei confronti di Dio ma sempre dalla vendetta o dalla pazzia che la conduce inevitabilmente a ribellarsi

alla legge divina. Ancora una volta, la figura della giudea Maria assume un significato rappresentativo di un cannibalismo desacralizzato, patologico e bestiale. Il valore positivo o negativo che l’atto antropofagico assume lungo il Medioevo varia a seconda del sesso dei soggetti, divenendo strumento di costruzione delle identità: le donne sono immancabilmente divoratrici, dipinte come animali assetati di sangue e in combutta con forze malefiche, come attesta il Malleus Maleficarum, e i loro corpi, segnati dal peccato e dal sangue mestruale, vengono visti con diffidenza anche dopo la morte e quindi neanche degni di essere ingeriti; quando è esplicitato il sesso del divorato, al contrario esso è quasi sempre un uomo, per il quale l’atto cannibalico ha un valore altamente positivo poiché simbolo di coraggio, valore, invincibilità in battaglia e, come accennato, di canale privilegiato nella comunicazione con Dio. È fondamentale notare, al di là di ogni differente connotazione che il cannibalismo assume a seconda di luoghi e soggetti, che lo sforzo degli esegeti medievali lungo i secoli è stato quello di creare una profonda linea di demarcazione fra la volontà celeste e l’aberrazione del cannibalismo, che non deriverebbe quindi dal diretto volere di Dio stesso ma dal peccato insito negli uomini. L’antropofagia, nel testa biblico, è strumento di minaccia verso

chi osa ribellarsi ai comandamenti divini ed è il simbolo più pregnante della vendetta celeste, tanto da trovare per l’immaginario popolare anche una codificazione politica, simboleggiata dall’immagine dei potenti che vessano i più poveri, ma anche da quella delle streghe, licantropi, ebrei mangiatori di bambini e altre figure che popolano il ricco bestiario medievale. Figure, queste, funzionali alla cristianità per costituire la propria identità e un tessuto morale quanto più possibile condiviso.

Il piccolo excursus condotto sin qui attraverso i casi presi in esame, dai rilevanti fossili dei paleontologi sino ai racconti medievali, dimostra come l’antropofagia, nonostante gli sporadici casi di stampo rituale o dettati da condizioni alimentari estreme, non fosse una pratica che trovasse la sua piena e diffusa giustificazione presso le società antiche del Vecchio Continente e che invece sia stata trasfigurata nel mito per giustificare più chi usava l’appellativo dispregiativo di “cannibale” verso gli estranei che invece indicare un’effettiva pratica culturale esistente. L’antropofagia, in ogni caso, sembra fare realmente e prepotentemente il suo ingresso nel mondo della cultura europea solo all’indomani della scoperta del Nuovo Mondo: è a partire da questo evento che la coscienza occidentale inizia a prendere atto

del fenomeno, uscendo lentamente fuori da antiche visioni mitiche che relegavano il fenomeno all’aneddotica per iniziare, faticosamente, ad adottare uno sguardo maturo che sappia fare i conti con un fenomeno “nuovo” e a suo modo destabilizzante. La figura del mostro antropofago, che nel Medioevo si nascondeva sotto le spoglie di immagini e figure mitiche e spaventose, rivive inconsciamente nella mente dei primi coloni, che condanneranno nella maggior parte dei casi le pratiche cannibaliche proprio in virtù del fatto di essere degli atti contro natura e di derivazione demoniaca.

2.2 I differenti tipi di cannibalismo nelle società tribaliche: il