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Differenti rappresentazioni: cannibali classici e cannibali metropolitani dalla letteratura al cinema

CAPITOLO TERZO: CANNIBALI E CANNIBALISMO POP

3.3 Differenti rappresentazioni: cannibali classici e cannibali metropolitani dalla letteratura al cinema

Nell’immaginario popolare, il processo al quale vengono sottoposti coloro che si cibano di carne umana può essere un visto come caratterizzato dal movimento che vede l’antropofagia provenire dall’esterno, addirittura da un luogo assolutamente altro come quello della morte con gli zombi, per poi avvicinarsi sempre più al mondo dei vivi, sino ad insidiarsi dentro di essi, motivato da cause puramente interiori. Gli aspetti psicologici iniziano quindi a prendere il sopravvento ed ad essere determinanti per connotare in maniera differente il cannibalismo e, soprattutto, chi lo pratica. L’orrore e la brutalità, sembrano suggerire gli artisti che decidono di confrontarsi con questo tema, non vanno ricercati fuori ma dentro la mente e nei presupposti culturali della civiltà dell’uomo. Si acquisisce quindi uno sguardo più critico e introspettivo, che riguarda non solo (e non tanto) il cannibalismo in quanto tale, ma le sue implicazioni per la società contemporanea della seconda metà del XX secolo verso la quale determinati prodotti culturali di massa vogliono rivolgersi. Il cinema, probabilmente più di qualsiasi altro mezzo espressivo, sembra accogliere la sfida che il cannibalismo lancia

verso il grande pubblico, assecondando da una parte emozioni e sensazioni “forti” che gli spettatori ricercano nelle produzioni soprattutto a partire dagli anni ’70, e dall’altra ricercando un punto di vista crtiica che sappia riconfigurare in maniera inedita i possibili significati del cannibalismo con altre e più attuali istanze sociali ed individuali. La componente visiva è rilevante per un fenomeno controverso come quello dell’antropofagia, il quale “deve essere mostrato” e che si rivela allo sguardo che reagisce di volta in volta in maniera diversa: l’occhio del cinema diviene un tutt’uno con l’occhio degli spettatori, trasformati in un certo senso in voyeur e, proprio per questo, posti in una posizione intermedia che consente di osservare il cannibalismo né troppo vicino, rischiando in questo modo di venirne turbati (cannibalizzati, per l’appunto) dalla sua portata emotiva, e né troppo lontano, in modo da non ritrovarsi completamente estranei ad esso e a non riconoscere quindi le sue implicazioni simboliche, come accade ad esempio nel film Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato dove il punto di vista sui cannibali viene continuamente spostato e modificato. Un conto è leggere del cannibalismo, un altro è guardarlo: per quanto una testimonianza scritta, un racconto o un romanzo possano descrivere dettagliatamente tale pratica, gli esiti saranno

profondamente diversi dalla trasposizione visiva; la parola, infatti, media e fa da filtro, spesso non restituendo appieno la potenza che risiede invece nella visione, la quale è molto più diretta. All’indomani della scoperta del Nuovo Mondo e in particolare a partire dall’Illuminismo sino a oggi, ciò che non è mai mancata all’Occidente è la volontà di scrutare da lontano la carica esotica che il cannibalismo ha sempre portato con sé: ciò che sono cambiate sono le metodologie narrative e rappresentative altamente simboliche ed insieme estetizzanti del fenomeno, sviluppatesi in più tappe nel corso dei secoli.

Già a partire dal Medioevo, questa volontà di raccontare e diffondere il cannibalismo è molto forte. L’immagine dell’Ugolino dantesco è una delle più conosciute nella tradizione occidentale per quanto riguarda la rappresentazione del cannibalismo: rinchiuso senza viveri con i suoi figli e i nipoti nella Torre della Muda, il conte Ugolino della Gherardesca morì per inedia dopo giorni di atroce sofferenza e, secondo la leggenda, dopo aver fatto scempio del corpo dei suoi cari. In realtà, non tutti gli studiosi sono concordi nell’avallare l’idea del cannibalismo, in quanto il famoso verso di Dante “Poscia, più che il dolor, poté il digiuno” nel XXXIII canto dell’Inferno recitato dallo stesso conte mentre rosicchia il cranio di colui che

lo condannò a morte, l’arcivescovo Ruggieri, si presta a numerose interpretazioni. Quel che è certo è che Dante carica la figura di Ugolino di un profondo significato simbolico, collegando la sua figura di cannibale alle vicende delle lotte politiche dell’Italia del XIII secolo, facendone simbolo del tradimento verso gli uomini per assecondare la propria insaziabile fame di ricchezza e potere. L’iconica immagine dipinta dai versi di Dante fa parte del complesso apparato metaforico medievale che pone i limiti dell’umano ad Oriente. Per l’uomo medievale, infatti, le terre ad est dell’impero erano luoghi oscuri, inospitali, immensi e per lo più sconosciuti, dove è possibile collocare pulsioni, visioni e desideri considerati inappropriati per il pensiero cristiano. Ecco quindi che l’Oriente, come anche in una certa misura i territori settentrionali e meridionali, si pullula di mostri, bestie e di popoli (fra cui ad esempio anche i mongoli) dediti a pratiche considerate innaturali, fra cui naturalmente il cibarsi di carne umana; venivano descritti in numerose opere dell’epoca fra cui spicca il Liber monstrorum de diversis generibus dell’VIII secolo, un importante veicolo per la diffusione del tema delle razze antropofaghe lungo il Medioevo; nell’opera si può leggere infatti:

“Nasce ad oriente del fiume Brixonte, un genere di uomini di immensa grandezza, di corpo nero: raggiungono i diciotto

piedi di altezza e, come dicono, quando prendono gli uomini,

li mangiano crudi”.58

Secoli dopo, per lo sguardo occidentale il fascino esotico dell’Oriente rimarrà immutato anche successivamente alla scoperta dell’America, affiancando ad esso i territori del Nuovo Mondo che venivano esplorati fra l’Atlantico e il Pacifico. L’età dei Lumi inaugurò una nuova stagione per le esplorazioni transcontinentali, che affiancavano al commercio d’importazione e d’esportazione anche quelle finalizzate esclusivamente alla conoscenza del mondo naturale e dei nuovi popoli. Le imprese di esploratori e viaggiatori come James Cook e Louis-Anne de Bougainville consentirono la scoperta di nuovi territori come la costa orientale dell’Australia, le Hawaii, le isole della Nuova Zelanda, l’Antartico, sino a spingersi a cercare il passaggio a nord-ovest dello stretto di Bering. Man mano che i traffici aumentavano e le rotte marittime continuamente riconfigurate, la figura di questi personaggi iniziava ad essere di dominio pubblico, e i loro libri di viaggio alimentava una fiorente fetta del mercato letterario che richiedeva sempre di più prodotti di questo tipo. Il successo di questi libri (che oggi definiremmo dei “best seller”) era dovuto al fatto che essi non davano un’immagine dei

territori esplorati per come realmente erano, ma per come invece il pubblico dei lettori desiderasse che fossero. Sulle zone del Pacifico e dell’Atlantico, così come sui popoli nativi che le abitavano, gli europei riversarono desideri, speranze, sogni e utopie che consentivano alla mentalità occidentale di non dover fare continuamente i conti con la propria realtà politica, economica e sociale fatta di rigidi vincoli, competizione ed esasperate divisioni. Per l’europeo acculturato che poteva permettersi determinate letture era confortante, in un certo senso, sapere che questi posti esistessero davvero e non fossero frutto esclusivamente delle fantasie mitiche dell’antichità, la quale, fra l’altro, veniva usata come lente da cui osservare le società dei nativi paragonate alla Grecia antica o all’impero romano per le loro virtù, vere o presunte che fossero. Ai racconti di Cook e Bougainville si affiancarono ben presto le rappresentazioni teatrali che portavano in scena drammi con ambientazione tahitiana; inoltre, le navi che si dirigevano in quei luoghi remoti iniziarono ad ospitare artisti professionisti che provvedevano a riprodurre immagini di piante, animali e popoli, le quali alimentavano un fiorente mercato di incisioni insieme a quello ugualmente remunerativo degli oggetti provenienti dal Pacifico, come armi da guerra, stuoie intrecciate, vestiti locali e ami da

pesca.

L’insieme di questo flusso costante e impetuoso di stampe, oggetti e narrazioni influenzò pesantemente l’immagine che l’Occidente aveva della parte orientale del mondo dal ‘700, alimentando costantemente determinate idee e sentimenti condivisi dalla maggior parte del pubblico desideroso di attingere a queste utopie esistenti, pur senza sentire il bisogno di allontanarsi da casa per recarsi di persona in quei luoghi. Tale atteggiamento contraddittorio riflette il valore esclusivamente estetizzante che per gli occidentali aveva il contatto con i popoli stranieri: agli europei non interessava sapere come fossero realmente quelle culture, bensì volevano piegarle alla loro immagine. Dai filosofi agli esploratori, dagli studiosi della natura ai missionari, nessuno era esente da questo processo falsificante che consentiva di usare come fonte primaria nei dibattiti e come strumento per la costruzione di teorie e apparati teorici solo ciò che l’occhio europeo voleva scorgere.

I racconti e i romanzi d’avventura che iniziarono a diffondersi presso i lettori delle potenze europee racchiudevano in sé e sublimavano questa nuova mentalità collettiva con storie ambientate in quei remoti luoghi esotici. Il più significativo fu scritto da Defoe, che col suo Robinson Crusoe pubblicato nel

1719 seppe dare un’immagine riconoscibile dei valori culturali sui quali si basava l’espansionismo britannico ed europeo. Quei valori erano gli stessi condivisi dalla borghesia mercantile e commerciale nascente all’epoca: Robinson incarna la laboriosità, la fiducia riposta nei propri mezzi e l’intraprendenza individuale che gli garantiscono il proprio posto nel mondo e soprattutto il poter disporre di tutto ciò che lo circonda, compresi altri uomini, per raggiungere il suo benessere personale e il riconoscimento sociale. In questo quadro, un elemento centrale risulta essere la fede, vero motore e supporto essenziale per ogni azione intrapresa dal protagonista: tramite la fede, Robinson riesce ad inquadrare ogni evento che gli accade in una prospettiva cristiana e provvidenziale, interpretando il suo viaggio e il successivo naufragio sull’isola come tappe di un itinerario necessario da superare per giungere alla maturazione sia personale che collettiva. Il sentimento religioso è indicativo del suo agire morale: a differenza delle rappresentazioni che saranno fatte secoli dopo in un’ottica più critica, che vedono i coloni lasciarsi andare a qualsiasi nefandezza nei confronti degli indigeni e dell’ambiente in cui si trovano, il personaggio di Defoe mantiene sempre un proprio rigore morale che lo porta a non voler abusare delle risorse, evitando l’accumulo e lo spreco in quanto gli

oggetti hanno un loro valore d’uso destinato a soddisfare l’indispensabile. Questo atteggiamento è sintomatico della contrapposizione fra civiltà e mondo selvaggio, in quanto soltanto evitando di “lasciarsi andare” e rispettando i limiti imposti dalla società che Robinson incarna, l’uomo può evitare di scivolare nella barbarie, rappresentata invece dalla giungla impenetrabile e misteriosa. La natura selvaggia infatti è il luogo che presenta a Robinson i selvaggi dediti al cannibalismo: nei loro confronti, egli nutre un innato senso di superiorità in quanto i valori di cui egli è portatore etichettano immediatamente quella pratica come inumana e barbara. I “veri” valori della civiltà, non possono contemplare un atto come il cannibalismo: non è un caso quindi che l’indigeno liberato da Robinson, Venerdì, non mangi gli uomini per il puro gusto di farlo ma per motivazioni ben precise legate all’onore e al valore in battaglia, qualità che agli occhi di Robinson lo rendono differente dagli altri cannibali e meritevole quindi della redenzione. Robinson accetta Venerdì solo nel momento in cui capisce che può essere simile a lui, in modo tale così da ricondurlo alla sua sfera culturale: l’addomesticamento passa prima di tutto dalla privazione del vero nome dell’indigeno e, successivamente, dal far accettare determinati valori quali la fede e l’etica del lavoro. Da questo

momento in poi, Venerdì può essere considerato fuori dallo stato selvaggio e ristabilito nella comunità umana della civiltà. Grazie al romanzo di Defoe, è evidente il processo di come il cannibalismo e la civiltà siano sorti insieme nell’immaginario popolare, influenzando poi gli scrittori coloniali successivi che avrebbero attinto alla figura di Robinson Crusoe per giustificare la necessità e i vantaggi dell’imperialismo.

La dicotomia fra stato selvaggio e civiltà divenne un tratto centrale nella narrativa coloniale successiva a Defoe, plasmando l’immaginario popolare man mano che le potenze europee espandevano i loro domini in Africa e in gran parte dei territori asiatici a partire dal XIX secolo. I romanzi d’avventura con ambientazione esotica di scrittori come Stevenson, Salgari, Haggard e Kipling mettevano in contrasto le caratteristiche dei coloni e degli indigeni, in modo tale che i primi potessero mettere in risalto le intrinseche qualità positive del medio borghese europeo. L’Altro, in queste costruzioni popolari, era invariabilmente il selvaggio cannibale, figura indistinta, stereotipata, privata della sua umanità tramite il ricorso ad una pratica violenta come appunto l’antropofagia dalla quale bisognava necessariamente prendere le distanze per poter declamare la propria superiorità morale e umana. La continua

enfasi sulla distinzione trovava inoltre riscontro nell’interesse diffuso all’epoca negli studi sulle razze, supporti teorici utili a giustificare la riduzione in schiavitù delle popolazioni indigene vista come necessaria ed anche positiva per quelle stesse popolazioni. L’eroe dei romanzi coloniali era quindi colui che portava il progresso e la civiltà in luoghi remoti e sconosciuti allo sguardo dei lettori, i quali potevano facilmente calarsi in queste storie proprio grazie alla loro lontananza spaziale e temporale. Questa lontananza era particolarmente accentuata tramite il ricorso nel dipingere le colonie come luoghi totalmente inospitali e avversi all’uomo, pieni di animali selvaggi estremamente aggressivi e di pericoli, risultando così adatti a far emergere l’eroismo, il coraggio e la forza dei protagonisti essenzialmente maschili.

Lungo tutto il XIX secolo gli imperi coloniali dell’Europa prosperavano, in particolar modo quello britannico che all’apice del suo espansionismo coloniale ricopriva un quarto delle terre emerse comprendendo un quinto della popolazione mondiale. Rudyard Kipling aveva già elaborato la “coscienza imperiale” britannica in varie opere, fra cui i due Libri della giungla, e dichiarato cantore dell’impero grazie ai versi I sette mari e Cinque nazioni sul finire del secolo. Nel 1897, il sessantesimo

anniversario del regno della regina Vittoria, proclamatasi imperatrice delle Indie, fu l’evidente dimostrazione della maestosità e della potenza raggiunta dall’Inghilterra. La tarda età vittoriana, però, iniziò a mettere in luce il lento declino del primato inglese: la guerra anglo-boera combattuta fra il 1899 e il 1902, i pesanti conflitti di classe e la crisi economica infersero un duro colpo alla visione imperialistica inglese, acuendo la percezione di una crisi di quei valori universalistici che erano alla base del progresso considerato illimitato nell’età vittoriana. Cuore di tenebra di Conrad rispecchia questo nuovo assetto nel mondo coloniale e, pur essendo un romanzo inglese, nel tempo è divenuto emblematico per aver rappresentato l’altra faccia della mentalità imperialista. Pubblicato nel 1902 (anche se era già apparso a puntate nel 1899), Cuore di tenebra rappresenta una svolta nella rappresentazione dell’esotico nell’immaginario popolare: per la prima volta, infatti, anche i colonizzatori erano dipinti come selvaggi e potenziali cannibali. Conrad sembra lanciare un atto d’accusa contro l’egoismo e la fame di ricchezza che porterebbe i coloni ad una inesorabile perdita dei reali valori imperialistici dell’eroismo e della virtù. Kurtz, il misterioso personaggio ormai perso nella giungla africana, circondato da ricchezze e dai suoi schiavi, rappresenterebbe proprio lo

sfruttamento incondizionato delle risorse di quella terra: soggiogati dalle loro stesse passioni, i coloni sarebbero quindi dei “cannibali” metaforici, la cui sete di conquista li ha allontanati da quelli che sono i valori morali della civiltà. Questa idea, seppur inedita per la letteratura coloniale dell’epoca, evidenzia in ogni caso l’ambivalenza ideologica di Conrad nell’individuare la causa dello scivolamento nella barbarie, con il suo conseguente cannibalismo, degli occidentali. La perdita di umanità di Kurtz non è dovuta esclusivamente all’atteggiamento predatorio delle potenze coloniali: essa può manifestarsi solo perché trova terreno fertile nei luoghi lontani e sconosciuti delle colonie. Il Congo di Cuore di tenebra è dipinto come un girone infernale dantesco o come dotato di una forza soprannaturale che lo rende vivo e minaccioso: un luogo impenetrabile ad occhi estranei, che assorbe e “cannibalizza” chi osa violarlo e penetrare nei suoi misteri. Questa “cannibalizzazione” può essere effettiva, per via della presenza di nativi che si cibano di carne umana, oppure simbolica come avviene per Kurtz, il quale è stato “assorbito” letteralmente e metaforicamente dall’oscuro fascino di tutto ciò che è selvaggio decidendo di abbandonare per sempre il suo vecchio mondo. La trasformazione di questo personaggio rivela la più grande paura per la civiltà europea: quella di oltrepassare i

confini dell’umano per regredire ad uno stato pre-civilizzato; l’ingestione di carne umana da parte di Kurtz e l’aver adottato costumi completamente opposti a quelli del suo paese originario rivelano l’idea di una natura capace di corrompere l’uomo civilizzato, di farlo crollare e risvegliare in lui istinti sopiti e nascosti. L’irrefrenabile voglia di dominio coloniale denunciata da Conrad è solo l’aspetto visibile, per altro quello più facilmente riconoscibile perché moralmente codificabile da parte del lettore occidentale; più in profondità invece, Conrad riesce a costruire un sistema di simboli che restituiscono appieno e in maniera forte il terrore verso cioè che è selvaggio. Marlow, il narratore della vicenda, non riesce neanche a nominare esplicitamente il cannibalismo di cui si macchierebbe Kurtz, preferendo etichettarlo con l’espressione di “riti innominabili”, così come anche gli stessi nativi non sono mai descritte dettagliatamente ma considerate parte integrante della giungla, figure oscure e indistinte senza una loro individualità.

Cuore di tenebra occupa, quindi, una posizione peculiare nella narrazione popolare coloniale: da una parte critica l’atteggiamento delle potenze economiche europee nella loro futile corsa alla conquista, mentre dall’altra continua ad attingere dall’immaginario dell’epoca che vuole collocare il luogo della

pre-civilizzazione nei paesi ancora sconosciuti allo sguardo occidentale. In ogni caso, la sua originalità risiede nel fatto di aver accorciato la distanza fra ciò che è ritenuto civilizzato e ciò che è visto come selvaggio, fra ciò che sarebbe culturalmente sviluppato e culturalmente primitivo; il “cuore di tenebra” viene finalmente individuato anche in Occidente, spostando quindi radicalmente il punto di vista sul sé e sulle implicazioni culturali che esso riesce a scatenare sul resto delle culture.

A distanza di anni dal suo esordio, il nuovo sguardo sui cannibali inaugurato da Conrad influenzerà l’immaginario popolare e si ripresenterà proprio dopo la Seconda guerra mondiale in epoca post-coloniale in maniera nuova e visivamente più pregnante grazie al cinema. A partire dagli anni ’60 sino ad almeno i due decenni successivi, il cinema internazionale, ed in particolare quello italiano, conoscono una nuova spinta creativa che permette ai cineasti di portare su schermo temi mai o ben poco rappresentati prima di allora. Il cinema italiano, sia esso definito “d’autore” che “ di genere”, si fa specchio della realtà politica e sociale di quegli anni, e l’immaginario che inizia a proporre rivela, amplifica e trasforma aspetti del reale oscuri, contraddittori, dolorosi e spesso critici. In un periodo storico segnato dalle stragi di matrice politica, dal ’68, dai movimenti e

le continue manifestazioni di riconoscimento per i diritti civili, dalla corruzione diffusa su molteplici strati della società e dalla lotta di classe, la violenza e la tensione che questi eventi suscitavano erano all’ordine del giorno e particolarmente diffuse fra la società. In questo contesto, i mezzi di comunicazione di massa, a partire dalla televisione, contribuivano a rendere gli aspetti più atroci e truculenti degli eventi assolutamente quotidiani, normalizzati e integrati all’interno della vita delle persone. Il cinema iniziò a recepire questa nuova dimensione immaginativa e culturale, concentrandola in opere che facevano dell’estremo la loro cifra stilistica e narrativa, incoraggiate, da una parte, dallo sviluppo dell’industria cinematografica e dalla messa in campo di peculiari strategie di mercato, e dall’altra, osteggiate da una censura in molti casi oscurantista e pressante. Come fanno notare Curti e La Selva:

“Dunque una <<grande abbuffata>> di immagini estreme per un’avventura collettiva, nel bene e nel male, estrema: la cinematografia italiana, negli anni ’60 e ’70, diventa un autentico laboratorio adibito alla rappresentazione del sesso e della violenza considerati in tutte le possibili varianti,