• Non ci sono risultati.

La polivalenza del cannibale nella cultura di massa fra “cannibalismo culturale” e visioni post-apocalittiche

CAPITOLO TERZO: CANNIBALI E CANNIBALISMO POP

3.1 La polivalenza del cannibale nella cultura di massa fra “cannibalismo culturale” e visioni post-apocalittiche

Così come Arens nega un’ipotetica universalità del cannibalismo, di rimando si potrebbe notare invece quanto il mito costruito intorno a questa pratica sia ormai diffuso in tutto il mondo grazie alle narrazioni offerte dai mass media. Le rappresentazioni del fenomeno cannibalico attraverso la letteratura, i fumetti, il cinema e la musica, in sostanza l’intero universo dell’immaginario pop, sono diventati ormai gli unici modi per il mondo contemporaneo di venire a contatto con i cannibali e la loro pratica antropofagica. Questa pratica, infatti, è stata declinata di volta in volta in maniere molto diverse nel momento in cui ha saputo riflettere paure, desideri, timori e finanche perversioni della società moderna che la andava a “mettere in scena” con sguardo curioso, morboso o spaventato, ma in ogni caso restituendone raramente l’effettiva portata simbolica.

Tolti infatti i tabù, le norme regolatrici di natura magico-rituale, le motivazioni psicologiche e le situazioni alimentari estreme per

cui si rendeva necessario consumare carne umana, cosa si può dire che rimanga della figura del cannibale? Tolte queste “cornici” che inseriscono il fenomeno entro contesti molto specifici, l’immaginario comune (al quale non è immune neanche certa storiografia e alcuni rami della paleoantologia) associa il cannibale all’animale, dai contorni più o meno mostruosi a seconda dell’ottica interpretativa adottata. In ogni caso, è alla figura dell’animale quella al quale il cannibale viene avvicinato, sino a volte a farlo coincidere, ogni volta che si eliminano aspetti culturali particolari. L’animale, infatti, è l’essere per antonomasia che, nella sua forma selvatica, non appartiene alla società istituita dall’uomo, e quando ne fa parte, esso è addomesticato, culturalmente trattato e trasformato (assimilato e cannibalizzato, per l’appunto) in modo da renderlo quanto più vicino possibile all’uomo che se ne serve.

La figura del cannibale è sottoposto agli stessi duplici processi: temuto e combattuto quando è visto come minaccia, diretta e indiretta, alla civiltà, integrato e perfettamente a suo agio nella società in cui vive quando reprime la sua voglia di carne umana. Quest’ultimo aspetto presenta però una caratteristica distintiva: il cannibale è “accettato” e trattato come tutti gli altri solo fino al momento in cui non mostra il suo lato “animalesco”, fino a

quando cioè questo tratto peculiare non esplode in tutta la sua violenza rivelando, quindi, la sua reale identità, celata sino a quel momento dietro a norme sociali condivise. Il cannibale contemporaneo, che non vive più in mezzo alla giungla di qualche esotico paese bensì nella giungla d’asfalto delle grandi metropoli, è allora una maschera che permette a chi la indossa di vivere a cavallo di due mondi: quello considerato selvaggio e dell’”animalità”, e quello invece della civiltà, fatto di codici morali condivisi, buone maniere, lavoro e consumismo. Questa liminalità, rende il cannibale, agli occhi del resto della società di cui fa parte, un soggetto portatore di disordine, perché non mostra in maniera netta a quale categoria egli fa parte. Per una cultura, l’ambiguità è deleteria e come sostiene Mary Douglas il cibo può essere inteso come un codice che indica i differenti livelli di inclusione ed esclusione dai vari gruppi sociali, famigliari, religiosi e nazionali47: il cannibale, giocando con i codici alimentari comuni, li infrange mettendoli in discussione, riducendo da una parte il corpo umano a mera cosa da ingerire, e per un verso ricoprendolo di valore ed elevandolo quindi a massimo oggetto desiderabile. L’essere fuori dai codici alimentari, che sono anche e soprattutto etici e comportamentali,

47 si veda a riguardo M. Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di

riveste il cannibale di un’aura trasgressiva, e di conseguenza, dalla forte carica attrattiva. Da questo punto di vista, il personaggio di Hannibal Lecter, insieme ad altri che verranno analizzati più avanti, portato al successo da Anthony Hopkins nel film Il silenzio degli innocenti, costituisce l’esempio più lampante della doppia portata emotiva di cui il cannibale può farsi carico: repulsione e attrazione, disgusto e ammirazione. Nel corso del tempo, ed in particolare lungo la seconda metà del XX secolo sino ad oggi, la figura del cannibale e il cannibalismo sono state rivestiti di profondi contenuti metaforici, declinati nei più svariati ambiti, da quello intellettuale a quello artistico, denotando quindi quanto l’immagine dell’uomo che si ciba del suo simile possa essere flessibile e portatrice di significati profondi: da qui deriva la sua universalità per l’immaginario collettivo. L’idea di ispirazione marxista vede, ad esempio, il capitalismo come un processo socio-economico inarrestabile e destinato a divorare sé stesso; così come pure la stessa pop culture, strettamente connessa e nata proprio grazie al sistema capitalistico che ha investito la cultura in ogni suo aspetto, è vista come una “macchina assoluta” che, all’apice del suo sviluppo, non potrà far altro che cannibalizzare i suoi stessi prodotti.

spesso strettamente ma non esclusivamente legate al periodo storico in cui vengono concepite, assumendo i contorni di veri e propri manifesti, movimenti e orientamenti politici. In queste prospettive inedite si arriva anche ad avere una visione completamente antitetica rispetto all’idea comune del cannibalismo come segno di barbarie e soprattutto di sintomo negativo che riduce l’uomo ad animale. È questo il caso, ad esempio, dell’artista messicano Diego Rivera, personaggio circondato da un’aura mitica per i suoi atteggiamenti provocatori, che ipotizza una società futura in cui il consumo di carne umana non sarà più un tabù poiché gli uomini saranno liberi da qualsiasi pregiudizio morale e dalle credenze relative a tale pratica in virtù di un’assoluta mentalità razionale e pragmatica:

“Quando l’uomo si sarà evoluto verso una società più avanzata di quella attuale, che è meccanizzata ma ancora primitiva, - scrisse Diego Rivera nelle sue Memorie, - il consumo di carne umana sarà accettato. Perché per allora l’uomo si sarà liberato di tutti i tabù e delle superstizioni irrazionali”.48

Il cannibalismo viene rivestito quindi di un’aura intellettuale, colta e provocatoria, capace di simboleggiare le aperture culturali che determinati soggetti, principalmente giovani, schierati contro i poteri che in svariati ambiti erano considerati tradizionali ed

48 D. Rivera, Diego Rivera. Mi arte, mi vida. Una autobiografia hecha con la colaboraciòn

de Gladys March, Herrero, s.l. 1963, citato in Mary Roach, Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri, Einaudi, Torino 2005, p. 189

esclusivisti, cercavano di creare in un continuo rapporto con la società; l’antropofagia era l’impulso a fagocitare il vecchio della proprio cultura locale per restituirlo in un’altra forma inedita. Avviene il processo esattamente inverso denunciato da Montaigne quando crea il parallelismo fra i selvaggi cannibali che si nutrono esclusivamente dei loro simili, i nemici in battaglia, e le nazioni europee che avanzando l’una verso l’altra pretese di superiorità evitano il confronto e i rapporti internazionali: gli uni e gli altri, nutrendosi sempre dell’”uguale”, non fanno mai vera esperienza dell’altro-da-sé, dando vita ad un “cannibalismo culturale” barbaro, chiuso e ripiegato esclusivamente sui propri principi.

Non è un caso, quindi, che alla pop music e ai suoi rapporti con il mondo giovanile, la società dei consumi e la tradizione musicale fosse interessato il movimento tropicalista degli anni ‘60 (conosciuto in Brasile, la sua terra d’origine, come tropicàlia) che trovò nell’antropofagia intesa come “cannibalismo culturale” un sostegno teorico alle sue idee, soprattutto grazie alla riscoperta del Manifesto Antropòfago del 1928 del provocatore modernista Oswald De Andrade. La metafora del cannibalismo per i tropicalisti forniva un modello culturale aperto alle influenze esterne, soprattutto di matrice europea, che permetteva

di destituire i concetti vuoti e astorici di “brasilianità”, ma nello stesso tempo evitava di richiudersi su sé stesso in maniera nazionalista e tradizionalista; come riferisce Christopher Dunn, professore della Tulane University di New Orleans:

“Quarant’anni dopo, per i tropicalisti il cannibalismo rappresentò una chiave di rilettura della tradizione musicale brasiliana, alla luce degli sviluppi contemporanei del pop internazionale. Come osservò Veloso: <<l’idea di cannibalismo culturale ci va a pennello. Noi divoriamo infatti i Beatles e Jimi Hendrix>>”.49

Decenni dopo, in Italia il “cannibalismo culturale” trova ulteriore forma nella narrativa tramite una nuova generazione di scrittori che pubblicò le sue opere a partire dalla metà degli anni ’90. Ben presto le idee di questi autori, fra le cui fila si possono annoverare scrittori oggi conosciuti al grande pubblico come Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa, Isabella Santacroce e Aldo Nove, presero la forma di un vero e proprio movimento che, rifacendosi agli spunti polemici del cosiddetto Gruppo ’63, intendeva riformulare la letteratura italiana secondo canoni più attuali, sia dal punto di vista stilistico che tematico. L’obiettivo primario era quello di gettare uno sguardo totalmente disincantato sulla realtà principalmente italiana, nella quale la violenza, il sangue, la follia e il disagio venivano descritti come parte integrante e naturale di un mondo senza più direttive, e

49 C. Dunn, La tropicàlia, il sessantotto brasiliano, articolo apparso su sagarana.net,

soprattutto dal quale è impossibile trarre qualsiasi insegnamento morale. La brutalità e l’orrore annidati nei protagonisti delle storie e fra la società che queste storie volevano riflettere erano trattati con piglio disturbante e iperrealistico, che spesso e volentieri indugia nello splatter e in situazioni al limite del grottesco e dell’assurdo. Il cannibale, figura alla quale la critica di quegli anni avvicinò questi nuovi scrittori, assumeva quindi un doppio valore simbolico: di processo creativo e letterario che, rifacendosi ai modelli cosiddetti pulp in voga negli anni ’90 grazie alla poetica inaugurata con Pulp Fiction di Quentin Tarantino, fagocitava ogni sorta di stimolo, influenza, idea e linguaggio proveniente dagli ambiti più svariati della pop culture, dalla musica, al cinema sino alla pubblicità; di figura apocalittica crocevia di sentimenti ed umori riversati in personaggi continuamente ai margini, che trattano la violenza come parte integrante della loro vita e come un gioco, grazie ad una società che li ha avvezzi alla sua logica. Come si legge, infatti, dall’introduzione alla raccolta di racconti Gioventù cannibale pubblicata nel 1996 per l’allora semi-esordiente collana dell’Einaudi “Stile Libero” che raccoglieva alcuni di questi giovani autori:

“Fino a che il delitto è rimasto legato a un movente se ne sono occupati la cronaca, il romanzo giallo e i loro corrispondenti cinematografici. Dopo, invece, si sono rese necessarie nuove forme di narrazione per rendere conto del prevalere semplice e originario del sangue. Il moralismo a questo punto non basta e si rivela per quel che è, forma ed espressione del potere: strumento incapace di spiegare l’ambiguità che porta il desiderio a divenire motore di dolore e sopraffazione, o di raccontare come l’indifferenza sia il principale ingrediente dell’omicidio”.50

Gli scrittori “cannibali” italiani sfuggono alla morale, quindi: la loro narrativa si sviluppa attraverso la rottura del mero sistema binario di bene/male o giusto/ingiusto per porsi continuamente al limite di queste categorie, le quali oscillano e slittano a secondo di ambientazioni e personaggi ritenuti troppo complessi e sfaccettati e quindi automaticamente borderline. D’altronde, il porsi fuori dalle convenzioni sociali più consolidate è un tratto peculiare del cannibale, che nell’immaginario occidentale contemporaneo è spesso diviso continuamente fra umanità e bestialità, conformismo (anche esasperato) e rottura delle regole, proprio come Hannibal Lecter o Patrick Bateman, personaggio del romanzo di Bret Easton Ellis American Psycho, opera che ha esercitato fra l’altro una notevole influenza su questi autori italiani lungo gli anni ’90 e oltre.

Il cannibalismo, in particolare quello praticato dagli assassini

50 AA. VV., Gioventù cannibale. La prima antologia italiana dell’orrore estremo, D. Brolli

seriali e da altri soggetti ritenuti pericolosi, viene rievocato come tema ricorrente anche in altre forme musicali, anche se non come programma culturale e con intenzioni completamente differenti: basti pensare ad un genere come l’heavy metal e in particolare ad una delle sue forme più estreme, il death metal, che può annoverare formazioni musicali dai nomi esplicativi come gli americani Cannibal Corpse, i quali tramite ritmiche veloci e sostenute, suoni ribassati e molto distorti e testi espliciti dall’influenza prettamente gore e snuff, ricreano un’atmosfera violenta e brutale; o, in ambito rock, gruppi di successo come i Rammstein, che nel loro brano Mein Teil raccontano la vicenda di Armin Meiwes, assassino tedesco condannato all’ergastolo dopo aver confessato nel 2001 l’omicidio di Bernd-Jurgen Brandes, quest’ultimo conosciuto dopo aver postato su internet un annuncio in cui cercava una vittima che volesse deliberatamente essere uccisa e mangiata da lui.

Al di là di un uso prettamente evocativo, ma non per questo meno significativo ed indicativo di ciò che una tematica forte come il cannibalismo può suscitare, il cannibale è stato usato sino ad oggi in chiave simbolica anche in alcuni scenari post- apocalittici per rappresentare il collasso della società occidentale e la sua crisi espressa da vari punti di vista. L’interpretazione

ecologica, ad esempio, è una delle più adottate, tramite pellicole come 2022: I Sopravvissuti (titolo originale: Soylent Green, tratto dal romanzo Make Room! Make Room! di Harry Harrison), uscito nel 1973 in pieno dibattito sull’esplosione demografica e sui rischi di un sempre maggiore sfruttamento delle risorse del pianeta da parte della società industriale, o come la serie di

romanzi MaddAddam Trilogy51 della scrittrice Margaret Atwood,

la quale ha sfruttato l’immagine del cannibalismo come allegoria del capitalismo e del dominio tecnologico sul pianeta e sull’uomo stesso. In entrambi questi prodotti culturali, il cannibalismo è conseguenza di un’idea autarchica da parte dell’uomo sull’ambiente circostante, ovvero una continua e meticolosa ricerca di svincolarsi dalla natura e da qualsiasi idea di contaminazione con l’esterno per raggiungere una completa autonomia delle risorse, dove la tecnologia gioca naturalmente un ruolo centrale. Il cannibalismo è raffigurato allora come diretta conseguenza di questa sorta di hybris, acquisendo la doppia valenza di “salvezza”, poiché la carne umana sarebbe l’ultima spiaggia alla quale ricorrere per sopravvivere, e “dannazione”, ovvero sintomo di una società rivolta ormai al collasso. Le risposte a questo doppio movimento sono messe in

51 I romanzi che compongono la trilogia sono: Oryx and Crake, The Year Of The Flood e

scena in maniera differente sia da Atwood che dalla pellicola, ma per entrambi si può affermare che il cannibalismo è:

“[…] impiegato come metafora dell’atteggiamento di ricerca di autonomia assoluta e di potere umano sul mondo natura- le, ma allo stesso tempo si trasforma in una contaminazione aberrante e autodistruttrice. Come i romanzi di Atwood ci mostrano, è impossibile risolvere la crisi ecologica e alimentare esclusivamente con la tecnologia, senza rivedere

le proprie insostenibili abitudini di consumo”.52

L’interpretazione in chiave ecologica del cannibalismo ha, in seguito, trovato terreno fertile presso i movimenti vegani, vegetariani e di consumo alternativo, poiché si adatta perfettamente al messaggio che vedrebbe il consumo di carne come deleterio sia per chi la mangia e sia per l’ambiente nel quale viene prodotta, interpretando la macellazione e il trattamento della carne animale in una chiave morale, ovvero come vero e proprio omicidio e atto di sofferenza verso le altre specie viventi. I “carnivori umani” sarebbero quindi degli assassini, destinati a uccidersi per divorarsi reciprocamente nella

convulsa ricerca di soddisfare il loro appetito di carne53.

Le ambientazioni post-apocalittiche fungono da scenari perfetti nel mostrare come una società reagisce alla catastrofe per tentare

52 A. Tiengo, Cannibalismo e metafore di consumo. Da Robinson Crusoe a Margaret

Atwood, in Contaminazioni ecologiche. Cibi, nature e culture, in D. Fargione e S. Iovino

(a cura di), LED-Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2015

53 La federazione vegetariana tedesca, la Vegetarierbund Deutschland, concepì nel 2010

una campagna di viral fake marketing in cui si promuoveva il Flimè, ristorante berlinese in cui gli avventori potevano decidere liberamente di donare parti del loro corpo per essere inserite nel menù del locale. La falsa campagna pubblicitaria, con tanto di video su youtube, ebbe molto successo, veicolando il messaggio “meats eat peole”, ovvero che la

di ricostituire i propri legami ormai dissolti, e per dare forma visibile e tangibile alle paure che percorrono sotterranee quel tipo di società. L’orrore contro cui i protagonisti di questi scenari sono costretti a scontrarsi è funzionale ad una presa di coscienza sul loro ruolo nel mondo, su come si possano costituire i valori fondanti di una società e su una riflessione spesso auto critica per non ricadere negli errori del passato che hanno prodotto la catastrofe. Il disastro, naturale o artificiale che sia, costituisce il punto da cui ripartire, la catarsi di un mondo purificato da una visione prettamente antropocentrica dove ogni sistema è da ricostituire; proprio per questo, visto che la vita umana non è più regolata dalle istituzioni e dai doveri che queste esigono, l’uomo mostrerebbe ciò che “realmente è”. Nei mondi post-apocalittici non vi sono leggi morali kantiane da introiettare e alle quali adeguarsi: la scelta ricade fra uno stato barbarico di continua lotta di tutti contro tutti o nell’affidarsi ad una debole forma di empatia che i sopravvissuti sperano risieda ancora e che ricercano fra loro per superare diffidenze reciproche e paure. Il romanzo La strada dell’americano Cormac McCarthy (titolo originale The Road, pubblicato nel 2006), così come la sua trasposizione cinematografica, si pone all’interno di questa tradizione narrativa post-apocalittica, affrontata però in maniera

molto più drammatica e realistica a cominciare dai suoi protagonisti, un padre e suo figlio, personaggi comuni, anti-eroi per eccellenza senza nessuna particolare caratteristica che li possa contraddistinguere. In un contesto in cui il mondo è ormai al collasso, i due personaggi hanno un solo obbiettivo: sopravvivere alle avversità atmosferiche, alla perenne mancanza di cibo e cercando di evitare ogni possibile contatto umano per non correre il rischio di essere uccisi e mangiati da bande di predoni. La vicenda è raccontata con un linguaggio crudo, quasi minimale, concedendo molto poco alle descrizioni dell’ambiente e dei personaggi ma concentrandosi invece sulla loro interiorità, sulle emozioni e i pensieri che il collasso del mondo ha posto dinanzi a loro. La vicenda assume contorni a tratti metafisici, poiché l’autore non specifica né il tempo né il luogo della vicenda, così come le cause della catastrofe, ed inoltre, elemento ancora più significativo, non da un nome e un volto particolari a nessuno dei personaggi della storia. Questa mancanza di coordinate pone la storia su un piano potenzialmente universale, permettendo di connotarla sotto un aspetto simbolico e metaforico: i due protagonisti, esseri umani comuni, uniti da uno stretto vincolo di parentela, preservano un’idea della vita completamente all’opposto di quella ormai venuta a delinearsi

dopo la catastrofe, ovvero un’idea che mette al centro non ideali di civiltà, eroismo, valore e coraggio, bensì il semplice legame fra gli esseri umani, a cominciare da quello famigliare. L’autore sembra suggerire che solo partendo da questo tipo di legame, quello che vede coinvolto un padre con il proprio figlio con tutto ciò che comporta in termini di sentimenti, cura e protezione, si potrà allora ricostituire il mondo dell’uomo. Il cannibalismo di alcuni sopravvissuti si pone all’antitesi di questa visione: il consumo di carne umana è dettato esclusivamente dalle critiche condizioni di sopravvivenza e dalla scarsità di cibo, ma se pur comprensibile da questo punto di vista, chi è dedito all’antropofagia sembra ormai condannato e, nello stesso tempo, condanna il mondo ad una lenta regressione in un’epoca pre- civilizzata e barbarica.

“Poco più avanti c’era un muro con un fregio di teste umane […] I denti nei loro alveoli come calchi da laboratorio, i tatuaggi grossolani realizzati con qualche tintura casalinga, scoloriti da un sole esangue. Ragni, spade, scudi. Un drago. Iscrizioni runiche, massime piene di errori ortografici. Vecchie cicatrici con antichi motivi ricamati lungo i bordi. Le teste che non erano state deformate dai colpi di mazza erano state scuoiate, i teschi dipinti e firmati con uno scarabocchio sulla fronte, e uno di questi, bianchissimo, aveva le suture fra