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La costruzione dell’altro: il cannibalismo fra società e identità

CAPITOLO SECONDO: LO SGUARDO ANTROPOLOGICO SUL CANNIBALISMO

2.3 La costruzione dell’altro: il cannibalismo fra società e identità

Possiamo oggi parlare di universalità del cannibalismo? Qui il dibattito ruota attorno al perno della ritualità e dei costumi da un lato, dall’altro sulla alterità e l’identità. La visione completa e coerente senza conferire giudizi di valore è quanto mai auspicata. I campi di significati che l’uomo disegna col cannibalismo sono tanti e sono diversificati secondo le diverse etnie: sono diversi gli approcci alla vita e alla morte, la visione generale della realtà, il rapporto con gli altri individui, la costruzione di nuovi modelli di riferimento.

Una produzione culturale che va studiata non solo col rilievo antropologico o paleoantropologico, bensì, da quello dell’analisi sociologica.

Quando si tratta il tema del cannibalismo si entra nel campo minato dell’identità e della sua progressiva retrocessione verso l’alterità. I processi di comprensione o anche di assimilazione non sono automatici, poiché parlare in modo generico di integrazione non potrebbe aiutare una lettura del reale.

Il noi e l’altro, l’uguale ed il diverso, sono categorie che non solo in questo dominio vanno contemplate in maniera quanto più possibile completa. L’uomo cannibale ha in sé la propria costruzione in un quadro di senso, in una comunità o in una rete che si trova ad essere tale dalla nascita o acquisita evolutivamente. La commistione di fattori religiosi, culturali e sociali sono per l’uomo cannibale il processo identitario. Oggi, comprendere il cannibalismo, quindi, implica comprendere processi molto complessi che rischiano di rimanere oscurati da una lettura superficiale di semplice causa-effetto dovuta dall’equazione culturale che porta a vedere le popolazioni tribali intrappolate ancora in uno stato animalesco e quindi, automaticamente, come tendenti all’antropofagia. È bene ribadire, quindi, che è opportuno osservare il fenomeno da più punti di vista, e in particolare da una prospettiva sociologica. In passato, come si è visto, molti libri sono stati scritti a scopo apologetico o denigratorio su questo tema; le facili costruzioni che si sono fatte intorno al cannibalismo sono state il segno evidente di quanto questa tematica sia fondamentale proprio perché mette sotto una luce inedita la nostra identità e la sua costruzione. La codificazione identitaria, è giusto ribadirlo, è il primo sistema da affrontare.

“Nessuna società è profondamente buona e nessuna è assolutamente cattiva. Prendiamo il caso dell’antropofagia che, di tutti gli usi selvaggi è senza dubbio quello che ci ispira più orrore e disgusto. Bisognerà prima di tutto dissociarne le forme propriamente alimentari, cioè quelle per cui l’appetito della carne umana si spiega con la mancanza di altro nutrimento animale, come in alcune isole polinesiane. Da quella fame violenta nessuna società è moralmente protetta; la fame può spingere gli uomini a mangiare qualsiasi

cosa e ne è prova l’esempio recente dei campi di sterminio”.39

L’universo simbolico che comprende il cannibalismo è vastissimo, è un fenomeno importante che riguarda la continuità e la salvaguardia del gruppo sociale. Ovviamente, bisogna prescindere dai casi di carestia, situazioni limite o situazioni isolate: si è evidenziato come il cannibalismo risponda a regole precise di un dato gruppo, proceda attraverso razionali procedimenti come la distinzione delle parti del corpo fra quelle che possono essere mangiate e quelle invece da evitare, o la predisposizione di diverse modalità di preparazione delle carni. Le categorie, quindi, non sono assolute, ma devono e possono essere contestualizzabili. Lo scopo magico e religioso è ben diverso dalla necessità biologica, l’assoluta mancanza di cibo è ben differente dalla voglia di sopraffazione del nemico o dalla simbologia magica.

Tra le tante testimonianze a noi pervenute, anche il ricercatore ed esploratore Hans Staden ebbe a raccontare la propria esperienza

con popolazioni cannibali, in particolare brasiliane, in seguito ad una sua osservazione diretta del fenomeno, e molti testi sull’argomento rimandano in continuazione ai suoi racconti tanto da essere divenuti ormai alquanto emblematici:

“Venne il momento di bere per la morte dello schiavo; perché questa è la loro usanza. Quando decidono di mangiare un uomo, preparano con le radici una bevanda che chiamano cauim, e solo quando il cauim è completamente bevuto uccidono la vittima. Gli dissi sono anch’io un prigioniero come te, e non sono venuto qui per mangiarti, ma i miei padroni mi hanno portato con sé, mi rispose che sapeva bene

come la nostra gente non mangiasse carne umana”.40

Nel corso della storia, visto l’ampio materiale documentario, vi sono sempre le stesse costanti: l’approccio dei mores del cannibale è quasi sempre identico.

L’apporto della sociologia può essere fondamentale, poiché analizza gli aspetti nella sua complessità: un fenomeno viene letto e calato nel proprio sistema, nel proprio ambiente. Ciò va fatto naturalmente anche per il cannibalismo senza farsi trascinare da frettolose stigmatizzazioni verso il diverso.

Qui non si vuole agevolare la retorica in difesa del diverso come categoria: si vuole, senza dubbio, cercare di leggere il fenomeno del cannibalismo in base ai dati storici e scientifici e non in base a categorizzazioni culturali estranee al fenomeno, le quali

possono assumere varie forme (quella politica innanzitutto) e derivare non di meno da un fondo psicologico che etichetta inevitabilmente questa pratica come brutale e sanguinaria.

Qui ci viene in soccorso lo studioso Francesco Remotti ed il suo approccio “contro l’identità”, che è anche il titolo, assai eloquente, di una sua famosa pubblicazione. Remotti ha spaziato in molti ambiti dell’antropologia e uno degli elementi centrali del suo lavoro è la riflessione teorica e filosofica sui significati e sulle implicazioni dell’antropologia, sia nel momento in cui essa posa il suo sguardo sulle altre culture, sia quando l’antropologo si volta e rivolge la sua attenzione alla cultura e alla società da cui proviene. L’oggetto della sua riflessione critica sono, dunque, i rapporti tra chi produce il sapere antropologico e l’oggetto del suo studio.

Un concetto importante sviluppato da Remotti è quello dell’antropopoiesi, cioè della formazione dell’essere umano

inteso come un soggetto continuamente in divenire.41

Da un punto di vista biologico, il concetto è incentrato sull’idea che l’uomo, a differenza degli altri animali, alla nascita è un essere incompleto in quanto non possiede un’informazione

41 Oltre a Remotti, un altro punto di vista di grande interesse può essere quello di R.

Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2005, che, partendo dal concetto di incompletezza umana, vuole sottolineare come oggi si possa andare sempre più oltre una vuota idea essenzialistica dell’uomo grazie a forme ibridative con l’alterità tecnologica.

genetica che determina come rispondere agli stimoli che gli provengono dall’ambiente in cui vive, ma la sua dimensione umana si completa solo con l’acquisizione della sua componente culturale. A tal proposito è molto interessante l’intervento di Cramer, scienziato, sull’idea di Remotti:

“Da biologo osservo che questa incompletezza non è certo un difetto o una manchevolezza della nostra specie, ma ne costituisce anzi il punto di forza in quanto permette all’uomo di adattarsi all’ambiente in cui si trova in modo molto flessibile, variando il tipo di risposta in funzione del contesto. Tutto questo implica che la formazione dell’uomo richiede un lungo processo di apprendimento della propria specifica dimensione culturale per la cui realizzazione viene spesa più di un quarto della vita”.42

In seno a questi processi di apprendimento va inserito il cannibalismo, la sua genesi ed il suo sviluppo.

Ancora oggi vi sono approcci giornalistici che non tengono conto della complessità del fenomeno e tendono a portare il cannibalismo sulle secche della leggenda, del racconto sensazionalistico o del peggior film horror. Letture del genere vanno evitate in nome non solo di una maggiore possibilità di comprensione di un fenomeno ancora per la maggior parte oscuro, ma anche per la possibilità di poter restituire piena valenza culturale ad una pratica che ai nostri occhi risulterà assolutamente vietata ma che rispecchia invece per altre culture

una parte consistente del loro mondo. Naturalmente non si vuole far diventare il cannibalismo una bandiera usandolo come vessillo di un vuoto e retorico “rispetto culturale”: la questione va ben al di là del semplice rispetto e riguarda la nostra capacità di comprensione di un fenomeno che ci ha sempre riguardato e ci riguarda ancora. Le paure e le inquietudini che questa tema è capace di suscitare nella contemporaneità possono essere comprensibili ma solo in un’ottica prettamente metaforica per tentare di spiegare alcune particolari dinamiche psichiche, poiché la vista del sangue e della carne ingerita di un nostro simile ci ricorda come i semi dell’autodistruzione siano sempre presenti su più livelli, da quello personale, per quanto riguarda l’identità del singolo, a quello sociale, con il venir meno di leggi e norme condivise che consentirebbero il vivere comune e che condurrebbero invece al collasso.

Il cannibalismo antropofagico è, quindi, indubbiamente un elemento identitario. Creare un'identità è un mezzo per opporsi e adattarsi alle risorse di un determinato gruppo in un certo periodo temporale, e allo stesso tempo tale creazione è un obiettivo, non più solo un mezzo, ed in quanto tale è perseguito costantemente dal popolo che vi appartiene. Ciò che impedisce a questo processo di fossilizzarsi in un fallimento strutturato è il confronto

continuo con l'alterità che nutre, e di cui si nutre costantemente, grazie ai continui processi di rinegoziazione. Questa teoria dimostra, inoltre, come sia impossibile utopicamente realizzare un'identità statica, pura e immutabile e, di conseguenza, quanto siano impossibilitati all'esistenza i concetti razziali che negli anni, politicamente e spesso dal punto di vista religioso, hanno dato origine a conflitti sanguinosi e inutili al fine di creare la propria identità.

Attraverso l'analisi si possono ripercorrere le tappe della creazione di ogni identità ed analizzare le scelte formative e il ventaglio di possibilità utilizzate e scartate dall'essere che si veste di tali "caratteristiche". Si possono quindi analizzare le molteplicità, le opposizioni ed i confini che hanno dato origine a questo e non a quel tipo di culturalità, e viceversa.

In questa prospettiva, il cannibalismo diventa, quindi, molto più che una semplice metafora: è un vero e proprio processo che ribadisce e richiama continuamente, attraverso il suo farsi, i labili confini che dividono il “noi” dal “loro”. Come esplicitato da Remotti, il cannibalismo comporta letteralmente del cibarsi dell’alterità ed anche del morire nell’alterità, due movimenti oscillatori che uniscono inestricabilmente fra loro le popolazioni

che adottavano tale pratica, che si trovavano inserite all’interno di questo processo in maniera necessaria.

“Per meglio dire, è la costruzione non di un’identità isolata, bensì di un piano di opposizione in cui la guerra e la vendetta segnano confini, definendo nettamente i “noi” e gli “altri” e in cui, tuttavia, il cannibalismo non lascia intatte e separate le singole unità, ma le avvinghia in un rapporto di coinvolgimento reciproco senza fine. Partiti con la riaffermazione esclusiva della propria identità, A e B finiscono con l’andare ben “oltre l’identità”, in quanto si trovano ad agire entro una logica per la quale l’identità (sia essa A o B) è continuamente affrontata e insidiata dall’alterità e in cui, anzi, l’alterità si installa nel cuore stesso

dell’identità, nella sua formazione, nel suo destino.”43

Le tribù dei Tubinamba del Brasile prese in considerazione da Remotti (poiché sono quelle di cui ci sono giunte maggiori testimonianze) che praticavano il cannibalismo per vendetta verso i nemici, mettono in atto una e vera e propria “rappresentazione”, un atto di “finzione” che coinvolge vincitori e vinti, dotandoli di particolari ruoli e azioni che permettono di contestualizzare l’atto cannibalico nella cornice della costruzione dell’identità e dell’alterità, e che nasce proprio da un forte senso di reciprocità che sembra essere presente sin dalle origini dell’atto cannibalico così come raccontato nelle storie stesse di quei popoli. Quando un prigioniero è condotto nel villaggio dei vincitori si innesca un procedimento a tappe, scandito secondo

significati identitari ben precisi volti a rendere l’alterità del prigioniero sempre meno estranea e più vicina invece all’identità dei vincitori, i quali fanno in modo che il loro prigioniero si trovi in una situazione intermedia, una specie di limbo identitario dal quale non può sottrarsi perché ormai troppo lontano dalla sua tribù d’origine (gli “altri” per l’appunto) ma neanche troppo “vicino” alla tribù dei suoi carnefici, i quali lo vedono comunque come estraneo, nonostante lo trattino come se fosse uno di loro per un certo periodo di tempo. Questo complesso meccanismo, che via via prende sempre più le sembianze di un gioco, si risolve con l’ingerimento effettivo del corpo, un atto finale che ricaccia in maniera netta e totale il prigioniero, cioè l’”altro”, nella sua incommensurabile alterità. Alla fine, secondo Remotti:

“Si tratta allora di un’incorporazione che denota un’attribuzione di valore, non semplicemente umiliazione e disprezzo […] D’altra parte, il prigioniero B o A trova la sua tomba nella “cultura” dei suoi nemici: anche per questo risulta essere un grande onore morire nell’alterità. Ci si potrebbe spingere fino al punto di affermare che in questa ferrea logica della reciprocità e del movimento alternante e oscillatorio entrambi i gruppi traggono vantaggi consistenti dall’alterità, al di là della vendetta e dell’onore (valori tipici dell’identità): essi reciprocamente si cibano dell’alterità offerta dagli altri (quando sono essi a mangiare il nemico), acquisendo la sostanza dell’alterità, e (quando tocca a loro essere mangiati) fruiscono di una sepoltura che non è un semplice dimenticatoio nella natura, ma è invece fattore e

motivo di scambio incessante tra i due gruppi.”44

Questo turbine continuo fra coloro che vengono mangiati e coloro che invece si cibano degli altri, ammette ancora Remotti, produce vertigine: un sottile gioco di specchi dove l’”altro” è perennemente rispecchiato in “noi” e viceversa. Una vertigine che, per quanto significativa e complessa, non può esimersi da una certa dose di “pazzia”, che l’antropologo italiano fa coincidere con il “non rendersi conto” del vicolo cieco che le popolazioni avversarie hanno contribuito reciprocamente a costruire a causa delle loro esasperate esigenze di alimentare le rispettive identità. La caratteristica del “non rendersi conto” la si ritrova in una canzone che un prigioniero recita ogni volta che viene sconfitto, così come riportato da Montaigne:

“Io posseggo una canzone composta da un prigioniero, in cui si trova questo tratto saliente: che vengano pure arditamente tutti quanti e si radunino per mangiarlo; mangeranno, così, al tempo stesso, i loro padri e i loro avi, che hanno servito di alimento e di nutrimento al suo corpo. <<Questi muscoli>> dice <<questa carne e queste vene sono i vostri, poveri pazzi che siete; non vi rendete conto che dentro vi è ancora la sostanza delle membra dei vostri antenati: assapora teli bene, vi troverete il sapore della vostra stessa carne>>. Idea questa

che non ha niente di barbarico.”45

Come già fatto notare dal filosofo francese, non si tratta di nulla di barbarico. Ma questo non toglie che le parole del canto del prigioniero denuncino l’aspetto tragico della contrapposizione delle identità che, dominate da questa strana forma di “pazzia”

identitaria, non si rendono conto dell’arbitrarietà ed anche di quanto possa risultare controproducente continuare in questa guerra perenne per imporre sé stessi. Il cannibalismo, quindi, viene rivestito anche di una patina tragica, sottratto all’immaginario sanguinario e violento al quale viene continuamente associato per rappresentare invece, come dice Remotti, “il complesso del dramma” in cui un prigioniero si trova intrappolato:

“forse è una denuncia della logica (barbarica?) in cui si trovano irretiti sia il gruppo A sia il gruppo B. Quel <<non vi rendete conto>>, rivolto ad A potrebbe allora essere generalizzato e trasformato in un “poveri pazzi che siamo, non ci rendiamo conto”: perché gli stessi motivi di pazzia che il prigioniero B rinfaccia ad A possono essere ugualmente

rivolti da un prigioniero A al gruppo B.”46

La disamina di Remotti ha mostrato, quindi, un aspetto teorico inedito del cannibalismo e che, se non opportunamente contestualizzato, sarebbe alquanto complesso da cogliere.

L’impostazione sociologica, e non esclusivamente

un’impostazione logica, quindi, può essere la chiave adeguata per comprendere appieno il morso che ingurgita l’alterità, un sistema in un determinato ambiente sociale, il “non-senso” nella sua concatenazione nel reale, per quanto di difficile metabolizzazione possa sempre restare agli occhi di chi osserva.

CAPITOLO TERZO: CANNIBALI E