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L’apparente declino della Videoarte

Già nella seconda metà degli anni settanta, mentre nascono le prime videoteche e le prime sezioni di musei dedicate all’arte video, molte cose stanno cambiando. In questa fase, quella che abbraccia gli anni Ottanta, l’impulso della ricerca video come espansione dell’area delle arti visuali continua a registrare, in un primo momento, un decremento che aveva preso avvio sotto la pressione del ritorno delle immagini materiali dell’Espressionismo Astratto, e vi è un progressivo ritorno alla pittura e alla scultura.

Indubbio è un cambiamento di atteggiamento e di aspettative, ma dietro questa empasse si cela un cambiamento di paradigma. Il confronto tra arte e tecnologia è quanto mai attivo, così come l’assorbimento delle potenzialità dei nuovi strumenti tecnici da parte dell’arte, infatti, come afferma Angela Madesani: “è proprio in questo momento che nascono i video-artisti in senso stretto” (Madesani, 2002 p. 121). La sperimentazione video non si arresta, anzi, sembra liberata da una troppo stretta dipendenza a modelli e stereotipi esterni ad essa. Il nuovo contesto tecnologico lascia intravedere l’aprirsi di un periodo nuovo, nel quale le sperimentazioni sul trattamento delle immagini del biennio Sessanta-Settanta vengono largamente superate; il video, sganciato dall’essere un linguaggio autonomo, può essere utilizzato in maniera diversa ed inserito in complesse

installazioni multimediali. Le sperimentazioni ed il rilancio della pratica video vengono diffuse e presenti in molteplici forme: videopoema, videonarrazione, videopolitico, videodanza, video e musica, videoinstallazioni sono settori di sperimentazioni dove il video è rilanciato, divenendo supporto ideale e principale. Il video rappresenta il supporto ideale per visualizzare movimenti, insieme di idee e sensazioni, estensioni nel tempo di pratiche di arti plastiche. Il video degli anni ottanta guarda con curiosità alle peculiarità della televisione, adesso appare pacifico che la televisione può essere una canale appropriato per la circolazione della ricerca video; la televisione viene semplicemente vista come medium attraverso il quale una ricerca specifica può raggiungere un largo pubblico.

I modelli della comunicazione televisiva sono in grado di esercitare una loro influenza che il videoartista è in grado di assumere e governare criticamente. I videoartisti degli anni ottanta sono al di là di ogni ottimismo o pessimismo tecnologico, non si interrogano più sulla portata del mezzo, ma cercano solo di utilizzarlo al meglio. Essi possiedono una coscienza lucida dell’esilità delle risposte che il video può offrire, conoscono però anche la sottile forza penetrativa dell’immagine nel tempo che il video propone, un’immagine che è forza strutturale, come un’architettura della visione.

Uno degli artisti più riconosciuti ad aver operato nel corso degli anni Ottanta è Gary Hill. Egli nasce come scultore e si approccia al video proprio negli anni di stanca della videoarte, viaggiando, per questo, contro corrente. Il suo lavoro comincia con l’esplorare le proprietà formali del nuovo mezzo di comunicazione, soprattutto attraverso la combinazione degli elementi visivi e sonori. Queste indagini l’avrebbero condotto verso ricerche uniche nel campo della linguistica e della percezione, ivi comprese le inchieste empiriche “Why Do Things Get in a Muddle?” (1984), “URA ARU” (1985-86) e “Incidence of Catastrophe Catastrophe” (1987-88), che offrono articolazioni sonore ad introspezioni filosofiche e poetiche. Hill vi compone ed armonizza con inedita maestria, immagine, suono, scultura, parola, scritta e parlata. Negli anni Ottanta il suo interesse si sposta, verso l’aspetto processuale del video, indagando la forza semantica delle nuove

tecnologie e coinvolgendo le infinite combinazioni tra elementi visivi, sonori e verbali. Hill ha fatto del rapporto tra suono-immagine elettronica e linguaggio (oralità e testo scritto) il centro della propria ricerca artistica; ha lavorato quindi sull’interazione tra modalità diverse di comunicazione e rappresentazione; pagine di libri, parole, corpi frammentati e silenziosi, letture ad altra voce si alternano nei testi visivi delle sue opere. Egli messcola analogico e digitale, cercando di valutare la funzione dell’immagine informatica come sviluppo ulteriore dell’immagine video, in una interrogazione inquieta sul come collocare i linguaggi audiovisivi in una stretta adesione all’arte plastica da una parte, all’area mediatica dall’altra. Il suo è un lavoro complesso ed articolato riconosciuto dalla critica internazionale, dove pensiero e immagine, parola e suono sono i codici linguistici che l’artista smembra, decostruisce, poi dilata, nella sinestesia dei diversi media, in un articolato coinvolgimento di altre dimensioni: psichiche, biologiche e cibernetiche. Libero da vincoli, il suo lavoro è quindi aperto alla sfida e al confronto con le culture del passato. Più di qualsiasi altro artista, Gary Hill riesce ad impiegare la tecnologia per creare l’aura della presenza fisica. Molti suoi video mostrano personaggi che sembrano così reali da dare la sensazione di essere davvero presenti.

1. 11 Video-arte e digitale

La diffusione del digitale rappresenta la grande evoluzione del fenomeno videoartistico, così come rappresenterà un cambio di paradigma per tutto ciò che concerne il contesto tecnologico e progettuale.

Dall’elettronica analogica, in cui l’immagine è prodotta dai cambiamenti di voltaggio, la tecnologia video si è poi evoluta nell’elettronica digitale, in cui il segnale elettronico è costruito con piccoli frammenti d’immagine, i pixel, recuperati a determinati intervalli5.

5 Nella fattispecie la differenza sta nel fatto che il video analogico ha una codifica simile (analoga) alla realtà

stessa, si basa su un segnale di tipo continuo, cioè senza soluzione di continuità ed è memorizzato su supporto magnetico (nastro videocassette); mentre il video digitale ha una codifica di tipo discreto (segnale non continuo) e i supporti possono essere sia di tipo magnetico (hard disk) o ottico (CD-Rom e DVD-Rom). Ogni informazione è tradotta in una serie di numeri 0-1 (bit) combinati senza un effettivo “referente reale”. Ogni punto di un’ immagine ha un suo specifico colore e solo quello (le sfumature di colore sono solo

Come precedentemente accennato, alla fine degli anni settanta, il progresso tecnologico partorisce diverse nuove attrezzature per la manipolazione e il controllo dell’immagine elettronica, ma l’accesso degli artisti a queste nuove potenziali frontiere è spesso precluso dagli ancora proibitivi costi. Intorno alla metà degli anni ottanta, la nuova generazione di tecnologia low-cost avviò progressivamente l’uso di queste nuove strumentazioni da parte di numerosi artisti per i quali, inevitabile fu l’approccio alle prospettive inusuali che questa nuova realtà tecnologica offriva loro.

Una delle prime esperienze di questo tipo fu il video “Mont Fuji”, realizzato nel 1985 dall’artista giapponese Ko Nakajima, nel quale l’immagine del monte è riprodotta infinite volte sullo schermo, sino a formare un cubo sulle cui facce sono visibili tante piccole riproduzioni, ma il valore referenziale di queste immagini viene cancellato nelle fluttuazioni prospettiche e percettive messe in opera dall’artista e mostra gli orizzonti futuribili aperti al mondo digitale. Rebecca Allen, e Vibeke Sorensen sono altri fra i relativamente pochi artisti che sono in grado di utilizzare efficacemente questi strumenti. Molti artisti si rivelano interessati, più al grado di interattività popolarizzato nella tecnologia dei videogame, che alle tecniche dell’animazione tridimensionale.

Il sistema che ha incrementato questa estetica è una versione successiva del GRASS che sviluppato dalla Bally Corporation. Copper Giloth e Jane Veeder sono fra coloro i quali hanno utilizzato “ZGRASS” per i videogiochi come installazioni che sono divenute una forma d’arte di massa6.

Tra i primi artisti ad attraversare la soglia dell’era digitale troviamo gli inglesi Clive Gilliman e Lei Cox, i quali producono le loro Video-opere in maniera analogica ed intervengono in fase di post-produzione sperimentando le nascenti tecniche digitali.

simulate attraverso la dimensione estremamente piccola e ravvicinata dei pixel che formano l’immagine).

6 Il Warpitout di Veeder (1982), che costituiva un’elaborazione grafica della viso dei partecipanti, è fra le più

La vera e propria rivoluzione che la tecnologia digitale ha apportato nel mondo della videoarte è, però, rappresentata dalla trasformazione del concetto di relazione tra immagine e realtà e quella tra rappresentazione e il suo autore.

Il computer è considerato una macchina universale, un meta-medium capace di inglobare in sé tutti i media e precedenti, esso contiene parole, suoni, immagini, animazione, cinema, ogni forma mediale. Questa sua capacità di diventare molte cose pur non essendo realmente nessuna di esse, nel gergo informatico è definita “virtualità” che dal latino significa “di grande potenzialità”. Come sostiene Gene Youngblood:

“uno strumento virtuale rimpiazza le cose con le regole delle cose, una teoria scientifica riproduce virtualmente fenomeni naturali incorporando matematicamente le loro leggi” (Youngblood, 1970, p. 161)

L’entità virtuale è dunque un “simulacro” che produce imitazione o finzione in assenza del fatto reale. E’ questa la grande caratteristica del digitale. Con esso le immagini possono essere prodotte o simulate dal nulla, non vi è più un rapporto diretto tra la realtà e l’immagine, con l’inevitabile conseguenza della perdita del potere dell’autore sulla propria rappresentazione. Nelle pratiche di rappresentazione digitale non vi è più un unico punto di vista come nella prospettiva lineare, piuttosto ciò che potremmo definire dei “contesti visivi”. Il realismo, all’interno di questo sistema di rappresentazione, è solo uno dei possibili modi. Il computer, in sintesi permette di simulare sullo schermo un intervento della telecamera senza che vi sia però alcuna telecamera.

La nuova tecnologia spezzando questo legame che univa l’immagine prodotta dai mezzi di riproduzione del visibile alla realtà, determina un nuovo modo di concepire la rappresentazione in cui l’immagine è semplicemente un modello informatico e quindi una “interpretazione” possibile della realtà stessa.

Nel linguaggio digitale, infatti, vi è un linguaggio informatico e l’immagine da quest’ultimo creata diventa una “rappresentazione senza sguardo”. (cfr. Youngblood, 1970)

Il nuovo approccio al visivo dischiude un non-luogo illusorio, non più legato allo spazio fisico ma unicamente al tempo, un mondo mentale, o meglio, per usare la terminologia di Bill Viola, uno “spazio concettuale” (Viola, Bellour, 1989)

Dato che l’unico referente dell’immagine nel trattamento digitale è l’immagine stessa, essa si trasforma di conseguenza in un oggetto a sé stante: accanto all’immagine bidimensionale comune a tutti i processi di rappresentazione utilizzati sino a quel momento dalla cultura figurativa, si costruisce ora una rappresentazione tridimensionale, una tridimensionalità priva di spessore che obbedisce al canone prospettico, però lo fa moltiplicando all’infinito i punti di vista. Il digitale, in sintesi, ha ampliato il codice visivo della contemporaneità. Le tecnologie attuali permettono quindi di rilanciare in termini maggiormente costruttivi le utopie delle avanguardie artistiche di inizio secolo: la conquista della libertà per mezzo della bellezza che costituiva il loro programma, oggi può finalmente trasformarsi in una pratica della libertà per mezzo degli strumenti della comunicazione; per la sua struttura il computer è un mezzo ugualitario perché interattivo e facilmente utilizzabile da chiunque.

Le immagini prodotte con strategie di tipo generativo sono immagini fluide, frutto di una momentanea cattura di un flusso di informazioni, messe in forma attraverso un lavoro sull'interfaccia, una sorta di "design del processo" che da vita più che ad immagini, video, suono, a meta-dati: immagini, video, suono in potenza.

Queste immagini sembrano rispondere a processi emersi in concomitanza con lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie digitali e delle logiche computazionali di produzione. Nel design generativo le forme visuali sono visualizzazioni ottenute come risultato di un processo di computazione, presieduto da sistemi formali di regole implementati mediante diversi linguaggi di programmazione e piattaforme tecnologiche.

In molti lavori generativi la forma prodotta scaturisce da un procedimento strutturante i cui esiti sono solo parzialmente previsti dal progettista, che si limita a elaborare una sorta di "ipotesi configurativa" per poi lasciar sviluppare autonomamente il processo di computazione e di visualizzazione. Ogni immagine,

in ogni suo minimo dettaglio è processo: è un'immagine-processo un’immagine che si articola come processo, non un processo reso visibile mediante immagini. Dalla manipolazione e dalla configurazione delle forme visuali il progettista sposta dunque la sua attenzione dai meccanismi sottostanti ai modi della loro visualizzazione. Tali forme trovano nello schermo elettronico il loro luogo di manifestazione specifico. Ma se la creazione dei sistemi e la loro implementazione diviene il focus del progetto generativo, assegnando all'immagine il ruolo di "risultato" del processo formativo insito nel sistema stesso, ciò non significa però declassare il piano visivo e considerarlo come semplice display materiale di un processo immateriale: anzi, è proprio la precisa articolazione del piano della costruzione del sistema con quello della gestione di determinati effetti visivi a determinare il campo d'azione di quello che possiamo definire visual design generativo (cfr. Anceschi 2002).

Se infatti i designer generativi guardano con sempre maggiore interesse ai prodotti e alle soluzioni della ricerca scientifica7 (industriale e tecnologica) nei loro progetti tendono a filtrare sempre il tutto con un'espressa attenzione alla resa visiva e alle sue qualità percettive.

Sotto il profilo dell’immagine, gli scenari aperti dal design generativo si esprimono nella capacità di far collimare livelli eterogenei: le specificità mediali e tecniche del computer e dell'immagine digitale, una serie di influenze culturali provenienti dalle scienze contemporanee e una pulsione a "mettere in forma" e dare consistenza sensibile a "processi" sviluppati tramite sistemi computazionali. Quelle dinamiche, quei processi attivabili dalle logiche del medium che di per sé non hanno una forma visiva tangibile.

Scrivendo su database, visualizzazione e mappatura dei dati, Christian Paul fa la seguente osservazione riguardo la materializzazione dell’era digitale: “nell’era digitale, il concetto di materializzazione si applica non solo al nostro corpo fisico, ma anche alle nozioni di oggetto e materia in generale. L’informazione stessa

sembra aver perso il suo corpo, diventando una qualità astratta che può realizzare transizione fluida tra i diversi stati della materia” (Paul, 2003, p. 101).

L’analisi di Paul è oggetto di discussione in merito alla perdita del corpo ed è spesso promossa come un beneficio per le tecnologie dell’informazione. Il focus artistico ed estetico sul corpo è in evidente contrasto con le pratiche scientifiche ed ingegneristiche che hanno de-materializzato il corpo stesso lungo il corso dell’invenzione e dello sviluppo delle tecnologie dell’ informazione contemporanee. Con le parole di Roberto Diodato:

“L’immagine digitale non è, si potrebbe dire, propriamente “immagine”, bensì corpo-immagine, poiché costituita da sequenze ordinate di unità binarie, o altrimenti stringhe di caratteri che si sviluppano in diversi livelli di una sintassi che costruisce la coincidenza tra queste stringhe e le apparenze sensibili”. (Diodato, 2005, p.20)

Questi progetti insistono sulla natura peculiare dell'immagine digitale, in particolare ciò che con Couchot si era definito controllo totale dell'immagine punto per punto (Couchot, 1988, p. 132). Qui ogni elemento dell'immagine-flusso elettronica è infatti programmato e dotato di comportamento. Il pixel non funziona solo come "supporto" visivo per rendere visibile la traccia di un agente ma diviene esso stesso entità attraverso il cui utilizzo un processo visivo inedito viene a manifestarsi.

In questo decennio iniziano diverse importanti attività all’interno del mondo della videoarte. Nel 1982 a Milano si costituisce il gruppo Studio Azzurro, Paik diffonde via satellite il video “Good Morning Mr. Orwell”. Ribaltando l’idea orwelliana di TV, Paik voleva dimostrare la capacità del satellite di servire situazioni positive quale lo scambio intercontinentale e la combinazione delle culture, sia di alto livello sia di elementi di intrattenimento. La radiodiffusione ha trasformato il videotape di Paik in oggetto globale; una radiodiffusione compartecipata fra New York ed il centro Pompidou a Parigi, collegata anche con la Germania ed la Corea del sud che ha

raggiunto un pubblico mondiale di oltre 10 o persino 25 milioni di persone, se si considerano le trasmissioni successive di ripetizione. Con quest’opera Paik, come al solito in anticipo sui tempi, ha aperto la strada all’idea della comprensione internazionale tramite il veicolo della TV, espandendo il concetto di trasmissione con le possibilità via satellite in tempo reale.

Il 1985 vede nascere a Pisa il Festival “Ondavideo”, tra i più attivi in Italia nel settore del video d’autore. “Ondavideo” non è stata e non è solo una mostra di videoarte, è stata ed è anche un polo di ricerca, con il legame stretto con l’Università e con varie istituzioni, dalla RAI a centri internazionali. La Biennale di Venezia apre la per la prima volta una sezione interamente dedicata alla videoarte e alla computer-art nel 1986 e nell’anno seguente a Milano si apre la mostra “Arte e computer”.

Sempre nel 1986 inizia l’attività del “Festival Ars Elettronica” di Linz, quest’ultimo da vita all’omonimo centro specializzato nei nuovi media, situato nella stessa città austriaca, esso si proclama “il museo del futuro” e possiede uno dei più estesi archivi di arte digitale. Fanno capo al centro, che è sinonimo di sperimentazione, laboratori, concorsi di progetti di Web-Art, supporto ai Web-artisti e diverse attività tra le quali un museo e un concorso di arte elettronica. Da allora ogni anno viene organizzato il Festival che ha accompagnato la rivoluzione digitale passo dopo passo e che ha sempre guardato alle trasformazioni, al futuro e al sovvertimento dell'ordine come ai suoi concetti programmatici nei campi dell'arte, della tecnologia e delle dinamiche sociali. Per una settimana Linz viene raggiunta da ogni parte del mondo da esperti di nuovi media, cyber-artisti e musicisti elettronici e designer che si confrontano su un tema, ogni anno differente. Sono giorni di seminari, esibizioni, mostre interattive per fare il punto sullo stato dell’arte nell’evoluzione del mondo digitale, mentre concerti, esibizioni teatrali, video-installazioni e performance artistiche occupano ogni angolo della città.