In Italia il fenomeno video comincia nei primi anni ’70 (con le significative eccezioni futuriste e cinetiste) relativamente tardi rispetto agli Stati Uniti e si sviluppa soprattutto in senso politico e documentario. I video d’artista che circolano in Italia nei primi anni della sua storia sono per lo più documentazioni di eventi, di performance, di mostre: più che l’interesse a realizzare col video opere in sè autonome, concepite appositamente per il video, prevale l’intento didattico, ad esempio il video è visto come un mezzo in grado di facilitare la lettura dell’opera d’arte plastica.
L’assimilazione del video da parte degli artisti non deriva quindi da una presa di posizione linguistica precisa, sfavorita anche da una generale arretratezza tecnologica; l’ambiente culturale, infatti, non incentiva la sperimentazione sul nuovo strumento in quanto il video all’inizio non viene ritenuto un mezzo linguistico sufficientemente ricco di potenzialità espressive. Tuttavia a partire dal ’71, dopo l’esordio del video alla mostra “Gennaio ‘70” al museo civico di Bologna, alcune gallerie italiane si aprono alla nuova tecnologia, inaugurando delle mostre in cui il mezzo è presente soprattutto per documentare gli eventi in atto, anche se manca
ancora la reale volontà di investire concretamente sul nuovo mezzo. Tra il ’72 e il ‘75 il video conquista pian piano le gallerie e gli artisti italiani anche se oggi abbiamo ben poche tracce di quella che sui documenti appare come una fervida attività. In questo contesto, tra i pochi a rivolgersi al video e a comprenderne appieno le potenzialità linguistiche come mezzo di comunicazione antagonista troviamo Anna Lajolo, Guido Lombardi e Alfredo Leonardi, tre cineasti che nel 1971 fondano il collettivo “Videobase” e utilizzano il video come strumento didattico per favorire la formazione di una coscienza politica.
Agli anni Settanta risale anche un importante avvenimento italiano nel campo del video: l’apertura a Ferrara presso il Palazzo dei Diamanti del “Centro di Videoarte”, diretto da Lola Bonora con la collaborazione di Lola Ansaloni e Giovanni Grandi. Più precisamente il centro nasce nel 1972, il suo lavoro nella videoarte inizialmente è totalmente sperimentale, più che altro opera nel campo della documentazione in maniera sistematica e professionale, il Centro, infatti produce molto video “freddo”(nota Madesani pag.90), di stampo documentativo. Realizza diverse manifestazioni d’importanza internazionali: nel 1974 ospita uno degli incontri realizzati da Jorge Glusberg, che rappresentano “un veicolo importantissimo per le esperienze video” (Madesani p.121). Negli anni Ottanta ospita “U-tape”, e “Videoset”, nel 1990 dà vita a “L’immagine Elettronica” una mostra realizzata anche con il patrocinio della Biennale di Venezia in cui si fa il punto della situazione internazionale della videoarte.
Sempre nel 1972 a Firenze inizia l’attività di “Art/Tapes/22”, laboratorio di diffusione e produzione di video d’artisti.
Due in particolare sono stati gli artisti fondamentali che nel nostro paese hanno utilizzato il video in modo innovativo: Luciano Giaccari e Alberto Grifi.
L’avventura col video di Luciano Giaccari inizia nel 1971 con la video registrazione dell’happening “Print Out” di Allan Kaprow: è dunque l’interesse per la documentazione degli eventi prodotti dall’arte del periodo a portare Giaccari verso il video. Il lavoro di documentazione col video porta Giaccari a riflettere da vicino
sul mezzo, esplorando le sue potenzialità linguistiche, sino alla redazione della “Classificazione dei metodi di impiego del video in arte”, in cui Giaccari tenta di fare ordine nella confusione che circonda il video, distinguendo tra un uso “diretto” di esso, quello degli artisti, che comprende il videotape e la videoperformance, e un uso “mediato”, quello didattico-documentativo, che comprende la videodocumentazione, il videoreportage e la video-didattica.
La sua attività di produzione indipendente di video sull’arte viene però scoraggiata dalla mancanza di sensibilità per il video, una circostanza che a metà degli anni Settanta lo porta a rivolgersi ad altre situazioni artistiche come la musica e il teatro. La mancanza di un interesse generale per il video e la confusione sui suoi usi che lo circonda in quegli anni, assieme alla totale inesistenza di strutture pubbliche a cui riferirsi favorisce quindi un progressivo allontanamento dal nuovo mezzo; inoltre c’è da dire che in Italia la videoarte di quegli anni non usufruiva di nessun tipo di investimenti economici fatti al suo riguardo.
L’altra figura di spicco è Alberto Grifi, uno dei cineasti italiani indipendenti più radicali, che produce, nel 1972, “Anna”, un film interamente girato in video. A Grifi, abituato ai costi della pellicola, il video offre la possibilità anche di lasciare la telecamera sempre accesa, e il fuoricampo si sovrappone pian piano alla sceneggiatura: la vita diviene scena e il set straripa fuori dai margini dell’inquadratura, rivelando la macchina cinematografica e le sue contraddizioni. La maneggevolezza del video e la durata dei nastri fanno esplodere le regole del set che vogliono sotto il controllo della cinepresa una realtà rigidamente predeterminata e decisamente irreale; il lavoro dietro le quinte acquista così un’improvvisa rilevanza ed emerge un nuovo soggetto, portatore di istanze insospettate e capace di far emergere i limiti rappresentativi del cinema.
Nel video “Parco Lambro”, invece, Grifi registra una contestazione in corso, le sue telecamere catalizzano la partecipazione attiva delle persone e intervengono direttamente, mostrando dal basso e dall’interno la realtà dei fatti.
Un’esperienza a metà tra arte e controinformazione è infine quella svolta dal Laboratorio di Comunicazione Militante, formato nel 1976 come organismo che opera nell’ambiente sociale attraverso la critica al linguaggio del potere per un’arte prodotta dal basso, che vuole evitare i meccanismi dominanti di controllo e le mediazioni delle gallerie e dei critici, per assumere direttamente la gestione del proprio lavoro. Il tentativo è quello di produrre arte attraverso un’attività volta a produrre controinformazione, perciò il laboratorio inizia a progettare interventi in luoghi pubblici, dibattiti con gli studenti nei quali il video è uno strumento in grado di evidenziare i meccanismi con cui si costruisce l’informazione; un mezzo di sperimentazione delle specifiche tecniche del linguaggio televisivo; uno strumento di animazione del lavoro di gruppo, infatti il video e il circuito chiuso, usati in ambito artistico, ritornano all’interno di una situazione didattica per la formazione di una capacità critica sul modo in cui operano i mezzi di comunicazione. Il laboratorio tenta un’operazione artistica sui generis, basata su una grande attenzione per il proprio interlocutore e interessata a un rapporto col sociale che prefigura quelle esperienze oggi etichettate come “public art”.
Tra i membri del Laboratorio di Comunicazione troviamo Tullio Brunone, Ettore Pasciulli, Giovanni Columbu e Paolo Rosa che poco dopo quest’esperienza fonderà Studio Azzurro.
Alla fine degli anni Settanta nasce “Il Video Art Festival di Locarno”. Essa è la prima e la più antica rassegna d’arte video in Europa e rappresenta, come ha dichiarato lo stesso presidente della giuria del Festival Robert Cahen: “La più vasta e aggiornata occasione di conoscere la produzione di arte video a livello mondiale”. Il Video Art Festival di Locarno è dedicato al nuovo pensiero artistico e umano in relazione con le nuove tecnologie elettroniche; è stato ideato e organizzato con cadenza annuale dall’editore e produttore d’arte contemporanea Rinaldo Bianda, fondatore dell’AIVAC (Associazione Internazionale per il Video nelle Arti e nella Cultura nata nel 1982 proprio per promuovere la sperimentazione estetica del linguaggio video nell’arte e nella cultura.). Il Festival adotta una strategia che tende a rendere meno faticoso possibile il seguirlo: infatti, una delle
sue peculiarità è che si svolge in grandi alberghi isolati dove la concentrazione è favorita. Esso è considerato la manifestazione meno chiusa in una visione di culture egemoni e presunte tali, il più aperto agli scambi tra Europa e America, tra Occidente e Oriente. Le ricerche che documenta, gli incontri che provoca, i colloqui che organizza sono espressioni di un orientamento verso una radicale umanizzazione delle nuove tecnologie, prospettiva che qui è stata presentata come la sola utopia utilmente praticabile negli svolgimenti della cultura del nostro tempo. Il Festival attribuisce uno dei premi più prestigiosi della videoarte: il “Laser d’oro” riconoscimento AIVAC/UNESCO equivalente, per le arti elettroniche, al Leone d’oro della Mostra di Arte Cinematografica di Venezia.