La storia della videoarte nasce, dalla convergenza di due tensioni: da una parte la sperimentazione dei linguaggi, in cui viene indagata con particolare intensità la complessa dimensione temporale che il nuovo mezzo mette in campo; dall’altra l’impegno politico e sociale, legato alle potenzialità di registrazione della realtà, e perciò di documentazione e informazione, proprie del mezzo.
E’ perciò importante soffermarsi su questo caratteristico bisogno da parte degli artisti e degli autori indipendenti degli anni settanta di produrre un’attività creativa documentaria e di ricerca soprattutto di segno antagonista a quella imposta dai media di massa, in particolar modo dalla televisione. Come ha infatti documentato Gene Youngblood nel suo “Expanded Cinema”, che chi lavorò nel video lavorò contro la televisione, non c’è stato autore video che abbia mancato di ribadire, almeno per quanto riguarda gli anni settanta, questa dichiarazione di principio. Il video si dimostra il mezzo più adatto allo scopo per diversi motivi: innanzitutto dal punto di vista della sua materialità, è evidente il suo legame con la tv e ciò ne fa inevitabilmente uno strumento politico; inoltre la sua economicità, la possibilità di riprese illimitate, la coincidenza temporale fra il momento della ripresa e la sua diffusione, unite alla malleabilità, alla trasformabilità, alla possibilità di distorsione, di astrazione che vanno sperimentando gli artisti nei loro laboratori domestici, apre innumerevoli, inedite e semplici possibilità di espressione e comunicazione.
Il video diventa, quindi, un modo per determinare il cambiamento sociale e l’intervento attivo delle persone; uno strumento di liberazione estetica dell’individuo e di lotta per opporsi alla nozione di “cultura alta” e a quella di arte in quanto esperienza separata dalla vita ordinaria di tutti i giorni; e un mezzo per autoprodurre le immagini, rifiutando di affidarsi a un’informazione dall’alto, controllata dal potere e autoritaria. (cfr. Lischi, 2001)
Nel 1971 Michael Shamberg e il gruppo Raindance scrivono “Gerrilla Television”, il manifesto del video di movimento, che diventa in pochi mesi il libro rosso della controinformazione politica statunitense e che esprime l’esigenza di “televisione decentralizzata fatta dalla gente per la gente” (Fadda 1999); questo approccio lo si riscontra come intento comune alle diverse scuole di pensiero dell’epoca: dal già citato movimento Fluxus all’Internazionale Situazionista, dai francofortesi agli strutturalisti.
In aperta polemica contro la presunta obiettività del giornalismo documentario Shamberg fonda la TVTV (Top Valute Television ), il cui assunto politico è di offrire un’informazione radicalmente differente da quella distribuita dai diversi canali televisivi americani. Il lavoro più interessante prodotto da questo gruppo è una trasmissione di 60 minuti sulla convention democratica e repubblicana di Miami Beach, nella quale si offriva una visione reale del caos e delle battaglie politiche sotterranee delle conventions, oltre che un’indagine sull’uso mistificante delle trasmissioni televisive. Attraverso l’uso alternativo del video-tape lo scontro politico si arricchisce di una nuova lotta, quella sull’informazione e sulla documentazione. Le minoranze riconoscono come propria solo l’informazione televisiva prodotta dai suoi appartenenti: il video-tape si impone quindi come lavoro politico e creativo, contro la videologia borghese; alle trasmissioni “astratte” del potere si contrappone la realtà dei fatti, per poter leggere e vedere le cose direttamente senza la mediazione del regista (si insiste infatti sul rispetto del tempo reale dell’evento e sulla volontà di non interferire con ciò che si vuole documentare).
Nascono inoltre negli Stati Uniti e in Canada collettivi video, all’interno dei quali le apparecchiature e le conoscenze tecniche sono messe in comune per la realizzazione di progetti di ricerca e documentazione con il chiaro obbiettivo di contribuire a permettere una liberazione estetica dell’individuo.
Anche in Italia simili iniziative cercano di affermare “il diritto sociale all’arte”. Nel 1976 si assiste alla fondazione del “Laboratorio di Comunicazione Militante”.
In questo periodo è interessante notare come anche le esperienze artistiche che non si esprimevano attraverso il documentario e che non si proponevano alcun
obiettivo dichiaratamente “militante” sono riuscite a “contaminare” videoarte, videoinstallazioni con un’azione critica di stampo politico. Demistificazione verso l’istituzione televisione e sperimentazione dal punto di vista tecnologico, rappresentano, evidentemente, il leit motiv del pensiero artistico di Paik e Vostell, che già attraverso le loro prime opere s’interrogano sul ruolo del nuovo mezzo tv all’interno della società; Vostel con le esplicite polemiche contro lo strapotere dello stato sul medium tv dei suoi decol-age; e Paik col suo tentativo di “umanizzare la tecnologia” in “Tv-bra for living scultures” o nelle performance video-musicale realizzate con Charlotte Mooread esempio, a proposito dei luoghi canonici dell’arte.
Lo stesso effetto provocatorio lo riscontriamo in alcuni primi eventi-installazione di Bill Viola, il quale ha contribuito a espandere questa tensione in termini di tecnologia e ricchezza storica. E’questo il caso di “The Amazing Colossal Man” del 1974, nel quale dalle finestre di una casa vengono proiettate in retro-proiezione verso la strada o direttamente in una postazione sul marciapiede, immagini che generano destabilizzazioni creando, così, inevitabile sconcerto tra i passanti. Nelle installazioni video di Bill Viola si fondono immagini e suoni, e sono caratterizzate dalla sua precisione ed essenzialità.
Fin dai primi anni Settanta, Viola ha utilizzato la forma del video per esplorare i territori della sensazione, i suoi lavori trovano ispirazione nella produzione artistica classica così come dalle tradizioni spirituali orientali. E’ stato uno sperimentatore pieno di innovazione nella creazione dei video come una forma vitale dell’arte contemporanea e in questo modo ha aiutato a espandere tutto questo in termini di tecnologia e ricchezza storica.
Ritornando all’uso provocatorio del medium video, c’è da dire ancora che, non solo le esperienze di decontestualizzazione dell’oggetto monitor, ma anche modalità nuove di diffusione fanno parte di quel clima appassionato di ricerca; mentre Viola proiettava dalle finestre alla strada, Silvano Agosti commetteva
quest’atto dissacrante direttamente sulla schiena di un poliziotto durante le cariche della polizia.
Interessante in tale contesto è anche la posizione di Joseph Beuys, artista tedesco portavoce fra i più rappresentativi della corrente concettuale nell’Arte della seconda metà del Novecento. Egli, all’interno della pratica sperimentale e provocatoria di Fluxus, sviluppa la sua dimensione di espansione del discorso artistico, politico e ideologico con una certa attenzione all’aspetto di allargamento comunicativo consentito dai media e in particolare dagli strumenti audiovisivi. La sua esplorazione del medium video si inscrive all’interno delle possibilità di registrazione di un evento in tempo reale per estrapolarne in un secondo momento il potenziale performativo. In una tale modalità operativa Beuys non pone differenza tra il mezzo video e quello cinematografico. Il video, così come il film, diventa uno strumento intermediario, capace di attivare uno scambio di informazioni, ma anche, per la sua natura immateriale e fluida, capace di realizzare “quella plastica sociale che assume il pensiero come scultura immateriale, infiltrata e circolante tra materie e situazioni catalizzati dalla presenza dell’artista” (Boldini 1995, p. 25).
Come afferma Silvia Bordini:
“E’ chiaro che Beuys è lontano dalle problematiche specifiche sia del film d’artista sia della videoarte; Beuys adopera il film e il video per i propri scopi, semplicemente come ulteriore strumento per comunicare; per prolungare il senso del discorso. E’ interessato a continuare non a conservare le opere registrandole e memorizzandole, (come invece fa Schum); non intende calarsi totalmente all’interno del mezzo per sviscerare e reinventare le sue molteplici potenzialità linguistiche (come Paik); e anche la denuncia e la contestazione dell’oggetto e del potere televisivo (così centrale in Vostell e, con un uso ancora diverso in una ampia frangia di video espressamente politici come quelli del gruppo Guerrilla Television) sono solo una parte nelle sue intenzioni!” (Boldini 1995, p 28).
I primi esempi di registrazioni audiovisive applicate da Beuys alle proprie azioni, sono rintracciabili nella performance fluxus “Kukei, akopee-Nein!” del 1964, e sempre nello stesso anno, sfruttando l’uso della diretta, nell’azione “Das Schweigen von Marcel Duchamp wird uberwertet”
Bisogna tuttavia riconoscere che l’azione proposta da Beuys a Copenhagen nell’ottobre del 1966, con il titolo “Fliz TV”, si inserisce perfettamente in quel clima di forte opposizione e denuncia dell’apparato televisivo e dei suoi portati. In questo caso il confronto critico con la televisione diventa confronto diretto ed esplicito con l’oggetto televisione in una sorta di rito ironico ed assurdo dalle molteplici ipotesi interpretative.
Da uno spaccato della situazione sociale e culturale riferita agli anni di nascita e sviluppo delle ricerche sul video si evince una mappatura densa di avvenimenti che inevitabilmente avrebbero cambiato i paradigmi della visione della vita e quindi dell’arte stessa. La rivolta studentesca, a Parigi, a Roma, a Berlino, rappresentò, ad esempio, una forte ventata di rinnovamento e di trasformazione della consapevolezza dell’azione culturale in senso anti-gerarchico. Essa percorse l’Europa nell’intenzione di una critica radicale alla società nei suoi fenomeni d’egemonico potere industriale ed esprimendosi in un’attenzione nuova a modelli di operatività estremisticamente orientati su valori emarginati e poveri, pertinenti una creatività spontanea ed attenta, ad esempio, ai sedimentati patrimoni antropologici.
L’opposizione radicale alla mentalità consumistica degli anni Sessanta, e in particolare all’ideologia ottimistica che aveva alimentato il mito del miracolo economico, minò le basi su cui si fondava da secoli il concetto dell’arte e, mettendola in discussione, trasformò effettivamente la misura dei valori culturali in una diffusa volontà di rompere i tradizionali, ed elitari, circuiti della fruizione dell’opera d’arte, e di conseguenza le modalità operative connesse a quei circuiti.
In questo contesto storico e sociale denso di cambiamenti, innovazioni e rivoluzioni, iniziò a “compire i suoi primi passi” la pratica video, come tecnica in grado di offrire possibilità nuove di immediatezza comunicativa ed esplorazione spazio-temporale; il frutto di tali stravolgimenti sul piano artistico non poteva che corrispondere ad una scena altrettanto variegata e complessa, fecondo territorio di incroci, attraversamenti e transizioni. La performance, gli happening, il teatro, la danza, il cinema, l’arte del corpo, le ricerche di John Cage: coesistevano e si diffondevano in questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale. Come scrive Cargioli:
“Il medium video ha vissuto in completa promiscuità con le altre arti, con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali” riuscendo a trasformarle sempre in “altra cosa dopo averne assorbito il contatto” (Cargioli, 2004 p. 64).
Il fatto è, e ciò non può certo sfuggire ad una attenta riflessione, che era ormai abbondantemente scaduto l’ordine fondato sulla logica dei “limiti” e ci si apprestava a vivere in una società in cui non si dicevano più solo cose diverse nella stessa lingua, ma si parlavano linguaggi in continua mutazione; conseguenza inevitabile è che gli incontri fra le diverse forme artistiche non potevano più essere rappresentate alchemicamente sotto forma delle cosiddette “contaminazioni”, ma si “raccontavano” in un vero e proprio nuovo linguaggio sintetico fatto di sinergia e mutazioni. Il video, in questo tipo di contesto, trova terreno fertile in quanto mezzo che esprime il massimo delle sue potenzialità soprattutto nel dialogo fecondo con le altre arti.
Alla base di questa evoluzione del paradigma artistico, di questo nuovo clima nel mondo dell’arte, un’altra fondamentale rivoluzione contribuiva fortemente ad influenzare il cambiamento del concetto stesso di “opera d’arte”, fino ad intaccarne le basi tradizionali quali l’unicità, l’autonomia e la materialità stessa. Si raggiunge così, alla fine degli anni sessanta, un massimo di sconfinamento dai limiti
convenzionali dell’arte nella condizione della ricerca e nei processi di concettualizzazione e di interrogativa riflessione sul fare artistico: tali stravolgimenti sono ad opera di quella corrente di pensiero artistica definita “Arte concettuale” che andava riscuotendo sempre più successo in quegli anni.
Ha introdotto la definizione “Conceptual art” Sol LeWit in un suo articolo apparso in “Artforum” nell’estate del 1967. In questo articolo l’attenzione è posta sul lavoro dell’artista coinvolto nella situazione, in cui l’ “intenzione” che suscita l’evento entra a far parte dell’evento stesso, e sull’ “idea”, intesa come una “macchina per fare arte”. L’Arte Concettuale rifiuta qualsiasi ricerca estetica e formale e si rivolge ad una investigazione delle esperienze mentali e alla indagine sulla natura dell’arte stessa; uno degli obiettivi dell’arte concettuale è, infatti, quello di sollecitare l’attività mentale dello spettatore, quindi di spostare l’attenzione dall’oggetto d’arte ai suoi presupposti ovvero ai principi che presiedono la sua concezione.
L’opera non è altro che un mezzo visivo per comunicare un atto mentale, un “processo”. Si è proposto di considerare l’Arte Concettuale “come una corrente di ricerca intellettuale, speculativa, il cui fine è soprattutto quello di giungere ad una realizzazione noetica più che quello di incarnarsi in un preciso embrione formale, tangibile e decisamente fruibile percettivamente”. (Sol Lewit, in “Artforum”1967) Determinanti nella definizione del lavoro artistico concettuale si rivelano gli scritti di Sol LeWit e di Joseph Kosuth.
Scrive Sol LeWit:
“Nell’arte concettuale l’idea o concetto è l’aspetto più importante del lavoro. Quando un artista utilizza una forma concettuale di arte vuol dire che tutte le programmazioni e decisioni sono stabilite in anticipo e l’esecuzione è una faccenda meccanica. L’idea diventa una macchina che crea arte.Se l’artista vuole analizzare completamente la sua idea, allora dovrebbe ridurre al minimo le decisioni arbitrarie o casuali, mentre il capriccio, il gusto e altre fantasie andrebbero eliminate dalla creazione artistica. Il programma dovrebbe progettare il lavoro. Se l’artista porta avanti la sua idea e la trasforma in una forma visibile, allora tutti i passaggi del processo sono
importanti. L’idea stessa, anche se non è divenuta visiva, è un’opera d’arte esattamente come qualsiasi prodotto finito. Le cose che illustrano il processo mentale dell’artista, sono a volte più interessanti del risultato finale. Le idee si possono anche enunciare con numeri, fotografie, parole, o in qualunque altro modo scelto dall’artista, poiché la forma è priva d’importanza” (LeWit, 1977, p. 11).
L’importante, quindi, risulta essere la matrice, l’insieme di regole che permettono di generare l’opera o più semplicemente di pensarla. Ne deriva che in tal modo il linguaggio, la descrizione, il documento possono sostituirsi all’oggetto, dissolvendo al tempo stesso la complessa e discussa nozione di “originale”.
Non molto distante è la posizione di Joseph Kosuth, per cui l’arte non può che essere concettuale, in quanto la sua vera natura sta proprio nella sua definizione. Ciò ha portato Kosuth all’atteggiamento radicale dell’eliminazione di ogni manifestazione sensibile dell’oggetto d’arte a vantaggio delle sole “proposizioni”. Tale atteggiamento radicale, però, è soltanto il culmine di un processo che tendeva alla dematerializzazione dell’oggetto; in altre situazioni, pur accordando un’importanza particolare all’elaborazione concettuale, non si rinunciava comunque alla realizzazione concreta. In tal caso ciò che si proponeva era una sorta di apertura, una diversificazione delle attualizzazioni possibili di concetti: dal testo alla foto, al documento, alla grafica, al film, al corpo, al video, ecc.
Scrive Joseph Kosuth in “Art after Philosophy”:
“Con l’unassisted ready-made di Duchamp, l’arte ha cambiato il suo obiettivo dalla forma del linguaggio a ciò che è detto. Ciò ha significato spostare la natura dell’arte da un problema di morfologia a un problema di funzione. Questo cambiamento, dall’apparenza al concetto, ha significato l’inizio dell’arte moderna e dell’arte concettuale. Il ‘valore’ dei singoli artisti dopo Duchamp può essere stabilito in base a quanto essi si interrogarono intorno alla natura dell’arte; il che equivale a dire cosa essi aggiunsero al concetto di arte, o cosa mancava prima che essi iniziassero. Qual è la funzione dell’arte o la natura dell’arte? Se noi manteniamo la nostra
analogia fra le forme che l’arte assume e il ‘linguaggio’ si può comprendere come un’opera d’arte sia una specie di ‘proposizione’ presentata nel contesto dell’arte come un commento sull’arte” (Kosuth,1968 p 18).
Spostando l’attenzione sulla definizione concettuale dell’arte anche le sue problematiche si trasferiscono nell’ambito del linguaggio e della comunicazione. E’ solo attraverso la comunicazione che si realizza l’opera d’arte: l’arte diventa arte solo nel contesto dell’arte.
L’opera si mostra, mette in evidenza il proprio funzionamento, lo statuto e le poste in gioco della rappresentazione. Offre dei procedimenti che espongono essi stessi le loro condizioni di possibilità.
Il video si presta allora perfettamente all’uso concettuale per il suo essere registrazione (riconosciuto un ruolo primario alla comunicazione) destinata al sistema di circolazione dell’informazione, ma anche per il suo essere puro procedimento, senza residui né tracce.
“|Il video| non può che essere procedimento, pura virtualità d’immagini. E più che un oggetto è un sistema di rappresentazione, che si espone e definisce uno spazio concettuale sensibile, di riflessione e percezione al tempo stesso” (Duguet, 1993, p. 192)
Nel mondo del mercato dell’arte, le scelte dei musei a cavallo tra gli anni Sessanta Settanta, posti di fronte alla necessità di catalogare il video, tendono ancora a privilegiare quel tipo di lavori in cui l’opera consiste nel mezzo stesso, opere in cui l’obiettivo estetico è unicamente nel trattamento del segnale elettronico e nella sperimentazione sulla tecnologia. Viene così disconosciuta inizialmente da molte istituzioni museali tutta quella serie di prodotti della sperimentazione artistica che si concentrano sulle potenzialità di registrazione, e quindi di documentazione e informazione, proprie del mezzo. Questa sorta di “documentari artisticizzati” ad opera di sempre più numerosi artisti dell’epoca si affermeranno all’interno dell’industria culturale gradualmente nel corso degli anni Settanta, e l’approccio
che si è sviluppato allora, vede il linguaggio documentaristico, confinato nella gabbia dei generi, esattamente come sottogenere del cinema. In questi anni il mondo della videoarte si è scisso tra documentarismo e denuncia sociale, anche se sono notevoli le testimonianze di autori che hanno lavorato in chiave artistica alla produzione di documentazione filmica di eventi storici e sociali all’interno dei movimenti attivistici4.