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L‟ipotesi di una stretta correlazione tra riduzione metrica delle punte ed evoluzione delle tecnologie di lancio, è stata avanzata precocemente da J. Rozoy (1978, p. 963, 1008-1020) ed ancora oggi ritenuta credibile: McBrearty e Brooks (2000) ad esempio, affermano che la comparsa delle prime punte in pietra di piccole dimensioni sia strettamente correlata all‟introduzione di una tecnologia di lancio la cui propulsione sia di origine meccanica (arco).

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I parametri interpretativi considerati inizialmente diagnostici per confermare l‟utilizzo di manufatti litici nelle pratiche venatorie, furono dunque la morfologia e le dimensioni delle armature stesse, che offrivano già di per sé una risposta funzionale del loro adattamento ai sistemi d‟arma. La recente metodologia di analisi basata sulla TCSA (tip cross sectional

area) formulata da S. Hughes (1998) per contesti paleoindiani e applicata da J. Shea (2006)

al quadro internazionale, si inserisce dunque entro questa tendenza.

Se lo studio morfo-metrico rappresenta ancora oggi un punto di partenza imprescindibile per poter ipotizzare l‟impiego di determinate classi tipologiche nei sistemi d‟arma, appare tuttavia un metodo estremamente limitato a livello interpretativo (Sisk e Shea 2009; Lombard e Phillipson 2010). A sua integrazione, risulta infatti indispensabile l‟impiego dell‟analisi funzionale, metodologia che rappresenta oggi l‟unico strumento in grado di verificare, con un buon grado di affidabilità, l‟effettivo utilizzo delle armature come elementi di proiettile.

Studi sperimentali condotti da vari autori (Borgia 2008; Caspar e De Bie 1996; Cattelain e Perpère 1993; Fisher et alii 1984; Geneste e Plisson 1990; Lombard e Pargeter 2008; Odell 1978; Odell e Cowan 1986; O‟Farrell 1996; Pétillon et alii 2011; Plisson e Geneste 1989; Plisson e Vaughan 2003; Soriano 1998; Waguespack et alii 2009; Yaroshevich et alii 2010) hanno permesso di confermare l‟efficacia delle punte in selce e hanno contribuito a definire di volta in volta i criteri diagnostici per l‟identificazione delle fratture e degli altri danneggiamenti subiti nell‟impatto dagli elementi montati su armi da getto. La morfologia, la disposizione sistematica, l‟intensità di questo tipo di tracce permettono oggi la realizzazione di una diagnosi affidabile che distingua i segni dell‟impatto da fratture e sbrecciature di altra natura (legate alla produzione o a fenomeni post-deposizionali).

Come già accennato in precedenza, numerose sperimentazioni sono state inoltre condotte per esplorare i principi fisici e aerodinamici afferenti ai sistemi balistici “primitivi” (Bergman et alii 1988; Carrére 1990; Christenson 1986; Klopsteg 1947; Kooi e Bergman 1997; Miller et alii 1987; Pope 1923; Raymond 1986). Queste analisi ci hanno permesso di comprendere le variabili connesse alle dimensioni e alla morfologia di giavellotti e frecce quali: il centro di gravità, il centro di pressione, il peso e la lunghezza. Allo stesso modo è stato meglio definito il ruolo aerodinamico svolto nei sistemi d‟arma da vari elementi tra cui l‟asta, il foreshaft e l‟impennaggio.

Alcune sperimentazioni sono state poi rivolte al riconoscimento di diversi criteri che potessero risultare diagnostici nella determinazione del sistema balistico utilizzato, sulla base delle caratteristiche delle punte di proiettile rinvenute nei contesti archeologici (per una sintesi recente vedi Hutchings 2011). Purtroppo, l‟iniziale assunto che individuava nel peso e

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nelle dimensioni delle punte caratteri discriminanti, è stato successivamente ridimensionato da alcuni lavori che hanno messo in luce come quasi tutte le tipologie di punte conosciute potessero essere usate sia su giavellotti che su frecce. Da un punto di vista esclusivamente balistico infatti, una punta leggera e tranciante può risultare efficace se montata su un giavellotto scagliato al propulsore semplicemente compensando il bilanciamento con una pre-asta più pesante; allo stesso modo una punta pesante scagliata all‟arco può essere equilibrata dall‟utilizzo di un‟asta più lunga. Di fatto si tratta solo di effettuare scelte tecniche e balistiche funzionali al raggiungimento dell‟equilibrio minimo necessario per il funzionamento del sistema.

Alla luce di queste considerazioni, alcuni ricercatori hanno elaborato complessi protocolli sperimentali atti a verificare tali scelte in specifici contesti crono-culturali. Questo approccio è stato inaugurato dal gruppo di ricerca “Technologie Fonctionelle des Pointes de Projectiles Préhistoriques” (TFPPP) (Geneste e Plisson 1986, 1990) che si è posto il problema di chiarire il significato tecnologico e funzionale delle punte solutreane rinvenute alla Grotte de Combe-Saunière (Dordogna) ricostruendone modalità di fabbricazione, immanicatura e utilizzo. La sperimentazione non ha purtroppo evidenziato elementi chiaramente diagnostici per la comprensione del sistema d‟arma utilizzato ma ha comunque posto le basi per l‟adozione di un‟innovativa metodologia di ricerca in cui produzione litica, tecnologia di ritocco, morfo-metria delle punte, analisi funzionale e sperimentazione rappresentano singole parti di una complessa via euristica volta alla definizione culturale di un determinato contesto archeologico.

Il medesimo approccio è stato utilizzato da P. Cattelain e M. Perpère (1993) per l‟analisi delle punte della Gravette rinvenute all‟Abri Pataud (Dordogna). Per quanto riguarda l‟identificazione del sistema d‟arma a cui rapportare queste armature, la sperimentazione ha dato qualche elemento innovativo: all‟uso del propulsore è stato associato lo sviluppo di maggiori fratture (in termini %) mentre all‟utilizzo dell‟arco è stata imputata la produzione di stigmate più estese (in termini di ampiezza delle fratture a flessione e degli stacchi burinanti). Questi dati non sono però risultati diagnostici non corrispondendo pienamente, né in un caso né nell‟altro, alle tracce riscontrate sul campione archeologico.

Altri studi analoghi di natura sperimentale sono stati svolti successivamente, calibrando caso per caso il sistema d‟arma maggiormente rispondente alle caratteristiche morfo- metriche e funzionali riscontrate sul materiale in esame. Ciononostante, l‟attuale stato dell‟arte sulle macrotracce funzionali non ci consente di applicare criteri diagnostici di riferimento al fine di distinguere con certezza il tipo d‟arma utilizzato nei diversi contesti; le

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sperimentazioni infatti, se da un lato hanno dimostrato come la velocità e il peso dei proiettili influenzino le dimensioni e la frequenza delle tracce, dall‟altro hanno anche evidenziato come risultino significativi altri fattori quali la modalità di immanicatura, il posizionamento apicale o laterale delle armature e le qualità fisiche dei materiali utilizzati (Plisson et alii 2002).

Poter ipotizzare oggi l‟utilizzo dell‟arco in un determinato ambito crono-culturale appare dunque difficile, soprattutto se l‟obiettivo è quello di dimostrarne la comparsa in contesti estremamente antichi. A questo proposito, di recente pubblicazione è il lavoro svolto da M. Lombard (2011; Lombard e Phillipson 2010) sui materiali del sito di Sibudu Cave nell‟area di KwaZulu-Natal in Sud Africa. La ricercatrice, per poter avanzare ipotesi di una certa affidabilità, ha sviluppato una metodologia di studio che potremmo definire “multi analitica” (Lombard 2005): l‟interpretazione infatti è frutto dell‟integrazione dell‟analisi macroscopica sulle fratture, della spettrometria microscopica su strie e politure e dello studio dei residui organici e della loro distribuzione sul manufatto.

Lo studio, condotto su una campione di manufatti appartenenti alla fase di Howiesons

Poort (63.8 ± 2.5 ka BP), si è concentrato sui backed tools, classe estremamente eterogenea

per dimensioni e materia prima ma caratterizzata in maniera univoca dalla presenza di un dorso curvo che raggiungendo le estremità da origine ad almeno una punta.

All‟interno di questa variabilità, M. Lombard ha potuto riscontrare pattern diversi di tracce a seconda delle dimensioni e del materiale utilizzato per la fabbricazione delle armature. La classe dei segmenti in quarzo, caratterizzata dalle dimensioni più ridotte (lunghezza media 10.5–24.0 mm) si è infatti discostata nettamente dagli altri microliti per la particolarità delle evidenze riscontrate: i residui di resina si concentravano su tutta la lunghezza del dorso, suggerendo un‟immanicatura longitudinale o trasversale; i residui animali al contrario si presentavano limitati al margine funzionale confermando il contatto dei tessuti solo con quella porzione di armatura; infine i micro-residui e le micro-strie si disponevano trasversalmente, indicando un‟immanicatura trasversale e una direzione d‟uso del tranciante analoga. I dati, associati ai valori metrici ridotti e alle evidenze sperimentali sulle macrotracce di backed pieces innestati trasversalmente su aste di freccia (Yaroshevich et alii 2010) hanno supportato di fatto l‟interpretazione di un‟analoga immanicatura dei segmenti in quarzo e di un loro utilizzo mediante arco (Lombard 2011; Lombard e Pargeter 2008; Lombard e Phillipson 2010). Questo lavoro, pubblicato nel 2011, rappresenta ad oggi la più antica testimonianza indiretta dell‟utilizzo dell‟arco nel Paleolitico, retrodatando ad almeno 64ka anni fa l‟introduzione del nuovo sistema d‟arma.

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Se questa evidenza fa luce sull‟evoluzione delle pratiche venatorie nel continente africano e specificatamente nell‟area del Sud Africa, poco ci dice però sulla comparsa dell‟arco in Europa. Lo studio tecnologico e funzionale di microgravettes condotto da più gruppi di ricerca in contesti del Gravettiano antico (sito di Sire, ±30.000 BP - Hays e Surmely 2005; sito di Corbiac - O‟Farrell 2004) e del Perigordiano (sito di Rabier, ±28-26.000 BP - Soriano 1998) ha fatto presumere, grazie al supporto di accurate sperimentazioni, l‟introduzione di questa pratica già circa 30.000 anni fa.

Se l‟introduzione dell‟arco è riconosciuta attualmente dalla maggior parte dei ricercatori come un‟invenzione associata a Homo Sapiens, recente è l‟idea che essa possa aver rappresentato una competenza fondamentale per la dispersione di questa specie in Eurasia. M. L. Sisk e J. Shea sostengono infatti che: «[…] mechanically projected weaponry was a key strategic innovation, driving Late Pleistocene human dispersal into western Eurasia after ~50 ka» (2009, p. 2040). Poter dimostrare dunque che questo specifico sistema d‟arma sia comparso in stretta associazione con la prima cultura di Homo Sapiens, rappresenta oggi un obiettivo molto interessante.

Gli studi condotti fino ad ora sulle armature aurignaziane non hanno purtroppo dato risultati significativi a questo proposito. Numerose sono le serie litiche analizzate (Broglio et alii 1998; Hays e Lucas 2001; Normand et alii 2008; O‟Farrell 2005; Schmider e Perpère 1995) che hanno notificato l‟impiego di flechette ed altre armature come punte di proiettile ma nessuno studio fino ad ora le ha strettamente correlate all‟utilizzo dell‟arco. C. Normand e colleghi, ragionando sull‟interpretazione delle armature rinvenute nella Grotte d‟Isturitz affermano: «la présence de fracturations complexes et les autres analyses tracéologique montrent que diverses lamelles ont été utilisées comme armatures de projectile composite, attestant ainsi l‟emploi de telles armes dans l‟Aurignacien archaïque d‟Isturitz. Nous ignorons cependant à quelle sorte de projectiles étaient destinées ces lamelles. S‟agissait-il de sagaies ou de flèches?» (Normand et alii 2008, p. 37-38).

Nonostante la mancanza di prove dirette, tuttavia, alcuni autori ritengono comunque

probabile la comparsa dell‟arco già in corrispondenza dell‟Aurignaziano: «Il est donc, à notre

sens, évident que l’arc a été inventé à une date très ancienne, probablement dès le début du Paléolithique supérieur» (Cattelain 2004, p. 14).

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1.5 PUNTE IN SELCE O PUNTE IN OSSO? BREVE SINTESI SUI FATTORI