Ancora oggi i problemi di approvvigionamento di una grande città sono notevoli, anche se, ormai, le innovazioni tecniche (sia nel settore dei trasporti, sia in quello della conservazione degli alimenti) ed il miglioramento dei cir-cuiti di distribuzione, tendono ad unificare progressivamente le condizioni di circolazione dei beni commestibili, almeno nei paesi più avanzati.
Per questo stesso ambito di problemi nell’Europa dell’Età moderna le città rappresentano un polo che è stato definito contemporaneamente « peri-coloso e privilegiato»: pericoloso perché il nutrimento delle masse urbane ri-chiede notevoli quantità di beni e quindi una grande concentrazione di mezzi;
privilegiato perché la città è di norma dotata degli strumenti per influenzare lo spazio economico circostante a proprio vantaggio, ed il potere politico, per paura delle rivolte causate dalla ‘fame’, è quasi sempre propenso a subordinare le esigenze del resto del territorio al soddisfacimento delle necessità cittadine.
La prima operazione compiuta dalla città, infatti, è in genere rivolta a creare al servizio del proprio mercato una zona di sussistenza più prossima, le cui produzioni assicurino un certo rifornimento di viveri indispensabili (le cosiddette ‘sussistenze’ sono cereali, latte, legumi, vino, olio; carne e pe-sce in misura minore e comunque a seconda della posizione geografica del centro urbano). A questa prima zona si aggiunge (sebbene da un punto di vista territoriale possa anche sovrapporsi ad essa) uno spazio in cui la bor-ghesia e la nobiltà accumulano rendite fondiarie o stabiliscono le loro resi-denze estive: anche da questo entrano quindi prodotti in città, ma riservati a ceti sociali privilegiati.
Una terza zona, che potremmo definire ‘energetica’, fornisce legname, acqua e carbone; esistono poi sia la cosiddetta zona commerciale-indu-striale, sia quella definita come demografica (cioè destinata ad essere un ser-batoio di manodopera), che comportano nel loro complesso la definizione
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* Pubblicato in: Lineamenti di organizzazione economica in uno Stato preindustriale. La Repubblica di Genova, Genova 1995, pp. 71-88.
di un modello di mercato in senso lato, ma che non hanno una rilevanza specifica per il tipo di analisi in oggetto.
L’estensione dell’area di sussistenza dipende principalmente dall’impor-tanza del centro urbano e dalla densità della popolazione gravitante su quel mercato: è stato calcolato che a Parigi, ad esempio, nei secoli dell’Età moder-na, il raggio della superficie in esame fosse di dieci leghe (corrispondenti all’in-circa a 45 chilometri); a Lione era all’in-circa della metà; a Ginevra di quattro leghe (più o meno 20 chilometri); per Genova, almeno sotto certi aspetti, si può comprendere quasi tutta la Liguria, tenendo conto che questo tipo di scambi si svolgeva esclusivamente per mare. In Europa rappresenta poi un caso a parte la città di Londra, per la quale, data la considerevole espansione demografica (all’inizio del Settecento contava già più di mezzo milione di abitanti), l’area di approvvigionamento era estesa a tutta l’Inghilterra.
All’interno di questa zona di ‘sussistenza’ vigono regole restrittive delle libertà commerciali: i produttori, ad esempio, hanno in genere l’obbligo di rifornire il mercato cittadino in maniera privilegiata (e questo vale per agri-coltori, allevatori, pescatori), evitando l’intervento di intermediari, ritenuti spesso responsabili dei rincari dei beni. Nella parte più estrema del territo-rio le limitazioni tendono peraltro spesso a cadere; ai fini della validità delle stesse, si può dire che l’estensione media dell’area sia determinata dalla ca-pacità di un individuo di percorrere a piedi, nell’arco di ventiquattro ore, un tragitto di andata e ritorno, cioè circa trenta chilometri: si tratta infatti, nella maggior parte dei casi, del trasporto di merci deperibili.
Alcuni storici francesi sostengono che una città del periodo preindu-striale poteva riuscire a rifornirsi sufficientemente di derrate alimentari presso le regioni limitrofe fino a quando non aveva superato i ventimila abitanti: dopo tale soglia diventava necessario reperire merci anche altrove.
È pur vero però che molto dipendeva dalla estensione del territorio circo-stante destinato all’agricoltura (si pensi, ad esempio, alla differenza di po-tenzialità tra le città senza un retroterra agricolo, se pur talora dotate di un porto, e quelle al centro di fertili pianure) e spesso anche dal verificarsi di situazioni politiche che potevano condizionare le scelte più convenienti di rifornimento : esemplare il caso di Ginevra, che sovente scontava i contrasti tra la Francia e la Savoia, suoi tradizionali mercati di approvvigionamento insieme alla Germania, nonostante che il ceto urbano, già particolarmente benestante nell’età di mezzo, per sovvenire alle proprie necessità si rivolges-se in pratica ai mercati di tutta Europa.
Caratteristiche del modello di consumo alimentare mediterraneo nell’Età mo-derna
Dalla fine del Medioevo l’espansione demografica delle città è accom-pagnata dall’istituzione di una serie di Uffici annonari che, con nomi e mo-dalità diverse, svolgono lo stesso tipo di funzione: sorveglianza di alcune produzioni, del commercio, dei prezzi; controllo diretto di una parte dei rifornimenti; previsione di un certo tipo di consumi per prepararsi a preve-nire e ad affrontare eventuali crisi.
Da un punto di vista cronologico l’area mediterranea è la prima a pre-sentare questo fenomeno, documentato da fonti diverse: fiscali (tasse e ga-belle), di cui sono ricchi particolarmente i fondi archivistici meridionali e quelli della Repubblica di Genova, ma che si ritrovano anche in altri centri urbani italiani ed europei, poiché la tassazione indiretta è stata per secoli alla base della fiscalità di quasi tutti gli Stati; normative, poiché le istituzioni ap-positamente delegate necessitano di un apparato di norme di funziona-mento e sono normalmente esse stesse dotate di autonomia legislativa oltre che finanziaria; amministrative (si pensi ad esempio alle inchieste sulla po-polazione, sulla domanda e sulla disponibilità dei singoli beni, sull’apparato distributivo etc.); contabili. Difficilmente però tale documentazione offre dati precisi sulle quantità effettivamente consumate, per i quali ci si deve ri-volgere a strumenti diversi e in genere relativi a gruppi con caratteristiche particolari: sono infatti quasi esclusivamente le cosiddette società ‘a nutri-mento collettivo’, come famiglie nobili, ospedali, comunità religiose, gruppi a residenza coatta, le uniche che attraverso la contabilità permettono di re-perire informazioni sulla quotidianità del fenomeno che attraverso l’attività delle istituzioni è invece affrontato con indicazioni più generali e tenden-zialmente approssimate.
In realtà le autorità cittadine pongono la maggiore attenzione verso gli approvvigionamenti dei beni più comuni e quindi maggiormente presenti nelle razioni alimentari delle classi più povere. Il pericolo di «sommosse per il pane», in particolare, era sempre immanente e per tale ragione gli Uffici che si occupano dei rifornimenti di cereali sono i più antichi e diffusi: tra i primi sono da annoverare quelli di Venezia, Firenze, Torino, Como, Ragu-sa, Napoli (in queste due ultime località con caratteristiche particolari: a Napoli, ad esempio, opera un prefetto nominato dal Viceré); Roma vede la creazione di una Annona dei cereali e di una per la carne all’inizio del XVII secolo, in seguito al triplicarsi della popolazione.
Questa generale preoccupazione dei governi nei confronti dei cereali ha forse una delle più notevoli eccezioni in Sicilia: mentre le popolazioni ru-rali di buona parte dell’Europa e certamente di quasi tutta l’Italia consuma-no largamente cereali secondari (il pane di miglio consuma-non è certo scoconsuma-nosciuto ai contadini liguri, ad esempio), poiché il grano-frumento è un lusso dei ricchi e dei nobili cittadini, il contadino siciliano si nutre normalmente di ‘vero’
grano; anche se in occasione di carestie si ricorre talora all’orzo, è in realtà assai più frequente il caso in cui il grano andato a male per mancanza di ac-quirenti serva per l’alimentazione del bestiame. Il mais e la segale saranno guardati con sospetto in Sicilia ancora all’inizio dell’Ottocento.
Al di là di questa caratteristica qualitativa, però, il modello di consumo che è stato costruito per la Sicilia non si discosta da quanto finora è stato calcolato, con molta difficoltà, da un punto di vista quantitativo, per nume-rose città italiane, tra le quali Roma, Venezia, Napoli, Pavia e Genova stessa:
il primato dei cereali su tutti gli altri alimenti fa sì che il consumo medio pro capite sia stato stimato da 2 a 2,2 quintali di granaglie all’anno, cioè in prati-ca, tra il XV ed il XVIII secolo, in più di sei etti e mezzo al giorno di pane di varia natura. E evidente però che nei vari gruppi sociali le differenze pos-sono essere anche notevoli: i cereali, ad esempio, rappresentano a Genova, all’inizio del Seicento, solo il 20% delle spese alimentari della nobile fami-glia degli Spinola, ma il 43 % degli ospiti dell’Ospedale degli Incurabili, ed addirittura il 56% dell’alimentazione della ciurma di una galera. Così nelle razioni dei braccianti di una masseria del palermitano il grano rappresenta il 54% della spesa complessiva, ma è solo l’11-12% nelle spese del Collegio dei novizi dei Gesuiti di Palermo.
Al secondo posto, tra i più importanti consumi di ‘sopravvivenza’, è un altro alimento comune: il vino. Anche se le razioni necessarie dipendono dall’età e dal sesso, in realtà protegge il complesso della popolazione contro le epidemie meglio dell’acqua (non sempre potabile), poiché per il contenuto di alcool funziona da antisettico ed è quindi una bevanda igienicamente sana;
dà inoltre calorie e forza lavoro agli adulti maschi. Oltre che alimentare ed energetico, il consumo di vino ha poi un aspetto tecnicamente terapeutico (la medicina ne fa infatti ampio uso come base per la preparazione di farmaci) ed un aspetto ludico (inteso come forma di evasione ad ogni livello sociale).
Circa un litro al giorno è la razione mediamente comune non solo all’Italia ma al mondo mediterraneo in generale, pur facendo riferimento a vini molto leggeri.
Anche per i consumi di questo bene si hanno però le stesse differenze di tipo sociale evidenziate per i cereali. A Genova, se nobili e galeotti (cioè la famiglia degli Spinola e la ciurma della nave considerata) risultano acco-munati in questo tipo di spesa (16%) – anche se è evidente che nei due casi qualità e quantità giocano due ruoli diversi! – la percentuale sale a circa il 27% della spesa totale nei costi dell’Ospedale degli Incurabili: d’altra parte, oltre alle funzioni terapeutiche già accennate, la somministrazione in parti-colari comunità di abbondanti razioni di vino è stata definita la «terapia dell’oblio». Così anche a Palermo si ha nei confronti del vino un 34% di spesa da parte dei braccianti contro un 10% dei Gesuiti.
Carne, pesce, formaggio, legumi, frutta e grassi si contendono il resto della ripartizione della spesa individuale per gli alimenti, a seconda dei gruppi sociali: gli Spinola, ad esempio, sopportano a Genova anche un 3% di esborso per lo zucchero, ma nell’area mediterranea è indubbiamente l’olio ad essere in molte regioni assai diffuso ed utilizzato, oltre che – come si vedrà più avanti per lo specifico caso ligure – oggetto di particolare attenzione da parte dello Stato.
Occorre sottolineare, comunque, come questa azione dello Stato, che rappresenta una primitiva forma di intervento pubblico nell’economia (cioè intervento dello Stato sui prezzi dei generi di prima necessità con un azione sull’equilibrio spontaneo del mercato, agendo sulla quantità di merce dispo-nibile), dapprima episodica e senza un piano, cominci a prospettarsi in ma-niera più organica con l’affermazione dello Stato moderno, cioè degli Stati nazionali ed in subordine regionali.
Senza voler proporre una «teoria alimentare della costruzione dello Stato», rimane incontrovertibile che la politica di sussistenza merita di esse-re attentamente considerata almeno per tesse-re ragioni: ha avuto una influenza autonoma sull’edificazione degli Stati; ha assorbito una buona parte del la-voro amministrativo dei governi, tanto che il suo studio permette di chiarire complesse situazioni politico-economiche; è collegata con lo sviluppo del capitalismo agrario e la formazione di nazioni industriali.
Il controllo sui rifornimenti alimentari nella Repubblica di Genova
Il modello posto in essere dalla Repubblica di Genova in età preindu-striale nell’organizzazione e supervisione degli approvvigionamenti urbani dei beni di prima necessità presenta alcune caratteristiche particolari, ma nelle sue linee generali e per molteplici aspetti è estensibile ad altre realtà italiane.
Dopo il 1528, con la nuova Costituzione di Andrea Doria, lo Stato ari-stocratico conosce un periodo di profondo rinnovamento, in passato studiato quasi solo per gli aspetti politico-istituzionali e non nelle sue manifestazioni di carattere economico. Non è stato infatti valutato quanto una serie di riforme, e la creazione di nuove Magistrature (cioè uffici), abbia contribuito a sostenere un potere statuale scosso dalle lotte intestine della classe dirigente.
Grano (cioè pane), vino e olio sono tre aspetti di un medesimo disegno tendente soprattutto a due scopi: ordine pubblico e fiscalità, cioè due dei settori qualificanti del processo di modernizzazione dello Stato. Se a questo si aggiunge la considerazione che lo strumento usato per raggiungere gli scopi suddetti passa attraverso la creazione di nuovi uffici, cioè un processo di burocratizzazione, abbiamo un’ulteriore ragione per valutare il fenomeno diversamente da come è stato fatto in passato.
Che in Liguria il problema del vettovagliamento sia stato sempre di pressante gravità è facile da comprendersi, poiché la regione è pressoché sprovvista di cereali e sopravvive solo grazie alle importazioni dalla Sicilia, dalla Provenza e da altre zone del Mediterraneo: occorre fare in modo che le 270-290.000 anime che la Repubblica di Genova conta alla metà del Cinque-cento possano alimentarsi senza troppe difficoltà. Delle cinqueCinque-centomila mine di grano ritenute necessarie (circa cinquantamila tonnellate), almeno trecen-tocinquantamila sono di importazione, anche tenuto conto dell’apporto dei cereali minori e delle castagne, tradizionale alimento dei contadini dell’Ap-pennino ligure.
Ad una organizzazione annonaria della città capoluogo corrisponde una organizzazione similare, e tendenzialmente modellata su quella della capitale, soprattutto in alcuni centri della Riviera di Ponente (come Savona, Spotorno, Porto Maurizio e Sanremo), tradizionalmente dotati di ampi margini di autonomia nei confronti del centro.
Il problema del controllo sui generi alimentari, e sul grano in particola-re, aveva ricevuto in precedenza, fin dal secolo XIV, una regolamentazione unitaria che faceva capo all’Ufficio dei Censori: tale magistratura era il frutto di una concezione amministrativa non particolarmente raffinata che, nel privilegiare l’elemento del controllo e della repressione, concentrava in questo organo tutti i poteri che potremmo definire di polizia economica. I Censori esercitavano, infatti, il controllo sulle misure e sulla qualità, ma si preoccupavano anche di fare rispettare il prezzo imposto o meta del pane, della carne, degli ortaggi, del pesce; a questo si aggiungeva un altro compito
di grande rilievo economico-fiscale, quale la supervisione delle tariffe, oltre che dei fornai, di quasi tutti gli artigiani.
L’azione dei Censori era quindi più di carattere tecnico-economico che politico-economico e mostra l’inesistenza di sensibilità e di cultura per i problemi alimentari e per le loro possibili conseguenze sociali. Nel Cinque-cento, invece, questa coscienza cresce e la riforma patrocinata dall’Ammi-raglio Andrea Doria pone immediatamente la gestione di questi problemi economici ad un livello politico molto alto: è il Collegio dei Procuratori, la suprema magistratura economica dello Stato, che viene investita, nel 1528, di particolari poteri relativamente al commercio del grano, iniziando quel processo di spossessamento dei Censori e della loro competenza che conti-nuerà, negli anni successivi, con la creazione di uffici specializzati.
Vengono in primo piano, rispetto ai problemi del commercio e del controllo della distribuzione, di cui i Censori tradizionalmente si occupava-no, quello dell’approvvigionamento di graoccupava-no, vino e olio, di cui si preferisce investire persone opportunamente selezionate.
Il Magistrato dell’Abbondanza
L’anno 1564 segna una svolta nella politica degli approvvigionamenti della Repubblica di Genova in quanto, con l’istituzione del Magistrato dell’Abbondanza, si cerca di far divenire operativo un approccio diverso, organico e non più frammentario, al problema delle necessità granarie. Il nuovo organo di governo viene affidato a membri del patriziato (ed anche questa è una scelta che privilegia aspetti di politica economica rispetto a precise competenze tecniche), con un ventaglio di compiti assai vasto, a ga-ranzia di una visione e di un controllo complessivo sul fenomeno, con lo scopo precipuo di assicurare alla città il «pane venale» consumato dai ceti medio bassi: l’Ufficio deve infatti curare la dotazione di una scorta di grano e di granaglie; ha una competenza giurisdizionale volutamente elastica, ri-servandosi il giudizio «in tutte quelle cause nelle quali in qualsivoglia modo avrà o pretenderà di aver interesse», e su tutte le categorie artigiane presenti nel ciclo di lavorazione del grano e del pane (molinari, fornari, farinotti, fi-delari); controlla tutto il commercio all’ingrosso ed al minuto del grano e dei suoi derivati, intervenendo ad amministrare i prezzi e ad imporre rifor-nimenti obbligatori; provvede persino, in casi di particolare necessità, ad edificare forni pubblici ed a produrre pane di Stato.
La Magistratura risolve però solo in parte i problemi per provvedere ai quali era stata creata, ma soprattutto si evolve nel tempo secondo schemi ben diversi rispetto a quelli immaginati dai suoi fondatori: si voleva, infatti, un’azienda da gestire basandosi il più possibile su criteri economici e ci si è ri-trovati di fronte, con il passare degli anni, ad un istituto con finalità assisten-ziali, un apparato non solo gravoso per le finanze statali, ma anche inefficiente nei momenti di maggiore necessità derivati da grave penuria di grani.
Durante la carestia degli anni tra il 1590 ed il 1592, infatti, i cui effetti sono drammatici per la popolazione non solo di Genova e del Dominio, ma di tutto il Mediterraneo, il Magistrato dell’Abbondanza non si mostra all’altezza del compito affidatogli. Sono i Serenissimi Collegi, massimo or-gano politico della Repubblica, che in questa circostanza si riappropriano verso l’esterno della direzione della politica annonaria, ritenendo che la ra-pidità nelle decisioni ed una più ampia responsabilità collegiale siano il modo migliore per assumere provvedimenti di emergenza. Si riesce, in que-sto modo, a provvedere di grano la Repubblica, attraverso l’abile azione di-plomatica di Genovesi accreditati alle corti d’Inghilterra e di Madrid e sfruttando le relazioni mercantili internazionali delle nobili famiglie liguri con il Nord Europa: è infatti l’arrivo di numerose navi olandesi e tedesche cariche di grani del Baltico che risolve la situazione e riporta la normalità in tutto il bacino del Mediterraneo.
Questa prova negativa è una delle ragioni che provoca, nel XVII seco-lo, una serie di proposte di riforma della magistratura, che non sortiscono peraltro alcun effetto.
In circostanze meno drammatiche, tuttavia, durante la carestia del 1678, l’organo annonario genovese mostra di aver fatto tesoro delle precedenti di-savventure. E la situazione generale però che è diversa: la carestia trova la Repubblica che, oltre al possesso di elevate scorte di cereali, ha consolidato buoni rapporti internazionali con i paesi produttori di grano, dal Nord Eu-ropa al Mediterraneo orientale.
I Provvisori del vino
Un secondo momento di incisivo intervento, sempre sui fronte dei consumi popolari, si ha nel 1588 con la creazione congiunta dei cinque Provvisori del vino e dei fondachieri da vino. L’interesse dell’iniziativa non deriva solo e tanto dal fatto di aver costituito un Ufficio che curasse gli ap-provvigionamenti in questo settore, quanto da quello di aver creato
con-temporaneamente una rete statale distributiva del prodotto in regime di monopolio.
La legge, infatti, prevede che si aprano in città diciassette punti di ven-dita (detti fondachi) per i vini comuni (che diventano trenta nel Seicento), e quattro per i vini pregiati; che solo nei locali suddetti si possa vendere vino al minuto, senza però che questi diventino delle osterie: è fatto pertanto espresso divieto di poter mangiare e bere nei fondachi, così come nelle ta-verne possono mangiare e bere solo gli stranieri e non i cittadini genovesi.
Osterie e taverne, luogo naturale di rivendita del vino, sono infatti guardate
Osterie e taverne, luogo naturale di rivendita del vino, sono infatti guardate