Autorità, Illustri Accademici, Signore e Signori,
desidero innanzi tutto ringraziare il Presidente, Professor E. Salvidio, il Segretario generale, Ingegner G.P. Peloso, e gli organi direttivi dell’Accade-mia Ligure di Scienze e Lettere, per avermi offerto l’onore di aprire, con una prolusione, l’anno sociale 2007.
Alla riconoscenza personale si aggiunge anche la gratitudine per la con-siderazione implicita rivolta alla disciplina che io professo, la Storia econo-mica, la quale ha dato, nell’ultimo secolo, un contributo importante ad una più approfondita comprensione del passato dell’economia a noi più prossi-mo, ma anche a quello più lontano, costruendo percorsi di conoscenza, ed offrendo generali chiavi di lettura per i fenomeni storici.
Si è disegnato un quadro ormai abbastanza ben delineato e, in tale contesto, Genova e la sua economia hanno assunto una posizione di rilievo;
ed è sui fondamenti e sulle ragioni storiche di tali vicende, che vorrei oggi svolgere alcune considerazioni.
Se non è certo vero che la storia sia sempre magistra vitae, è assoluta-mente documentabile la sua capacità di creare miti, leggende, stereotipi, o an-che luoghi comuni, an-che persistono nel tempo e nella fantasia popolare e, talo-ra, sono allegramente raccolti anche dalla storiografia. Così, tanto per fare un esempio, i Genovesi dividono con gli Scozzesi la tradizione di un certo attac-camento al denaro, ma non è che gli abitanti delle altre città stiano sempre meglio: a Napoli si canta, a Milano si lavora, a Parigi ci si diverte e così via.
Se si vuole restare entro canoni di correttezza storiografica, si deve parti-re da un pparti-resupposto storico di estparti-rema serietà e rilevanza: Genova, nei secoli del Medioevo e dell’Età moderna, ha rappresentato un esempio di sviluppo economico che ha condizionato, e reso assolutamente originali, anche le fasi della evoluzione delle sue istituzioni politiche e del suo assetto sociale.
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* Pubblicato in: «Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere», s. VI, X (2007), pp. 15-31.
Si è di fronte ad una economia che ha avuto nel commercio e nella finan-za i suoi punti di forfinan-za, e che ha alimentato i motti e le leggende di cui dicevo all’inizio: Genua abundat pecuniis notava uno scrittore seicentesco, fotogra-fando una realtà finanziaria di grande complessità qualitativa e quantitativa, universalmente nota; così la Rota genovese, il più importante tribunale dello Stato, sanciva in una sentenza del XVI secolo il principio, divenuto in seguito quasi proverbiale, est Genuensis, ergo mercator, postulando addirittura una si-tuazione giuridica generalizzata, che non aveva necessità di essere provata:
questo significato indotto, non solo ha prodotto un privilegio processuale, ma ha avuto la funzione di ribadire ulteriormente, e di sottolineare, il dato sociale di una città in cui ricchi, poveri, nobili, plebei, donne, uomini pubblici e privati cittadini, non lasciavano mai il denaro infruttifero; ad essi spettava quindi la qualifica di mercanti senza che dovessero dimostrarlo in giudizio esibendo al-tre prove, o documentando l’esistenza dei requisiti professionali.
Sono espressioni e situazioni che emergono dalla realtà economica che la Repubblica di Genova ha creato e sviluppato; ma, forse, il riscontro più diretto e incontrovertibile si ritrova nelle situazioni ambientali in cui la città è sorta ed ha operato: una analisi che parta dall’ambiente naturale e dai segni che lo sviluppo economico ha seminato nella città, nel territorio circostante regionale, e nei lontani insediamenti d’oltremare, può essere un percorso storiografico diverso, che mi propongo brevemente di sviluppare.
Già parecchi anni orsono, Edoardo Grendi sottolineava come siano state le caratteristiche del territorio che, in larga misura, hanno forzato la vocazione internazionale dell’economia genovese, fin dai tempi più antichi:
avendo la fascia costiera, abbastanza densamente popolata, una profondità non superiore ai 20-30 Km, quasi tutto il settore secondario dipendeva dai traffici marittimi, per l’importazione di materie prime e per l’esportazione dei prodotti finiti.
Con il passare del tempo e con i progressi del trasporto marittimo, il commercio si estende anche a merci povere e, alla fine del Trecento, con la così detta «rivoluzione dei noli», questi tendono ormai a differenziarsi note-volmente anche in relazione al diverso valore dei prodotti trasportati e non più solo con riferimento alla distanza da percorrere per arrivare a destina-zione. La più intensa circolazione di materie prime e di mercanzie realizza, a lungo termine, una maggiore integrazione degli spazi economici; stabilisce legami di complementarietà ed una continuità di scambi con effetti molti-plicatori su numerosi settori di attività.
Si tratta di fenomeni che muovono uomini e merci, e che si prolungano nei secoli. Come esempio si può riportare una testimonianza del 1432, di Enea Silvio Piccolomini, l’umanista che diventerà Papa con il nome di Pio II, che descrive così lo scalo genovese:
Lì è abbastanza sicuro l’approdo per le navi: che vi sostano sempre in gran numero; e vanno e vengono rapidamente ingenti triremi, simili a montagne, e altri tipi di imbarca-zioni; alcune da oriente, altre da occidente, così che tu puoi vedere, ogni giorno, diverse razze di uomini, costumi primitivi e rozzi: ed anche mercanti, che arrivano con ogni ti-po di mercanzia.
Ancora a titolo di esempio si può, poi, ricordare che, all’inizio del Sei-cento, arrivano nel porto di Genova, da tutta la penisola e dall’estero, gli stracci che riforniscono le cartiere della regione, le cui esportazioni riguar-dano non solo l’Europa, ma buona parte del Nuovo Mondo, per circa mille tonnellate all’anno. Quantitativamente assume, poi, un grande rilievo il traffico dei cereali che fa capo al porto genovese, dal quale dipende la so-pravvivenza di tutta la popolazione della Repubblica, cronicamente deficita-ria in tale settore: dapprima i mercati del Mar Nero, successivamente, dopo l’avanzata turca, il Regno di Napoli e la Provenza, sono i principali centri di approvvigionamento, ma anche la base di importanti traffici per conto terzi, che da sempre caratterizzano la marineria della Repubblica. Non era certo per semplice lode che un anonimo scriveva, intorno al 1430 che
l’opinione sulla nostra gente è diffusa ovunque al punto che coloro che per commerciare vanno in terre straniere, trasportati su navi genovesi, vengono condotti in mari sicuri dal vento e dalle tempeste, come se navigassero nel porto.
Fino alla metà del Seicento il mercato a cui sono interessati gli operatori che gravitano intorno allo scalo ligure, comprende tutta l’Europa occiden-tale, le coste africane del Mediterraneo, le isole atlantiche. I brillanti risultati conseguiti, sia in campo commerciale che, come vedremo, anche finanziario, sono, però, il risultato dell’attività di un numero ristretto di imprenditori residenti a Genova: dalla loro sede nella Dominante, essi operano come ca-pofila nei confronti di una costellazione di imprese sparse per il mondo, con i cui titolari sussistono collegamenti societari, affinità parentali, solidarietà di casta. Il nucleo di origine delle prime forme associative degli organismi commerciali è, infatti, la famiglia, ed ogni articolazione all’estero rappresenta, contemporaneamente, una presenza nella scacchiera economica generale ed il caposaldo di un sistema d’imprese economicamente integrato. Non si ri-vela vincente soltanto la superiorità di risorse economiche e di
organizza-zione, ma prevale la capacità di affidare la formulazione delle proprie scelte strategiche a precise analisi dei singoli settori, della concorrenza e dell’am-biente economico-sociale, in virtù di una serie di informazioni, tendenzial-mente complete, ottenute attraverso i propri collegamenti internazionali e finalizzati alle decisioni economiche.
Questi dati di fatto, che sono non solo economici, ma anche culturali e di mentalità collettiva, si rispecchiano nella organizzazione dello spazio cit-tadino e corrispondono alle scelte politiche e sociali dello Stato.
Emerge, sopra tutto, la centralità della complessa articolazione delle infrastrutture portuali: essa rappresenta, per sua natura, una organizzazione dello spazio condizionata dalle necessità degli operatori economici, dalle esigenze dei vettori e dallo sviluppo dei traffici di transito, assai più che dal trend demografico della città, dai mutamenti sociali e dall’evoluzione dell’or-ganizzazione delle manifatture; lo scalo ha un riscontro architettonico, quasi un interlocutore che parla la stessa lingua dei traffici, dei commerci, delle mer-ci e degli indispensabili magazzini, ed è la lunga palazzata di Sottoripa.
A fare quasi da sentinella istituzionale ed a richiamare immediatamente la necessaria dialettica fra economia e politica, al centro dell’arco portuale si erge il Palazzo a mare, prima residenza del Capitano del popolo, ma tra-sformato, in seguito al sempre maggiore sviluppo dell’attività portuale, in Ufficio della Dogana ed esattoria delle gabelle, e successivamente, dal 1443 fino al 1797, sede della Casa e del Banco di San Giorgio: un manufatto ur-bano che, rifatto, ampliato, ornato, è per secoli il simbolo del potere eco-nomico del patriziato genovese.
Lo spazio portuale, però, è funzionale ad un sistema economico e di mercato in evoluzione. All’inizio del Duecento lo circondano i grandi mer-cati coperti del grano e dei legumi, oltre a quello dei pesci e dell’olio; lo completano la Darsena delle barche o del vino, cioè l’approdo del commer-cio di cabotaggio, e la Darsena delle galere, rifugio delle navi mercantili e da guerra; luogo di costruzione delle galere e di deposito del loro armamento, è poi l’Arsenale, che per la Repubblica di Genova non ha mai un’importanza prettamente militare, come a Venezia.
Nello scalo genovese, tra il 1550 ed il 1650, vi è una notevole espansione degli investimenti in infrastrutture, sia da parte delle nuove Magistrature an-nonarie, che della stessa Repubblica e della Casa di San Giorgio, funzionali anche alle necessità di una oculata politica degli approvvigionamenti, come in ogni città capitale. Solo dal 1609, tuttavia, con l’istituzione del «Portofranco
generalissimo per tutte le merci», si assiste ad una radicale trasformazione dei criteri con cui erano stati concepiti i magazzini in precedenza. Da semplici locali per una sosta, in attesa dell’espletamento delle operazioni doganali, i depositi devono diventare edifici capaci di ospitare una grande quantità di prodotti per periodi di tempo assai lunghi: i Magazzini della Dogana del Portofranco ri-sultano composti a quest’epoca da dieci quartieri, per complessive 355 unità;
una vera e propria città con regolamenti e leggi speciali, emanate dalla Casa di San Giorgio prima, e successivamente dalla Camera di Commercio.
Non è certo casuale, per una città che ha individuato ed esaltato le zone e gli edifici maggiormente funzionali alla sua struttura economica, che esista poi uno spazio che ha il nome di Piazza Banchi. Sarebbe facile, dalla deno-minazione che richiama l’attività dei cambiatori di monete, operare un col-legamento con le future fortune finanziarie dei banchieri genovesi: sarebbe facile, ma riduttivo, per un luogo che si è a lungo proposto come il cuore pulsante della città. Per le coscienze assalite da dubbi morali, non manca una chiesa; vi sono dei palazzi nobiliari; ma la piazza è soprattutto il centro delle attività commerciali, in una città che su di esse vive, fin dai tempi più antichi, perché è vicina al porto e a Palazzo San Giorgio; è uno dei luoghi, forse quello più importante, dove i banditori rendono di pubblico dominio gli editti del Governo; è in essa che hanno luogo le più importanti vendite all’incanto; infine vi vengono lette dal messo del Comune le dichiarazioni di fallimento. È anche il centro dove si radunano notai, cambiavalute, sensali, assicuratori, mercanti: e proprio dai banchi dei notai e dei cambiatori, come ho già detto, pare che essa prenda il nome. Si tratta del cuore economico della città, e tale rimane dal Medio Evo fino alla creazione ottocentesca di Via Giulia (ora via XX settembre) e di Piazza De Ferrari.
Nel XVI secolo viene aggiunto un luogo di riunione coperto (il primo progetto è del 1568), che fa indubbiamente riferimento al modello tipologi-co medievale della «loggia pubblica dei Mercanti», che Genova non ha mai avuto, e a quello della corte loggiata esistente come Borsa a Bruges e ad An-versa. Come accade anche in queste importanti città commerciali europee, la diversificazione di funzioni di Piazza Banchi è concomitante con l’evolversi della struttura organizzativa dell’attività mercantile. Nel Medioevo si possono individuare, infatti, varie figure di uomini di affari: mercanti di corte, mercanti per le abbazie, commercianti all’ingrosso di generi alimentari, commercianti all’ingrosso e al minuto di merci manufatte, venditori ambulanti, venditori di schiavi, importatori di generi orientali di prima necessità. Dopo l’undicesimo secolo, con la cosiddetta Rivoluzione commerciale, l’aumento demografico e
la ripresa dell’agricoltura permettono di dedicare risorse umane e finanziarie ad un maggiore sviluppo dei traffici: tra l’XI ed il XIV secolo, il commercio diventa il settore più dinamico dell’economia in un numero crescente di paesi. L’immagine più consueta che l’iconografia ci consegna per il mercante di questo periodo, è quella di «uomo dai piedi polverosi», che si muove su un sistema di strade poco sicuro e deteriorato, che solo lentamente acquista diritti operativi e protezione per la migliore conduzione degli affari. La Chiesa stessa, che aveva rallentato il processo di sviluppo della mercatura, condannandola per i fini di lucro che si proponeva, arriva a parificare nei di-ritti e nella protezione il mercante al pellegrino (ribadendo nella circostan-za, appunto, la figura tradizionale del mercante itinerante).
Per tutto questo periodo, infatti, ed anche per buona parte dell’Età mo-derna, il mercante accompagna le proprie merci, assumendosi spese e noie di trasporto: non ha ancora un compratore predeterminato, cioè un committen-te. I suoi mercati sono le fiere (locali, nazionali o internazionali) e special-mente i porti. Da qui deriva la necessità di un luogo di incontro per mercanti, sensali, assicuratori, ma anche banchieri, o meglio mercanti-banchieri, data l’abituale e diffusa mancanza di specializzazione: un luogo che abbia anche la funzione di favorire la sinergia tra mercanti e capitalisti, per dare vita a quelle associazioni di capitali che permettano l’espansione commerciale, poiché i contraenti non hanno ancora sedi o uffici stabili.
Solo con il progredire e l’intensificarsi delle attività commerciali e con il sorgere delle grandi case mercantili, dotate di corrispondenti e di filiali sparse nei vari paesi, il mercante può non condurre più la vita girovaga di un tempo: la sede dell’azienda coincide spesso con la sua abitazione, ed egli combina molti affari attraverso i contatti personali, continuando quindi a frequentare la loggia, ma deve trovare un parente, un amico, un commesso che accompagni, sia per mare che per terra, tutta la merce che spedisce.
Una evoluzione fondamentale avviene nel XVII secolo, con il fiorire di Amsterdam: l’affermarsi di una nuova attività specializzata, lo spedizioniere, per conto del quale viaggiano i vetturali per i trasporti terrestri, a cui corri-sponde il cargadore o sensale di noli nei trasporti marittimi. Nascono con-temporaneamente le polizze di carico e le lettere di vettura, cioè i docu-menti rappresentativi delle merci che permettono al ricevente il controllo di qualità e quantità delle mercanzie arrivate.
Non per questo la «loggia dei mercanti», come quella costruita in Piazza Banchi, perde la sua funzione, e proprio la necessità di reperire spazi più
ampi e organizzati, non solo per le operazioni commerciali, ma anche per le contrattazioni finanziarie (cioè i prestiti in cui i Genovesi eccellono dal XVI secolo) è alla base della ristrutturazioni che progressivamente vi vengono attuate. Sebbene si continui a parlare infatti di Loggia dei mercanti si può dire in realtà che inizi una nuova fase di sviluppo di questo luogo: in tutta Europa tra Cinque e Seicento si stanno infatti sviluppando le Borse, poiché gli incontri periodici non sono più in grado di sopperire alle necessità dei mercanti e dei finanzieri. Alle prime istituzioni di carattere esclusivamente finanziario, le fiere dei cambi trimestrali – su cui tornerò –, dove vengono compensate le lettere di cambio e dove si procede a formare il listino dei cambi, si sostituiscono le Borse a Bruges, a Anversa, a Lione, a Londra, solo per citare le prime da un punto di vista cronologico. Oltre alle lettere di cambio (cambiali in valuta estera) si iniziano a trattare i prestiti (fondi pub-blici) e lentamente anche le azioni. Accanto alle prime Borse valori iniziano poi ad operare le prime Borse merci, grazie all’affermarsi di una nuova tecnica di vendita su campione e del concetto di fungibilità delle mercanzie. Amster-dam, ad esempio, all’inizio del XVII secolo, ha tre Borse: la più importante è quella finanziaria; poi vi è la seconda, per le merci ed una terza esclusiva-mente per la contrattazione dei cereali.
Anche a Genova, la Loggia di piazza Banchi inizia a svolgere queste stesse funzioni, né il nome deve trarre in inganno: anche altrove, infatti, si continua-no ad usare i vecchi luoghi di riunione dei mercanti, al punto che il francese Ricard definisce nel 1686 il termine Borsa come «il luogo d’incontro di ban-chieri, mercanti e negozianti, agenti di cambio e di banca e altre persone».
Già nel più lontano passato il sistema del credito e la crescita economica delle città sono in stretto e quasi naturale rapporto: fino a quando la vita eco-nomica si svolge nel quadro del sistema feudale, la mancanza di capitali mobi-liari e monetari non è sentita in misura rilevante, ma, in concomitanza con lo sviluppo sempre maggiore dei commerci – che postula la necessità di stru-menti atti a surrogare i capitali monetari – si cerca di ovviare a questa situazio-ne di carenza. L’esercizio del credito rimasituazio-ne tuttavia a lungo non regola-mentato, e spesso illegale e, comunque, gli alti tassi (30-40 %) impediscono ai mercanti e agli artigiani di procurarsi i capitali necessari, poiché l’utile otte-nuto dall’investimento risulterebbe sicuramente inferiore al costo: la clientela di questi banchieri-usurai è pertanto all’inizio costituita principalmente da gente bisognosa di denaro per l’acquisto di beni di consumo (ed è come reazione a questo fenomeno che nasceranno i Monti di Pietà).
Il Quattrocento risente ancora della concezione medievale – quella uffi-ciale della Chiesa – che considera immorale ogni forma di trasferimento one-roso del danaro: in quest’ottica è vista con sospetto anche la lettera di cambio, considerata un prestito camuffato, come in effetti diventerà, anche quando sottende una operazione commerciale; se ne limita la liceità solo al caso in cui sia tratta su un’altra piazza ed in una moneta diversa da quella del traente: in questo modo l’interesse viene occultato all’interno del tasso di cambio.
Protagonisti nel settore del credito sono i mercanti-banchieri, cioè dei soggetti economici non specializzati che aprono conti correnti e ricevono depositi, inizialmente, almeno in apparenza, senza corrispondere alcun inte-resse. L’apertura del conto serve al cliente per facilitare i propri pagamenti, le riscossioni e le operazioni di giro «per scritta», cioè con l’iscrizione della partita nei libri contabili del mercante-banchiere (che tiene un Banco). Da parte sua, quest’ultimo, può disporre delle somme raccolte per i propri affa-ri (mercantili, assicurativi, imprenditoaffa-riali), acquista una sempre maggiore credibilità professionale e sociale e, utilizzando i mutamenti e le aperture dottrinali della stessa Chiesa, può iniziare a corrispondere un ‘giusto’ inte-resse ai depositanti.
Genova è stata nel Medioevo e nell’Età moderna, un centro in primo piano anche nella genesi e nello sviluppo tecnico dell’attività creditizia. La tradizione cittadina in tema di banca è molto antica e già nei più vecchi registri notarili del XII secolo compare la denominazione di bancherius a designare una professione: con questo termine si indicano infatti a Genova, all’inizio, i cambiatori manuali di monete, (o campsor, cambiator), chiamati altrove argentari o nummulari. Essi tengono il loro «bancho» o tabula all’aperto (tabula cambii), in piazza, vicino alle chiese, nelle logge private della nobiltà mercantile, dove questa discute di affari. A Genova li troviamo, appunto, in piazza Banchi, o presso la Cattedrale di San Lorenzo o nelle vicinanze di Palazzo San Giorgio: oltre al cambio delle specie monetarie, sul quale per-cepiscono una provvigione, esercitano di norma anche il commercio dei
Genova è stata nel Medioevo e nell’Età moderna, un centro in primo piano anche nella genesi e nello sviluppo tecnico dell’attività creditizia. La tradizione cittadina in tema di banca è molto antica e già nei più vecchi registri notarili del XII secolo compare la denominazione di bancherius a designare una professione: con questo termine si indicano infatti a Genova, all’inizio, i cambiatori manuali di monete, (o campsor, cambiator), chiamati altrove argentari o nummulari. Essi tengono il loro «bancho» o tabula all’aperto (tabula cambii), in piazza, vicino alle chiese, nelle logge private della nobiltà mercantile, dove questa discute di affari. A Genova li troviamo, appunto, in piazza Banchi, o presso la Cattedrale di San Lorenzo o nelle vicinanze di Palazzo San Giorgio: oltre al cambio delle specie monetarie, sul quale per-cepiscono una provvigione, esercitano di norma anche il commercio dei