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Architettura e norme nella letteratura recente

PARTE PRIMA

1. La fondazione dell’architettura: regole e modell

1.4 Architettura e norme nella letteratura recente

In virtù della centralità della questione normativa all’interno del discorso architet- tonico fin dalla sua genesi, e il continuo ricorrere al concetto di regola tanto nella osservazione e spiegazione dei fenomeni architettonici quanto nella definizione stessa del campo di conoscenze che ne informano i discorsi, la normatività e le sue dinamiche sono quindi profondamente interrelate con la disciplina. Nonostan- te questa profonda correlazione, però, il rapporto tra l’architettura e le norme è scarsamente studiato, e la maggior parte dei testi recenti che si occupano dell’ar- gomento lo affrontano senza porre al fulcro del loro ragionamento il rapporto tra le norme e la forma architettonica. Nonostante questa distanza, la serie di posizioni che questi testi esprimono, ed alcune delle loro argomentazioni, servono come base per una serie di ragionamenti di cui questo lavoro si occupa, inerenti più strettamente i risvolti formali della normatività. Le loro posizioni, qui riassunte,

interessano però più strettamente le dinamiche sociali, politiche e storiche che riguardano il rapporto tra architettura e regole, e la forma viene da questi consi- derata in maniera sostanzialmente aneddotica, quando non direttamente esclusa dall’orizzonte di ricerca. I testi che affrontano l’argomento da un punto di vista prevalentemente incentrato sugli aspetti sociali della relazione tra architettura e norme hanno per oggetto la posizione dell’architetto nella società, e considerano il dominio normativo come parte di questa. I lavori considerati includono resoconti brevi di ricerca (Imrie 2007; Imrie and Street 2009, 2014) comprendenti interviste a gruppi di architetti professionisti riguardanti il rapporto tra regole e professione, e in alcuni casi tra regole e progetto. Essi integrano anche approfondimenti che riguardano soprattutto la asserita percezione della disciplina, da parte degli archi- tetti, come di un oggetto autonomo ed esterno rispetto alla società. Queste entre- rebbero in collisione accidentale ogni volta che un progetto di architettura deve ‘discendere’ dal mondo dell’autonomia disciplinare al ‘mondo reale’, incontrando resistenze ed adattandosi di conseguenza.

Questo modello di interazione tra progetto e realtà sociale è al centro del suc- cessivo lavoro di Rob Imrie e Emma Street, Architectural design and regulation (2014) nel quale gli autori invocano una maggiore embeddedness della figura dell’architetto nella società, anche tramite un cambio radicale nel suo rapporto con la normatività. Da elementi ‘calati’ sul progetto a posteriori, a parti legittime del processo progettuale. Questa posizione, pur argomentata anche attraverso le interviste condotte nei lavori precedenti degli stessi autori, non considerano le questioni formali come rilevanti all’interno del dibattito, che vengono comple- tamente tenute al di fuori. Seppure la posizione di Imrie e Street sia, all’interno del paradigma sociale da essi considerato, apparentemente ragionevole, essa non viene mai in contatto con la ‘realtà bruta’ della professione che pure sta al centro del ragionamento.

Questa è invece considerata centrale nel lavoro di Ben-Joseph (2005) e Ben-Jo- seph e Szold (2005) il cui fulcro di ricerca è la propagazione degli standard come processo di ‘clonazione’ piuttosto che di ‘mutazione’ (Ben-Joseph, 2005:189). La

preoccupazione dell’autore per il processo di omologazione che nascerebbe da una regolamentazione troppo rigida è analoga a quella espressa da Banham et al. (1969), ed è incentrata sulla necessità di ‘difendere’ l’azione progettuale come pro- cesso consapevole di produzione di forme, dinamica rispetto al tempo, allo spazio e alle condizioni socio-economiche. Le norme, secondo questa visione, avrebbero l’effetto di ‘bloccare’ queste possibilità espressive, che sono invece necessarie alla vitalità della disciplina rispetto alle possibilità interpretative del contesto sociale. Curiosamente, seppure la posizione di critica nei confronti del normativo espressa da Ben-Joseph sia utilizzata nel lavoro di Imrie e Street (2014) evidenziando come la percezione negativa delle norme da parte degli architetti sia spesso ingiustifi- cata, entrambi si riferiscono positivamente rispetto a una maggiore possibilità di aderenza del progettuale al sociale. In Imrie e Street (2014) le norme sono par- te integrante di questo ambito sociale. Al contrario, Ben-Joseph, laconico fin dal

claim iniziale del libro —no single person dreamed of constructing a sprawling

monotonous suburbia in the jungle of the Amazon [...] It was the codes and the standards—, ritiene che queste abbiano come effetto principale quello di rendere superfluo un accurato studio delle condizioni di contorno e siano quindi responsa- bili dello iato, del quale l’autore offre esempi anche in riferimento alle questioni formali, tra architettura e contesto sociale. L’attenzione di Ben-Joseph è però ri- volta all’esterno sia dell’approccio sociologico utilizzato da Imrie, sia dallo studio specifico delle interazioni tra normativo e formale, e fornisce piuttosto una critica radicale alla genesi e alle diffusione delle normative architettoniche, inquadrando- la come un problema eminentemente politico. Egli ripercorre lo sviluppo storico di alcune delle principali problematiche originate dal normativo sul progettuale, asserendo che il loro sviluppo e loro diffusione sia imputabile a una serie di mec- canismi storicamente determinati, spesso correlati al soddisfacimento di una esi- genza momentanea che si è affermata ingiustificatamente, più che con uno svilup- po critico e consapevole dell’elaborazione normativa. Egli agisce però in maniera episodica, più che per inquadrare l’argomento all’interno di una struttura logica chiara, per enumerare esempi di effetti deteriori di una standardizzazione operata

su presupposti politici. Vengono citate in successione la determinazione dei mo- delli di insediamento e la configurazione delle infrastrutture urbane (2005:38), la costruzione delle fognature attraverso sistemi eminentemente idraulici a detrimen- to di altri sistemi, abbandonati anche se in prospettiva più efficienti (2005:78) o gli effetti perversi della burocrazia e degli standards nella costruzione di nuovi inse- diamenti (2005:101). In particolare rispetto a questo ultimo argomento, seppure il ‘racconto’ di Ben-Joseph sia estremamente accurato, la selezione dei casi studio è utile soprattutto ad enunciare il concetto, più che ad esplorarlo o a raccoglierne la portata: gli standards e le norme possono bloccare soluzioni progettate ‘al di fuori’ di essi, che possano dimostrarsi migliori di quelle offerte dagli standards stessi. Alex Lehnerer (2009) opera invece un tentativo di ‘catalogo’, in maniera para- tattica, delle norme che influenzano a vario titolo diversi episodi architettonici. Egli effettua questo tentativo a valle di una serie di ricostruzioni storiche affini a quelle compiute da Ben Joseph. Queste, diversamente da quest’ultimo testo, con- sistono però in estratti estremamente sintetici, finalizzati a riportare l’occorrenza della norma elencata nel catalogo. Tra queste regole vi sono ovviamente norme urbanistiche statali o locali, come la Setback Street Ratio, implementata dalla zo-

ning law di New York del 1916 (p.82), o la larghezza minima del lotto edificabile

(p.67) vi sono altresì regole tecniche, finalizzate al raggiungimento di obiettivi specifici come quella che viene definita Public Place Acceptance che definisce il successo di uno spazio pubblico in funzione della presenza di sedute—People like to sit where there are places to sit (p.179)— vi sono però anche regole di econo- mico-sociali come la Invisible Hand di Adam Smith e definizioni che non fanno invece parte del dominio deontico, come “freedom is the absence of coercion” e assunti fenomenologici derivati dalla letteratura come la “multi function streets” invocata da Jane Jacobs18 (p.67). Il testo presenta una estrema eterogeneità, ma

18 Jacobs sviluppa quattro caratteristiche della diverse city, che possono essere sintetizzate in proposizioni descrittive, da cui derivano quattro proposizioni deontiche: (i) “the need for primary mixed use” (ii) “the need for small blocks” (iii) “the need for aged buildings” (iv) “the need for con- centration”. Il costrutto della parte II del libro è una ricerca fenomenologica sul Greenwich Village di

in rapporto alla tensione tra regole e forma architettonica l’autore sembra ricono- scere alle norme, tramite una conclusione sperimentale basata sull’applicazione di esse a fini progettuali, il ruolo di strumenti pienamente disciplinari. La assenza però di una specificità normativa della disciplina sembra pesare sul testo, che, essendo incentrato su una ricostruzione aneddotica e paratattica dell’applicazione di norme non sembra mettere in discussione gli assunti del loro utilizzo. Se anche le norme possono essere considerati strumenti tramite i quali operare sulla forma architettonica, esse non sono però derivate dalla disciplina, e Lehnerer non ne mette in discussione la natura, ma si limita piuttosto a fornire un utile e ben confe- zionato handbook per gli architetti che volessero ‘giocare’ con esse. Limitando il suo studio alla dimensione storica, e spesso storicizzata del problema normativo, e integrando le norme nel progetto, egli evita il processo inverso —di utilizzo del progetto come strumento normativo— e di fatto non ponendo il problema della tensione norma-forma. Questo oggetto rimane, per quanto i lavori qui descritti lo tangano dalle più svariate direzioni, infatti largamente inesplorato. Il progetto di architettura, al di là di alcune considerazioni di Imrie e Street (2014) è infatti costantemente interpretato come processo estraneo al dominio deontico, se non addirittura in diretta contrapposizione con esso.