PARTE TERZA
2. Architetto e nomoteta: Luigi Snozzi a Monte Carasso
2.3 Un rompicapo normativo
Durante la sua lunga e fortunata carriera, Luigi Snozzi ha avuto un rapporto pro- fondo e problematico con le norme. Il suo impegno a Monte Carasso inizia nel 1979, anno nel quale gli viene richiesto di redigere il progetto della nuova scuola del villaggio. Al progetto era già stato assegnato, dal piano urbanistico realizzato dal modernista Dolf Schnebli, un lotto periferico. Piuttosto che limitare la sua azione progettuale al lotto ed al programma assegnato, Snozzi ha messo in di- scussione il piano fino al punto di proporre la localizzazione del progetto al centro del villaggio, attraverso il restauro e l’adattamento del vecchio monastero abban- donato. Si è trattato dell’inizio di una relazione forte e duratura con le autorità del villaggio, che ha in seguito portato alla dismissione del vecchio piano ed allo sviluppo di uno nuovo ad opera dello stesso Snozzi.50
Il nuovo piano, secondo le parole di Snozzi, puntava a densificare il paese attra- verso la creazione di un ambiente urbano denso che nella sua visione era, in quel momento, minacciato da uno sprawl incoraggiato e favorito —secondo lo stesso Snozzi— dal regolamento edilizio esistente.51
Secondo le numerose descrizioni che Snozzi ha dato della vicenda, la sua azione normativa è composta da sette semplici regole, enunciabili senza un grande sforzo mnemonico, facilmente comprensibili anche per i non specialisti. Anche il nu- mero delle regole lascia presupporre un approccio piuttosto radicale, specie se si prende in considerazione che il piano precedente, nelle parole dell’architetto, ne contava 25052. Nonostante l’estrema concisione della loro formulazione, quello
che è realmente interessante in queste enunciazioni è l’approccio alla normazione estremamente originale, e per certi versi anche aberrante. Le sette Regole sono così enunciate53:
50 Lazzati e Lo Conte (2014:35). 51 ibid.
52 Di Franco (2016:178).
Regola 1. Ogni intervento deve tenere in considerazione e confrontarsi con la struttura del luogo
Regola 2. Una commissione di tre esperti di questa struttura è nominata per esa- minare i progetti
Regola 3. Nessun obbligo è posto sul linguaggio architettonico. Forme del manu- fatto, tipologie di copertura e materiali non sono soggetti a nessun obbligo Regola 4. Per favorire la densificazione tutte le distanze minime con i vicini e con le strade sono abolite
Regola 5. L’indice di sfruttamento è alzato da 0,3 a 1
Regola 6. L’altezza massima degli edifici è di tre piani. Per consentire la realizza- zione di un tetto piano è permesso un supplemento di 2 metri
Regola 7. è obbligatorio elevare muri di 2,5 metri di altezza sulle strade, questa quota può essere ridotta a 1,2 dal comune
Queste regole possono essere divise in tre gruppi omogenei per tipologia: la regola 1, pur sintatticamente deontica —impone cioè degli obblighi— è latrice di una aporia che può minarne il valore deontico. Le regole 2, 3 e 4 non impongono nes- sun comportamento specifico, mentre le regole 5, 6 e 7, le uniche effettivamente deontiche, riportano misure specifiche a cui tutte le costruzioni devono sottostare. La prima regola “ogni intervento deve tenere in considerazione e confrontarsi con la struttura del luogo” come summenzionato ha una formulazione deontica, impone cioè un obbligo. Ciononostante introduce un concetto, non meglio de- finito dall’architetto-nomoteta (o almeno non meglio enunciato), che poggia su una conoscenza tecnica che deve essere posseduta da qualcuno che conosca la “struttura del luogo” e sappia come “tener(la) in considerazione” e “confrontar(e)” ogni intervento con essa. In altre parole, non prenderla in considerazione e non confrontarsi con la struttura del luogo è ritenuto sia possibile che desiderabile. Così facendo Snozzi stabilisce un modo di validazione degli interventi edilizi che è contemporaneamente tecnico e ideologico.
È tecnico perché stabilisce la necessità di operazioni tecniche —(i) la valutazione della struttura del luogo; (ii) l’interpretazione del suo carattere e (iii) l’interpola- zione tra questa e il nuovo edificio— È importante notare che in ognuna di queste operazioni risiede un margine di discrezionalità: nella valutazione della struttura del luogo ci si può concentrare su determinati caratteri piuttosto che su altri, nella interpretazione di questi caratteri può essere enfatizzata una componente a scapito di un’altra (relazionale, materiale, formale etc..) e la terza operazione non necessa- riamente implica l’adozione di un atteggiamento formale specifico ma può spazia- re dalla più fedele aderenza alla critica aperta alla “struttura del luogo” senza per questo mancare di “tener(la) in considerazione” e “confrontarsi” con essa. È ideologico54 perché stabilisce un télos a priori, scollegato da delle considerazioni
di convenienza o liceità, —come ad esempio una enunciazione del ‘perché’ l’ope- razione di consideraizone e confronto con la ‘struttura del luogo’ dovrebbe essere desiderabile— sostenendosi su tre nodi ideologici difficilmente dimostrabili e cioè l’esistenza di una struttura univoca del luogo, l’intelligibilità di questa struttura, e le implicazioni morali negative insite nell’inosservanza della struttura stessa. Il supporto ideologico esplicito sul quale Snozzi costruisce la sua elaborazione normativa la espone ad un rischio di cattiva interpretazione che può minare il suo discorso alla base ed aprire la strada a praticamente qualsiasi risultato formale. In breve questa regola può quindi essere considerata superflua, posta la non neutralità degli schemi interpretativi che però non vengono forniti o specificati.
Il secondo gruppo di regole, dall’altra, non implica nessun obbligo misurabile.
54 Come sottolineato da Kai Nielsen in “The Concept of Ideology: Some Marxist and Non-Marxist Conceptualizations.” Rethinking Marxism 2, no.4 (1989: 156) Williams offre una defini- zione di ideologia come un “processo generale di produzione di idee e significati” (the general process of the production of meaning and ideas) (Williams, 1977:55). A prescindere dal contesto, marxiano, nel quale la definizione è proposta, è importante sottolineare l’idea che il concetto di “struttura del luogo” è utilizzato da Snozzi per generare una “famiglia di idee” che abbiano degli effetti sugli edifici da progettare. È un concetto che ovviamente non esiste in natura ma è il risultato di un’elaborazione culturale che si riflette sulle azioni (sia progettuali che normative), in questo caso, dell’architetto.
Esse operano in maniera adeontica, senza quindi imporre dei comportamenti a nessuno. Ciononostante il loro apporto nei confronti dell’ambiente costruito è di fondamentale importanza. La domanda è quindi: come operano queste regole? La seconda regola, “Una commissione di tre esperti di questa struttura è nominata per esaminare i progetti” come summenzionato, non pertiene all’ambito deonti- co. Essa quindi non pone nessun obbligo né per il pubblico né per i tre esperti, pur dichiarando che il loro ruolo è quello di esaminare i progetti. Questa regola pertiene all’ambito delle regole costitutive ed in particolare essa è una regola eide- tico-costitutiva55 che costituisce condizione necessaria alla propria realizzazione:
la regola costituisce la commissione e ne dichiara i fini. Senza questa regola la commissione non esiste nello stesso modo in cui la regina non esiste senza le rego- le degli scacchi.56 Essa non stabilisce che la commissione debba essere nominata
e da chi; piuttosto, stabilisce che la commissione è nominata. A dimostrazione di questo punto, a partire dalla adozione della regola e per i successivi dodici anni la commissione di tre esperti è formata dal solo Luigi Snozzi.57
Questa regola è il primo supporto al quadro tecnico-ideologico introdotto con la prima regola. In particolare ne riconosce i limiti interpretativi e li ancora alla com- petenza tecnica incarnata dai tre esperti. Gli esperti devono sapere cosa è la strut- tura del luogo, come interpretarne il carattere e come interpolarlo con il progetto. È interessante notare che la commissione è composta da un numero di esperti che consente di risolvere le dispute interpretative con un voto a maggioranza, come a riconoscere la potenziale fallacia della loro competenza tecnica.
La terza e quarta regola —Nessun obbligo è posto sul linguaggio architettonico. Forme del manufatto, tipologie di copertura e materiali non sono soggetti a nessun obbligo e Per favorire la densificazione tutte le distanze minime con i vicini e con le strade sono abolite— come la seconda non pongono nessun obbligo, ma diver-
55 Conte (1986:54).
56 “Le regole eidetico-costitutive sono condizione necessaria di pensabilità e possibilità di ciò su cui esse vertono” Conte (1983:52).
samente dalla precedente esse escludono la possibilità di avere delle regole in un dato dominio: nella terza regola questo dominio è rappresentato dai materiali, dal- le forme e dalle tipologie del tetto, mentre nella quarta regola questo è rappresen- tato dalle distanze dai confini di vicinato e stradali. Non è chiaro quindi se questa regola stabilisca l’abolizione di questi obblighi dal codice di Schnebli (ma sembra implausibile, dato il fatto che nei discorsi di Snozzi il piano si configura come una sostituzione del precedente), nel qual caso deve essere interpretata come una regola thetico-costitutiva, che costituisce condizione necessaria e sufficiente alla propria realizzazione (nella forma: ogni regola riguardante il dominio X è abolita), o se questa regola riguardi la commissione, nel qual caso si tratta invece di una re- gola deontica i cui addresses sono i commissari, i quali nelle loro valutazioni sono dispensati dall esprimersi in merito a “forme del manufatto, tipologie di copertura e materiali”. Quest’ultimo caso è piuttosto controverso dato che la valutazione dei progetti sottoposti alla commissione non può che basarsi esattamente sulla forma e sui materiali.
Se nessuna di queste spiegazioni sembra plausibile, è perché queste due regole servono, in realtà, come secondo supporto, ancora una volta, al quadro tecnico-i- deologico presentato nella prima regola. Se il primo supporto serve a definire gli interpreti tecnici della struttura del luogo, questo secondo supporto afferma che non esiste un singolo carattere che possa essere considerato un datum nel processo di interpretazione: ogni cosa deve passare attraverso la valutazione tecnica della commissione. La terze e la quarta regola servono perciò per ‘proteggere’ i com- missari dalla rigidità che una valutazione di liceità dei materiali o delle forme dei manufatti costituirebbe. L’atto dei commissari è un atto progettuale, autonomo ed escluso dal campo normativo. La commissione sembra, a questo punto, godere di un enorme potere nel determinare i prodotti progettuali del piano, anche conside- rando la relazione tra la commissione e i progettisti come un rapporto dialettico. Questa ipotesi è corroborata da ciò che l’architetto, in diverse conferenze pub- bliche, ha asserito essere un principio cruciale della sua attività di nomoteta a Monte Carasso, al punto che egli arriva a descriverla come una ottava regola, ‘non
scritta’:
Regola 8 (e non scritta). Ogni regola può essere dispensata se la commissione riconosce una corretta interpretazione della struttura del luogo.
Come abbiamo rilevato precedentemente, il conflitto tra attività progettuale e tra- duzione verbale è rilevato in questa occasione da Snozzi, data anche la radicalità della ‘regola’: essa è per l’architetto, una constatazione ovvia, che rimanda alla scelta progettuale l’individuazione della strategia migliore, ‘eliminando’ il conflit- to tra il progetto e le norme. Questa opera in due distinte parti: la prima determina la mancanza di validità di ogni regola, operando come un dispositivo thetico-co- stitutivo: che ogni regola possa essere dispensata nella condizione X, significa banalmente che non esistono regole quando si verifica quella condizione. La se- conda parte è relativa alla corretta interpretazione della struttura del luogo: anche se è stato già osservato per la prima regola, questa volta non si tratta di un concetto positivo al quale il progetto debba conformarsi, piuttosto è usato come dispositivo, appunto, thetico costitutivo. Se ogni regola può essere dispensata —in altre parole, se concediamo le eccezioni alle regole— l’unica regola valida rimane la struttura del luogo, e dunque i processi tecnici e ideologici —che potremmo assimilare alla pratica di progetto— sui quali essa poggia acquisiscono un nuovo status.
Il terzo gruppo di regole, anche se non esattamente chiare in alcune parti, espri- mono una serie di principi geometrico–matematici, come l’indice di sfruttamento (espresso in m3/m2), il numero massimo di piani e l’altezza del muro di confine, che sono elementi comuni nei regolamenti edilizi, e che rappresentano un approc- cio parametrico standard alla regolamentazione edilizia. Queste da sole non forni- scono nessun elemento che suggerisca come lo stato di cose finale dell’ambiente urbano dovrebbe essere in virtù della loro esistenza, fatta eccezione per una idea vaga di modello urbano definito attraverso il combinato tra densità edilizia e al- tezza massima, che da solo può portare ad ambienti urbani radicalmente differenti tra loro. Anche la presenza del muro, senza una chiara definizione delle sue ca-
ratteristiche geometriche, materiali e di permeabilità, può essere interpretato fino ad ottenere una enorme eterogeneità di risultati formali. Anche queste regole sono ovviamente soggette al potere della “ottava regola”, e cioè, individuate le ragio- ni, all’interno del quadro tecnico ideologico della “interpretazione della struttura del luogo” alla contravvenzione di una delle regole deontiche sopra descritte, la dispensazione dal loro rispetto è da considerare lecita, e la commissione può —o più propriamente deve, anche se è estremamente complesso stabilire i confini di quest’obbligo— convalidare le scelte soggiacenti.