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Aria che brucia L’impatto dell’uragano Sandy e l’inizio delle attività dei volontar

We take care of our own Vulnerabilità di una comunità

1. Aria che brucia L’impatto dell’uragano Sandy e l’inizio delle attività dei volontar

Il 21 novembre 2012, a circa tre settimane di distanza dall’impatto dell’uragano Sandy, sono andata per la prima volta in qualità di volontaria a Rockaway, Queens. Un braccio di terra lungo e stretto che, chiudendo al proprio interno la baia di Giamaica, crea a un ambiente di transizione tra l’oceano e la terraferma: da un lato l’acqua bassa, verde e calma della laguna; dall’altro la spiaggia, le onde, il vento e il salso.

Scarsamente abitata d’inverno, la penisola si popola d’estate: è uno dei luoghi di villeggiatura preferiti dai newyorkesi, il paradiso dei surfisti. Era salita agli onori della cronaca quando, nel settembre 2001, il crollo delle Torri Gemelle causò la morte di molti suoi residenti, vigili del fuoco e poliziotti di professione; e nel novembre 2001, quando un aereo di linea in avaria si schiantò sul quartiere. A distanza di undici anni, Rockaway tornava a occupare le prime pagine dei giornali: insieme a Staten Island, Coney Island, Red Hook e Downtown Manhattan, era stata una delle aree di New York City più duramente colpite dall’uragano Sandy.

Seppur brevemente, ho conosciuto e frequentato Rockaway grazie a Sean: un giovane uomo di trentasei anni, alto, ben piantato, i capelli biondi tagliati corti. Sean viveva a Greenpoint, Brooklyn, ed era originario di Rockaway. Ci aveva presentato un amico comune, Chauncey, e ci eravamo incontrati occasionalmente a casa di amici o al bar; fino a quel momento, tuttavia, non avevamo scambiato che brevi cenni di saluto. Chauncey mi aveva raccontato che, sin dal primo giorno dell’emergenza, Sean si era recato quotidianamente nella penisola per portare il proprio aiuto ai residenti. Aveva (anche) organizzato una squadra informale di volontari che lo supportava nel suo intento e insieme alla quale aveva aiutato diverse famiglie a rimettere in sesto le proprie abitazioni. Avevo chiesto a Chauncey di domandare a Sean se sarebbe stato disposto a raccontarmi della sua esperienza di volontario e a mettermi in contatto con gli abitanti della comunità. Sean aveva accettato.

La mattina del 21 novembre ho incontrato Sean a Greenpoint, di fronte al bar in cui a quel tempo lavorava durante la settimana. Mi stava aspettando seduto alla guida di un furgoncino marrone, prestatogli da un amico. Indossava due felpe da lavoro, un paio di jeans larghi, morbidi e il cappellino dei Nets, la squadra di basket preferita. Ho bussato al finestrino, ci siamo salutati e sono entrata in macchina. Per diversi minuti abbiamo parlato di argomenti utili a smorzare l’imbarazzo della prossimità – il

tempo, il caldo eccezionale di novembre. Il discorso è quindi caduto sulle ragioni della mia partecipazione alle attività di volontariato e della mia ricerca di campo: a quel punto i ricordi e le riflessioni di Sean hanno guadagnato sempre più spazio. Mi ha raccontato dell’impatto dell’uragano e del suo impegno come volontario. Parlava standosene con il corpo completamente adagiato al sedile, rivolto in avanti. A tratti voltava la testa, sorretta dal poggiacapo, per guardarmi. Avrei imparato a conoscere la commistione di espansività e riservatezza che lo caratterizza: il viso aperto e la risata fragorosa; la voce profonda, lo sguardo attento e osservatore, che si fissa in quello dell’interlocutore.

Mi ha raccontato che il 29 ottobre, il giorno dell’impatto dell’uragano, si trovava a Greenpoint, Brooklyn, nel suo appartamento. La madre Elisabeth aveva evacuato ed era ospite da un’amica, in una zona interna del Queens. Il fratello Mark invece, come ho raccontato nel primo capitolo, aveva deciso di non abbandonare Rockaway. Per tutta la mattina e la prima parte del pomeriggio Sean aveva ricevuto da Mark notizie tutto sommato rassicuranti: la pioggia e il vento non destavano timori eccessivi. Ma a partire da metà pomeriggio il livello dell’acqua si era innalzato pericolosamente. «Avrebbe superato la tua altezza», mi ha detto Sean. Strade, giardini, ogni cosa era stata sommersa. Ondate crescenti avevano allagato il seminterrato della casa di Mark ed erano montate sempre più, raggiungendo le scale che conducevano al secondo piano dove Mark, la moglie e i figli si erano rifugiati.

Verso sera, i cavi dell’elettricità, spezzati dalla forza del vento, avevano innescato degli incendi. Belle Harbor, il quartiere di Rockaway dove Mark viveva, era stato costruito negli anni dieci e venti del Novecento e le abitazioni, seguendo l’usanza dell’epoca, erano state realizzate interamente in legno, un materiale che le aveva rese estremamente vulnerabili all’incendio e che aveva facilitato la propagazione delle fiamme. Nel giro

di una sola notte, centoundici case sono state completamente rase al suolo e altre venti danneggiate (Nessen 2012) 1.

Sean mi ha raccontato che Mark, pompiere di professione, aveva assistito inerme alla distruzione. Il telefono squillava, le discussioni con i colleghi e i superiori si facevano sempre più concitate. Purtroppo non c’era nulla da fare: il livello e la forza dell’acqua impedivano ai mezzi di soccorso di avvicinarsi alle fiamme. Mark se ne stava alla finestra insieme alla sua famiglia, sperando che le fiamme non li raggiungessero. Fu la figlia ad accorgersi per prima delle masse di legno infuocato, simili a sfere, che volavano nell’aria, portate dal vento. Per diverse ore Mark non ha fatto altro che andare e venire tra la finestra di fronte, dalla quale controllava gli incendi, e quella sul retro, dalla quale osservava il livello dell’acqua e dalla quale, in caso di necessità, sarebbe fuggito con la sua famiglia.

Durante tutto questo tempo Sean è rimasto in contatto telefonico con il fratello – le linee fortunatamente, nonostante il sovraccarico della rete, non sono state interrotte. Mark aveva saputo che alcune persone erano state costrette all’evacuazione e che avevano nuotato verso la casa di parenti o amici, affrontando la corrente, i venti che soffiavano a 80 miglia orarie e i cavi dell’alta tensione che lambivano la superficie dell’acqua2.

Verso sera Sean si è collegato a un’applicazione per smartphone messa a disposizione dai vigili del fuoco: ha ascoltato senza sosta, per tutta la notte, il rumore degli incendi e del legno che, per effetto del calore, scoppiava nell’aria.

1 La maggior parte delle abitazioni di Belle Harbor e degli altri quartieri situati nella porzione occidentale della penisola sono state costruite tra gli anni ’10 e ’20 del ‘900 per conto della West Rockaway Land Company che, nel 1907, aveva acquisito la porzione occidentale della penisola, messa all’asta dallo stato di New York. Il materiale costruttivo prescelto è stato il legno, proveniente dai boschi di cedro che, fino all’inizio del secolo, ricoprivano l’intera penisola (Bellot 1917:102–104). Emerge qui un chiaro esempio di quella «vulnerabilità tecnologicamente prodotta» di cui parla Oliver-Smith parla a proposito dei disastri Hoffman, Oliver-Smith 2002).

2 Una video-intervista prodotta da CBS News, e di cui Sean mi ha messa a conoscenza, documenta la sorte toccata a queste persone. Il video è disponibile all’indirizzo

E’ crollato esausto alle cinque del mattino. Tre ore dopo, alle otto, ha raccolto il maggior numero di generi di primo soccorso disponibili donati da amici e vicini di casa, ed è partito alla volta di Rockaway. Lì ha lavorato ininterrottamente per tutto il giorno, fino a tarda sera, aiutando il fratello a liberare la casa dall’acqua e distribuendo cibo a chi ne avesse bisogno.

Sean: il giorno dopo è stato uguale. Quando sono tornato a casa e mi sono steso a letto, è cominciato un tremore, che mi correva lungo tutto il corpo. E’ durato più di mezz’ora e non potevo fare nulla: non ero assolutamente in grado di controllarlo. Me ne stavo lì, con gli occhi sgranati, e tremavo. Per fortuna poi è passato3.

Le sue responsabilità, mi ha raccontato, erano cresciute a dismisura nell’arco di soli due giorni: aveva pubblicato su Facebook dei post in cui invitava a donare generi di prima necessità e a partecipare alle operazioni di pronto intervento. Stabiliva luoghi e orari di incontro: chi voleva poteva salire in macchina con lui e recarsi a Rockaway. Non se l’aspettava, ma la risposta era stata estremamente positiva: erano molti quelli che, pur volendo donare beni materiali (acqua, cibo, coperte, batterie), non si fidavano di grandi organizzazioni come la Red Cross o Salvation Army (immagino che lo anticipi nel cap 1, altrimenti qui ci sta una nota per dire chi sono) e preferivano affidare le risorse ad amici che si sarebbero occupati di distribuirle personalmente. In molti, inoltre, avevano accolto l’invito a recarsi come volontari a Rockaway. Nell’agitazione di quei giorni, caratterizzati dalla preoccupazione per il benessere dei familiari, Sean era stato sommerso da telefonate, sms ed email. Pur non avendolo pianificato si era ritrovato a gestire donazioni e volontari: la tensione era aumentata sempre più, fino al momento in cui, la sera del secondo giorno, era esplosa attraverso quel tremore.

Sean ha impiegato qualche giorno per adattarsi ai nuovi ritmi e alle nuove responsabilità: le ore di sonno erano scarse e le attività di

volontariato dovevano essere conciliate con il lavoro di barista e dj che svolgeva di sera. Però ci è riuscito: era spinto dalla volontà e dell’esigenza di aiutare il fratello, gli amici e gli abitanti della comunità natale. Sean sapeva che la maggior parte dei conoscenti ritagliava con difficoltà il tempo da dedicare al volontariato e che l’impegno di questi ultimi non era motivato da ragioni di ordine affettivo, come era invece nel suo caso4. Ci

teneva tuttavia a far sì che le attività continuassero: «la gente di Rockaway ha estremo bisogno di aiuto, è tutto distrutto, non ce la possono fare da soli». Impiegava il suo tempo e il suo denaro per invogliare gli amici a proseguire le attività: pagava la benzina, offriva da bere e da mangiare. Gli faceva piacere farlo, mi ha detto, soprattutto per persone come Jesse e Jimmy, i due volontari che quel giorno ci hanno accompagnati a Rockaway: «sono due persone stupende»5. Sean mi stava parlando di tutto

ciò quando in due sono comparsi all’angolo del bar di fronte a cui era stato stabilito l’appuntamento.

2. A partire dalle fondamenta: l’abitazione come preoccupazione