• Non ci sono risultati.

La muffa sul parquet e l’autolegittimazione dell’intervento dei volontari?

We take care of our own Vulnerabilità di una comunità

3. La muffa sul parquet e l’autolegittimazione dell’intervento dei volontari?

La preoccupazione primaria dei residenti riguardava la propria abitazione e la costellazione di accorgimenti che dovevano assumere per rientrare in possesso della propria casa e ripristinare una quotidianità analoga a quella precedente il disastro. La negoziazione di aiuti di tipo economico costituiva un aspetto essenziale di questa costellazione. Al momento della mia entrata sul campo, tali questioni erano ancora ben lungi dall’essere risolte. Non avendo ancora ricevuto risposte definitive e ancora insicuri di ciò che avrebbero potuto ottenere, , in quella (prima?) fase i residenti, cercavano di destreggiarsi come potevano. Impegnavano le ore libere dal lavoro per procedere il più speditamente possibile con i lavori di risanamento ma, se avessero dovuto fare esclusivo ricorso alle proprie forze, sarebbe trascorso troppo tempo prima che potessero rientrare nelle loro abitazioni. Salutavano dunque con favore l’aiuto offerto da volontari, tra cui anche il gruppo guidato da Sean.

Sean costituiva l’anello di congiunzione tra i residenti e i volontari che si recavano con lui a Rockaway. Questi ultimi avevano spesso una conoscenza scarsa - se non nulla - di Rockaway, nonostante vivessero nella maggioranza dei casi a New York: alcuni di loro non erano mai stati nella penisola prima dell’impatto di Sandy. Sean, invece, era nato e cresciuto a

Rockaway. Era andato via di casa all’età di ventidue anni ed erano quattordici anni che viveva fuori dalla penisola. Aveva mantenuto una buona rete di relazioni, cui aveva fatto appello fin dalle prime ore dell’emergenza. Facebook ne era stato lo strumento principale: ogni giorno pubblicava un post sul social network in cui chiedeva quali residenti di Rockaway avessero bisogno di aiuto, e di che tipo.

Ancor più che sulla propria rete di relazioni personali, Sean faceva affidamento su quella del fratello: Mark viveva a Rockaway, aveva una rete estesa di relazioni amicali e di vicinato e, soprattutto, di mestiere faceva il vigile del fuoco. Per Sean ciò aveva un valore auto-esplicativo: non c’era bisogno di aggiungere altro, ai suoi occhi era evidente che quella professione conferisse a Mark un’immediata autorevolezza per stabilire chi nella comunità avesse bisogno di aiuto. Questa sorta di equazione mi aveva inizialmente stupito. Poi, con il passare del tempo, ho cominciato a darla per scontata anch’io: stavo sperimentando quell’opera di «impregnazione», quella «curvatura dell’esperienza» in cui consiste la ricerca sul campo (Olivier de Sardan 2009; Piasere 2002). Una volta tornata in Italia, la lettura del libro Braving the waves. Rockaway rises and rises again, opera del giornalista e abitante di Rockaway Kevin Boyle, mi ha aiutato a tradurre in parole e analisi ciò che avevo assorbito sul campo.

Quella di vigile del fuoco è una professione molto diffusa a Rockaway: oltre cinquecento membri del Fire Department of New York (FDNY) vivono nella penisola. I pompieri sono persone benvolute e ammirate dalla comunità: nel discorso emico, si tratta di persone che fanno quel mestiere perché animati dal desiderio di salvare vite umane (o, al limite, di sperimentare il brivido del rischio). La maggior parte dei pompieri di Rockaway non partecipa all’imperativo dell’arrivismo: a differenza di coloro che intendono il servizio presso l’FDNY come il primo scalino di una carriera verso le più alte cariche di responsabilità, sono molti i vigili del fuoco di Rockaway che scelgono di rinunciare alla professione

piuttosto che uscire dal dipartimento e perdere il contatto con gli aspetti vivificanti del mestiere, come il lavoro di squadra o la condivisione dei pericoli. «You shrug at the pay that could be better because you have a job you absolutely love. There are worse things than being paid to save people» (Boyle 2002:226). Ciò che gli abitanti di Rockway ammirano nei vigili del fuoco è la loro tendenza a fare squadra, attitudine inversa alla competitività diffusa nella più ampia società newyorkese.

Everyone here knows that firefighting is about teamwork. Sure, some guys like to be the first ones in, but they do so knowing they have a network of support – men and women making sure their hoses are supplied with water, ready to bail them out if they find trouble. Engine and truck companies have a natural rivalry: engine companies joke that, while truck guys go to medal ceremonies, engine guys go for skin grafts. In the big picture, though, they know it’s about teamwork. Heroic rescues and successful rescue attempts stem from everyone pitching in (Boyle 2002:844).

Proprio la natura del loro lavoro, insieme alle pratiche di condivisione, fanno della comunità di vigili del fuoco una «famiglia» composta da «fratelli»:

Firefighters eat together and share sleeping quarters. They have to use extraordinary teamwork to do their job. They call each other “brother”. […] The stuff about the fire department being a second family is all too true (Boyle 2002: 1314; 2484) 15.

E’ proprio l’inserimento in questa rete di «fratellanza», unito alla dedizione che i pompieri sono soliti dimostrare a chi si trova in situazione di emergenza e difficoltà, che porta gli abitanti di Rockaway a riporre nei vigili del fuoco una grande fiducia. Ed è per questo motivo che la qualifica di pompiere costituiva agli occhi di Sean un elemento sufficiente ad attribuire al fratello Mark doti di affidabilità e competenza. Sean sapeva che i vigili del fuoco avrebbero fatto rete tra di loro segnalandosi a vicenda gli abitanti del quartiere che più avevano bisogno di aiuto. Seppure Mark fosse impegnato a ristrutturare la propria abitazione e non avesse la

15 Una «famiglia» che, sottolineo, si costruisce attraverso diversi assi di discriminazione ed esclusione: «the FDNY is overwhelmingly male, mostly white, and largely Catholic» (Boyle

possibilità di impegnarsi personalmente nelle attività di pronto intervento, avrebbe comunicato a Sean dati utili a programmare le attività di volontariato.

Ogni giorno, dunque, Sean riceveva informazioni e pianificava gli interventi. Contemporaneamente si preoccupava di organizzare le squadre di volontari, che variavano di giorno in giorno. A parte alcuni che assicuravano una presenza costante, come Jesse e Jimmy, nella quasi totalità dei casi i volontari davano la propria disponibilità al massimo per una, due o tre giornate in totale. Si trattava di giovani uomini, in pochi casi di donne, che impiegavano il proprio giorno di riposo dal lavoro e non potevano garantire una presenza stabile. Il gruppo dunque si rinnovava ogni giorno e ogni giorno doveva essere riconfermato. Verso sera Sean inviava un messaggio a chi aveva dato la propria disponibilità in cui stabiliva orario e luogo d’incontro.

La mattina successiva, quindi, ci mettevamo in viaggio. Una volta arrivati presso l’abitazione prescelta scaricavamo gli attrezzi, scambiavamo un breve saluto con i proprietari di casa e subito ci apprestavamo a realizzare il lavoro richiesto. In genere trascorrevamo così due o tre ore. Sbrigato il compito tornavamo a salutare i proprietari. Se era ora di pranzo, o la giornata si avviava a conclusione, passavamo con loro qualche tempo chiacchierando e bevendo birra. Se invece un’altra famiglia ci stava aspettando il congedo diventava veloce e ci spostavamo subito nella casa successiva. Ogni giorno solitamente lavoravamo in due o tre abitazioni.

Ho trascorso pomeriggi interi a spalare i vialetti d’ingresso dalla sabbia portata dall’oceano che, avendo raggiunto l’altezza di 30-40 cm, impediva l’accesso alla casa e al garage. Per ciò che riguarda i lavori di risanamento interni, invece, le mansioni variavano dal rimuovere il parquet e i perlinati di legno, all’abbattere le pareti divisorie interne (di legno), allo smantellare la struttura che divide il seminterrato dal primo piano.

Questa, ricordo, è stata l’occupazione che ha impegnato il mio primo giorno a Rockaway: il seminterrato era buio e umido, tubi e cavi pendevano ovunque. Il proprietario di casa, un elettricista, stava smantellando l’impianto elettrico. Piccozze alla mano, dovevamo sgretolare lo strato inferiore del soffitto, per arrivare a una griglia metallica che correva al di sopra delle assi di legno portanti. Polvere e granelli di malta rimbalzavano sugli occhiali e sulle mascherine e scivolavano giù lungo la schiena: con il viso all’insù, cercavamo di liberare la griglia dalla malta, facendo attenzione a non tranciare i cavi elettrici che ancora non erano stati rimossi.

Abbiamo terminato il nostro lavoro dopo qualche ora, a mezzogiorno. Nonostante fosse ora di pranzo abbiamo rifiutato l’invito (a pranzo) del proprietario di casa: di lì a poco avremmo dovuto presentarci presso un’altra famiglia. Quando siamo usciti alla luce del sole abbiamo trovato due cartoni di pizza ad aspettarci: «Non fate complimenti, cerco di sdebitarmi con voi», sono state le parole del proprietario di casa16.

Abbiamo mangiato, e per qualche decina di minuti abbiamo goduto del caldo, eccezionale sole di novembre. Ci siamo quindi avviati verso la nostra nuova destinazione.

Siamo arrivati di fronte a una villetta più grande della precedente, a tre piani, di proprietà di un’unica famiglia. Era la casa di Philip, un pompiere e collega di lavoro di Mark. Abbiamo aiutato lui, sua moglie e altri due amici a trasportare nel garage i mobili che non erano stati eccessivamente danneggiati dall’allagamento. A volte qualche piccolo oggetto fuoriusciva da un cassetto: una statuina, un depliant, un vecchio gioco. Chiedevamo a Sarah, la padrona di casa, cosa dovevamo farne. La risposta, per noi scontata, non era per lei altrettanto facile: a volte preferiva chiudere quegli oggetti, apparentemente di poco conto, in una scatola.

Una volta finito di liberare le stanze si è posta la questione più impegnativa: smantellare o meno il pavimento. Philip e la moglie Sarah, un loro amico e noi volontari abbiamo esaminato le assi di legno: piccole chiazze di muffa si intravedevano qua e là. Rinnovare il parquet avrebbe significato affrontare una spesa ingente. «Tutti quei soldi!», si lamentava Sarah. «Dove li troveremo?!»17. Alla fine è prevalsa la decisione di

asportarlo: si avvicinava l’inverno e le assi di legno si sarebbero asciugate con difficoltà. Se la muffa si fosse propagata al resto della casa le spese di ristrutturazione sarebbero lievitate ulteriormente. A malincuore Philip e Sarah ci hanno autorizzati a cominciare il lavoro. Abbiamo trascorso il resto del pomeriggio a strappare le assi di legno e a trasportarle sul marciapiede di fronte alla villetta: gli operai della sanitation18 avrebbero

provveduto a ripulirlo nei giorni seguenti.

Sulla strada del ritorno la conversazione tra noi volontari si è accesa quando abbiamo ricordato il momento in cui Philip e Sarah hanno ascoltato il consiglio di Sean, Jimmy e Jesse e deciso di smantellare il parquet:

Sean: Non ne volevano sapere all’inizio! Quanto è stata dura convincerli?! Poveri, erano spaventati dalla spesa, ma non avevano capito cosa sarebbe potuto succedere lasciando tutto lì!

Jimmy: Sì, è che non hanno visto abbastanza case... Noi invece abbiamo visto cosa succede se lasci che le muffe proliferino..

Jesse: Esatto! Sono soldi, è vero, ma alla fine conviene.

Jimmy: Perché vedi una casa, vedine due, vedine tre, tutte nella stessa situazione, alla fine capisci cosa devi fare. Per fortuna che ci hanno ascoltato!!19

Due erano gli elementi attraverso i quali Sean, Jesse e Jimmy autolegittimavano il proprio operato. In primo luogo, la supposta capacità di individuare meglio dei residenti le operazioni atte a ripristinare le condizioni igienico-sanitarie fondamentali. Dal loro punto di vista i residenti non avevano le competenze necessarie a prendere decisioni in

17 Ibidem.

autonomia: lavoravano esclusivamente alla propria casa e non avevano la possibilità di sondare l’efficacia delle diverse strategie confrontandosi approfonditamente con i vicini di casa. I volontari invece, a distanza di tre settimane dall’uragano, avevano già lavorato in decine di abitazioni e avevano avuto modo di capire quali fossero i problemi più comuni. Avevano in sostanza acquisito la competenza per attuare gli interventi più efficaci e rispondere ai bisogni generati dall’emergenza: si ritenevano dunque titolati a consigliare i residenti a questo proposito. In secondo luogo, come ho già anticipato, l’autolegittimazione si reggeva sulla rete di relazioni che, soprattutto per il tramite di Mark, permetteva di gestire le priorità di intervento individuando i residenti più bisognosi di aiuto.

Ciò che mi colpiva, proprio in forza della percezione della competenza acquisita e, insieme, dell’enorme mole di lavoro che ancora rimaneva da fare (erano molti i residenti e le famiglie che, a distanza di diverse settimane dall’impatto dell’uragano, versavano in condizioni di grave difficoltà e necessitavano ancora di interventi di base come l’aspirazione dell’acqua dal seminterrato), era il fatto che Sean e gli altri continuassero a lavorare in autonomia, senza affiliarsi ad altre organizzazioni. Degli amici avevano domandato a Sean perché non si fosse unito, ad esempio, alle squadre di volontari che la FEMA stava cominciando a organizzare. Sean rispondeva con risolutezza che preferiva lavorare da solo. Nel corso dei paragrafi successivi cercherò di delineare le ragioni di questa posizione.