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arrazione e meta-narrazione: verso la riflessività come pratica sociale

esperienza e quotidianità

3.1 arrazione e meta-narrazione: verso la riflessività come pratica sociale

Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve; e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi vorrebbe sentirsi raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze.

Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo.

W. Benjamin1

Le azioni cui allude l’autore, sono le azioni che compongono la vita quotidiana delle società tradizionali, le azioni ripetute, giorno dopo giorno, dalle mani dell’artigiano, per esempio, quelle azioni che si realizzano nel tempo per sedimentare nella memoria e maturare diventando esperienza2. Il tempo dell’esperienza così concepita è quello che genera narrazioni attraverso le quali l’uomo può prendere coscienza di sé e mettere in comune il proprio vissuto. Questa possibilità, secondo Benjamin, va perdendosi nella modernità dove l’individuo è sottoposto a vissuti che non incontrano la possibilità di essere detti o compresi nel linguaggio della cultura disponibile, di conseguenza, rimane muto.

Quasi mezzo secolo più tardi, noi che leggiamo queste riflessioni, dobbiamo ammettere che la narrazione, nelle forme in cui le intendeva Benjamin, si è quasi del tutto spenta; tuttavia essa, pur assumendo connotazioni diverse, rimane la modalità privilegiata per dare significato al nostro e all’altrui agire, per connettere eventi, soprattutto quelli inattesi, per produrre un senso coerente del Sé, per trasmettere

1

Walter Banjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di *icola Leskov, Einaudi, Torino, 2011, pp. 235 e 241.

2

Si veda Paolo Jedlowski (1989), L’esperienza nella modernità. Walter Benjamin e la “fine dell’esperienza” nel mondo moderno, in Memoria, esperienza e modernità, Franco Angeli, Milano. In questo articolo, Paolo Jedlowski chiarisce il significato di esperienza distinguendo fra “esperienza accumulata” (l’esperienza che ha bisogno di tempo, frutto del sedimentare di contenuti nella memoria e il loro ritornare come autocoscienza) e “esperienza vissuta” (esperienza come percezione attuale, puntuale, come presentazione della coscienza di un contenuto qualsivoglia).

esperienze e modelli culturali. La narrazione, ancora oggi, continua ad avere un posto di rilievo nelle pratiche di cui la vita quotidiana è intessuta ed è forse necessità più urgente di un tempo, adesso che le immagini che ci siamo fatti della realtà si susseguono a ritmi sempre più pressanti. È esattamente nel continuo gioco di specchi dove ogni narrazione diviene a sua volta materiale per generarne altre mille, nel rimando virtualmente infinito, da una storia all’altra, da un media all’altro, da un registro all’altro, è in questa fine trama, che la vita quotidiana di tutti noi è intrecciata, è su questa trama che siamo collocati come esseri che vivono all’interno di una società. «Narrare», spiega Paolo Jedlowski, «è un modo per coordinare le nostre attività ed orientarci praticamente nel mondo della realtà condivisa»3. «Apparteniamo a una “specie narrante”, su questo non ci sono dubbi, tuttavia le cose si complicano quando ci chiediamo più precisamente che cosa si intenda per “narrazione”»4. Tale questione apre una tale ricchezza di opinioni, da rendere difficoltoso l’individuare una definizione onnicomprensiva che possa costituire un punto fisso cui poter far riferimento. La molteplicità delle risposte fornite a tale interrogativo dipende dalla molteplicità delle scelte teoriche ed epistemologiche che le fondano.

Della narrazione come concetto teorico si potrebbe dare la definizione del tipo:

procedimento mentale grazie al quale l’uomo attribuisce senso a se stesso e a ciò che

lo circonda riuscendo così a formare una rappresentazione della “realtà”. Allo stesso tempo, la narrazione è frutto di un’azione, che si realizza attraverso l’uso di un linguaggio tramite il quale l’essere umano comunica con “l’altro”. Con la narrazione, l’uomo può mettere in comune il proprio patrimonio di conoscenze e può attingere a quello della comunità in cui è immerso.

La narrazione è anzitutto il frutto di un’operazione ermeneutica attraverso il quale l’uomo “sceglie” di attribuire un determinato significato a un oggetto (sia esso un

3

Paolo Jedlowski (2005), La narrabilità del lavoro e della quotidianità, abstract del convegno “Il lavoro nella quotidianità. La quotidianità del lavoro”, Venezia, 8 – 19 Apr.

4

Per una rassegna delle definizioni utilizzate dai vari orientamenti, si veda Barbara Poggio (2004), Mi racconti una storia? Il metodo narrativo nelle scienze sociali, Carocci, Roma, in particolare cap I.

testo visivo, letterario, un’azione sociale, uno stato emotivo, ecc), dunque, essa nasce dall’interpretare. Questa particolare attività mentale, comune al genere umano, è forgiata da due matrici, l’una di natura individuale (che è formata dall’esperienze, dalle abilità, dalle intelligenze, ecc. che appartengono specificatamente a ogni singola persona), l’altra di natura culturale. Le due matrici non possono essere pensate separatamente poiché l’una e l’altra si influenzano reciprocamente formando un sistema dinamico5. Sulla struttura dialogica dei modi in cui si fonda il pensiero narrativo, pone l’attenzione Jerome Bruner quando avverte della «[…] difficoltà a distinguere tra mondo narrativo del pensiero e forme narrative del discorso. Come avviene per tutti gli strumenti protesici, ciascuno rende possibile e dà forma all’altro; così la struttura del linguaggio e la struttura del pensiero finiscono per non potersi distinguere l’una dall’altra, sicché voler dire quale di essi sia più fondamentale – se il processo mentale o la forma discorsiva che lo esprime – finisce per diventare un’impresa vana: come la nostra esperienza del mondo naturale tende ad imitare le categorie della scienza corrente, così la nostra esperienza delle cose umane finisce per assumere la forma dei racconti di cui ci serviamo per parlarne»6.

Dunque linguaggio e pensiero collaborano nel costituire uno “spazio” che evolve nutrendosi di questa sorta di dialogo fra le due strutture, è grazie a questo processo che il mondo dell’individuo può essere condiviso con il mondo sociale in cui (e da cui) è prodotto: «Per la sua struttura il linguaggio non è un semplice riflesso speculare della struttura del pensiero. Perciò non può vestire il pensiero come un abito confezionato. Il linguaggio non serve come espressione di un pensiero già bello e pronto. Il pensiero, trasformandosi nel linguaggio, si riorganizza e si modifica. Il

5

A questo proposito, anche Norbert Elias ammetteva: «Non esiste un punto zero del riferimento sociale del singolo, non esiste un “principio” o una svolta per cui egli, un essere estraneo all’intreccio, si accosta alla società dall’esterno per poi unirsi agli altri […], il singolo è sempre e fin dall’inizio in rapporto con gli altri: un rapporto che ha una sua precisa struttura e che è specifico del suo gruppo. È dalla storia di questi rapporti, di queste sue dipendenze e assegnazioni e, quindi, in un contesto più ampio, della storia dell’intero intreccio umano nel quale cresce e vive che egli viene plasmato». Norbert Elias, La società degli individui, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 38-39.

6

Jerome Bruner, La costruzione narrativa della ‘realtà’, in M. Ammaniti e D.N. Stern, Rappresentazioni e narrazioni, Biblioteca di cultura moderna Laterza, Roma-Bari 1991.

pensiero non si esprime, ma si realizza in una parola»7. Tramite questa forma del pensare, l’uomo organizza la sua esperienza – presente e passata - principalmente sottoforma di racconti: egli ricostruisce storie, individua cause e finalità, trova ragioni, costruisce miti, si spiega perché fare o non fare, utilizzando in modo personale quelle strutture narrative che, come dire, ha trovato già pronte nel suo affacciarsi nel mondo poiché appartengono alla realtà culturale della comunità in cui è inserito8. Esiste, insomma, una “circolarità” che si costituisce in un continuo rimando fra l’io e l’altro, fra individuo e società. Infatti, considerata la radicale influenza della cultura e del linguaggio la produzione narrativa individuale non può essere concepita come qualcosa le cui regole soggiacciono puramente al narratore: la cultura e il linguaggio dettano le regole della narrazione e perciò chi narra è co-autore dei propri discorsi. Una circolarità di processi lega il personale ed il collettivo: il collettivo, l’interazione sociale, attraverso la cultura e la tradizione, fornisce il materiale e le regole narrative che possono essere utilizzate per la costruzione di nuove storie personali. Certo il pensiero non si esaurisce nel discorso e nella parola, tuttavia questa è la forma che permette di “pensare il pensiero”. Il linguaggio e il discorso permettono di entrare in contatto con le proprie esperienze e la propria realtà grazie alla capacità di mettere in parole gli eventi e di dare loro una linearità.

Da ciò si può dedurre inoltre che i resoconti narrativi non possono darci delle spiegazioni causali, non ci possono informare, per esempio, sulle cause che hanno condotto una persona a comportarsi in una determinata maniera, ma ci informano piuttosto sul modo in cui una tale situazione è stata letta e interpretata da questa persona in un dato momento e in una data situazione, e ci invitano a nostra volta a formulare una nuova interpretazione. Parafrasando Bruner, si può dire che

7 L. S. Vygotskij (1934), Pensiero e linguaggio, trad. it Laterza, Bari, p. 39.

8

Scrive Bruner: «Il nostro affacciarci alla vita di uomini è un po’ come l’entrata in scena di un attore quando la rappresentazione è già cominciata, una commedia la cui trama, in una certa misura passibile di cambiamenti, decide quali sono le parti che possiamo interpretare e quale sarà l’epilogo a cui possiamo giungere. Quelli che già si trovano sulla scena sono già a conoscenza dell’argomento della commedia in modo abbastanza approfondito da poter effettuare una negoziazione col nuovo venuto». Jerome Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

l’interpretazione ha a che vedere più con le “ragioni” dell’accadere delle cose che con le “cause” vere e proprie. Grazie a questo processo, grazie al pensiero narrativo, l’uomo riesce a capire la realtà9 e a costruire delle nuove narrazioni attraverso le quali può partecipare alla vita della società in cui è inserito.

Il pensiero narrativo è dunque frutto della sintesi fra pensiero e linguaggio, e si realizza nel suo costituirsi in una narrazione che può essere trasmessa a qualcun altro grazie al linguaggio. Come spero di aver spiegato, dunque, la natura del pensiero narrativo è necessariamente discorsiva, ciò significa che la narrazione che prodotta da tale processo ubbidirà alle leggi del dialogo. Noi sempre narriamo a qualcuno, sia esso reale o immaginario; anche quando ci capita di abbandonarci a dei soliloqui interiori, le storie che ci raccontiamo, le narrazioni produciamo, possiedono sempre un interlocutore, sia esso reale o immaginario. La narrazione è un’azione transitiva: chi, utilizzando il linguaggio10, narra necessariamente a qualcuno, sia esso reale o fittizio, presente fisicamente o semplicemente immaginato:

«Narrare può avere […] motivi e scopi molteplici: in uno dei suoi aspetti essenziali, ha a che fare con la dinamica di riconoscimento che si gioca fra il narratore e il destinatario della narrazione. Una dinamica che rimanda alla relazione sociale che narrando si istaura. […]. Nessuna comunicazione si svolge nel vuoto: chi parla parla a qualcuno e di questo qualcuno tien conto: tiene conto dei suoi atteggiamenti, delle cose che sa e che non sa, delle domande che ha formulato o che potrebbe formulare, del giudizio che potrebbe esprimere. Chi ascolta a sua vola, è chiamato a partecipare al dialogo, poiché il parlante aspetta da lui una risposta».11

Ciò significa che, affinché la narrazione realizzi la sua funzione comunicativa, è necessaria la presenza dell’altro, di un ascoltatore depositario dell’esperienza12.

9 Il verbo “capire” deriva dal latino CAPIO, -IS, che significa “prendere”.

10

Utilizzando il termine “linguaggio” mi riferisco al sistema di segni vocali. 11

Paolo Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 24-25.

12

«L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte cui hanno attinto tutti i narratori» - spiega Benjamin - e più avanti: «Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza - dalla propria o da quella che gli è stata riferita -; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia». Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di *icola Leskov, op. cit., p. 239.

Senza la presenza dell’altro, la narrazione cade nel vuoto, «solo lo sguardo dell’altro può sottrarre all’impressione “sinistra” e “spettrale” che l’immagine riflessa in uno specchio o in autoritratto evoca in chi si guarda e ri-guarda»13.

In uno dei suoi libri, Roberto Escobar riporta una filastrocca di Wilhelm Grimm il cui titolo è Das Hausgesinde, (“La servitù”), che mi pare ben esprima questo concetto: «- Dove vai? –Vado a Cogozzo, - Io vado a Cogozzo, tu vai a Cogozzo: bene, bene, andiamo insieme.

- Hai anche tu marito? Come si chiama? – Tito. – Mio marito Tito, tuo marito Tito; io vado a Cogozzo, tu vai a Cogozzo: bene, bene, andiamo insieme.

- Hai anche tu un bambino? Come si chiama? – Pino. - Il mio bambino Pino, il tuo bambino Pino; mio marito Tito, tuo marito Tito; io vado a Cogozzo, tu vai a Cogozzo: bene, bene, andiamo insieme. […]»14.

Escobar avverte il lettore della pericolosità di questa “discorsività insignificante”, di “questo silenzio rumoroso e circolare, autoriferito e colmo di echi”. C’è del fanatismo nel discorrere, privo di nuovi elementi, che ritorna sempre a se stesso, in questo ostinato non voler riconoscere nel prossimo la sua peculiare diversità.

Affinché si realizzi una narrazione “riuscita”, dunque, è necessario instaurare un reciproco riconoscimento. Lo stesso fatto può essere narrato utilizzando stili differenti, e ciò dipenderà anche dall’identità del nostro interlocutore: nel raccontare una cosa a un nostro amico, per esempio, non utilizzeremo le stesse parole che per raccontarla al nostro datore di lavoro; inoltre, non tutte le cose di cui abbiamo esperienza possiamo o vogliamo raccontarle a chiunque (si immagini il silenzio che cadrebbe in uno spogliatoio di giocatori di calcetto in cui facesse irruzione improvvisa una ragazza). Nel rapportarci agli altri, dunque, costruiamo le nostre narrazioni e, calibrandone contenuti e stili, disegniamo i contorni della nostra identità e di quella degli altri, posizionandoci e riposizionandoci incessantemente nelle nostre relazioni reciproche.

13

M. Bachtin, L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1988.

14 Roberto Escobar, Il Silenzio dei persecutori ovvero il coraggio di Shahrazàrd, Il Mulino, Bologna

Da ciò appare chiaro un altro importante aspetto della narrazione già esposto ma che si ritiene necessario sottolineare: narrare è anche il dare luogo a un’interazione sociale15. E, come nell’interazione prende forma la narrazione, così, dalla narrazione prende forma la realtà.

L’esperienza della vita si presenta agli uomini come una somma informe di oggetti, la narrazione risponde anche alla necessità umana di dare senso a questo “garbuglio”. Per dirla con le parole di Umberto Eco, «la ragion d’essere della narrazione sta nella sua capacità di dar forma al disordine dell’esperienza»16. Per creare una narrazione, utilizziamo degli schemi che ci permettono di comprendere la nostra realtà sulla base delle rappresentazioni sociali che contraddistinguono la nostra cultura e di interpretare ed organizzare la nostra stessa esistenza. Naturalmente, in maniera speculare, gli stessi schemi ci permettono di comprendere anche l’esistenza altrui.

fig. 1

15

Un’interazione sociale è una «relazione tra due o più soggetti individuali o collettivi, di breve e lunga durata, nel corso della quale ciascun soggetto modifica reiteratamente il suo comportamento o azione sociale in vista del comportamento o dell’azione dell’altro, sia dopo che questa si è svolta, sia anticipando o immaginando – non importa qui se correttamente – quale potrebbe essere l’azione che l’altro compirà in risposta alla propria o per altri motivi» . L. Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Pisa 1983.

16

Ciò che è ovvio e scontato in un contesto socio-culturale, può non essere inusuale e inatteso per un altro, e pertanto gli stessi fatti possono costituire l’oggetto di una narrazione in determinate culture ma non in altre.17

Ogni cultura rende disponibile ai suoi componenti una particolare gamma di modelli narrativi per raccontare (e condividere) il corso dell’esperienza della vita di ognuno. Nel quotidiano, tali modelli si rendono evidenti per esempio, ogniqualvolta ci capita di incontrare un conoscente che non abbiamo visto da molto tempo. La Levorato spiega come si attivano particolari processi di comprensione durante conversazioni e colloqui orali, nella quotidianità della vita sociale: la conversazione seguirà degli schemi bene precisi, per cui si inizierà a raccontare, utilizzando dei topos ricorrenti, forniti dalla cultura di riferimento, utili per collocare l’esistenza di colui che partecipa alla conversazione all’interno di coordinate comuni, di inserirlo all’interno dello stesso universo simbolico18. Al contrario, la narrazione che minaccia il nostro sistema di valori, inducendoci immediatamente a ristabilire l’ordine19, cercando di allontanare una versione della realtà a noi non decifrabile, ci provoca: infatti, se decidessimo di accettare un bizzarro modo di esprimersi, da parte del nostro interlocutore, nonché il suo originale modo di disporre le cose, potremmo allora accettare che la narrazione faccia vacillare, ed eventualmente modifichi, i criteri che usualmente adottiamo nel riordinare la nostra esperienza del mondo20. È in questo senso che la narrazione genera cambiamento: se da un lato dona ordine alla nostra realtà, in essa è pure sempre presente una componente sovversiva.

Si potrebbe aggiungere come componente generatrice della narrazione anche la curiosità; è proprio dalla curiosità che spesso nascono le storie, «da un’insoddisfazione rispetto alle spiegazioni date sul reale […] è così che parte

17

Maria Chiara Lavorato, Racconti, storie e narrazioni. I processi di comprensione dei testi, Il Mulino, Bologna 1988.

18

Si veda Berger e Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Einaudi, Torino 1969, in particolare pp. 132-147.

19

Marianella Sclavi propone una “metodologia umoristica” per superare questo “scoglio emozionale”, si veda M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Le vespe, Milano 2002, pp. 57-69.

l’immaginazione […] un modo di guardare il mondo che non si lascia sfuggire nulla, che si pone continuamente, su ciò che vede, delle domande. Domande da cui partono le storie»21.

In realtà tutte le narrazioni partono da un desiderio di andare oltre, e proprio attraverso la narrazione, intesa come «grande sistema di comprensione a cui l’umanità è ricorsa nei suoi negoziati con il reale»22 che si può raccontare e rendere conto di qualcosa di insolito, di qualcosa che sfugge alle spiegazioni comuni.

La curiosità, in effetti, ha anche a che fare con la possibilità, altra categoria che consente di trovare direzioni di vita che contengono appunto il cambiamento. La curiosità, contro ogni generalizzazione, attenta al piccolo, al minuto, è interessata a ciò che sta fuori dalla norma e si spiega a fatica, se non immaginando una storia possibile, un’altra storia che rintraccia e inventa «nella vita che scorre magmaticamente, un filo conduttore, elabora un disegno, sensato, sopra le cose »23. Le storie, dice Jedlowski, riescono a «dire la realtà senza tradirla […] perché non fotografano il reale […], lo dispiegano […] e, spesso, all’improvviso ne colgono un qualche profondo significato condensandolo in immagini o in figure. In questo modo esse riescono a restituirci della realtà appunto il nucleo essenziale»24.

Anche Roland Barthes, sempre a proposito della narrazione come possibilità scriveva che «le narrazioni sono il prodotto di scelte contingenti entro un ventaglio di possibilità »25.

Inoltre, se è vero che la narrazione si colloca all’interno di regole socialmente stabilite, ciò ci deve mettere in guardia sulle difficoltà in cui si può incorrere nella comunicazione fra persone appartenenti a culture diverse, poiché schemi di natura culturale diversa generano narrazioni (e quindi interpretazioni) diverse della realtà. Anche Jedlowski sostiene che occorre far uso di un lessico comune, un insieme di parole-chiave, comuni prospettive interpretative, possibili, solo a patto di far uso di

21

E. Beseghi (a cura di), Infanzia e racconto, Bologna, Bonomia University Press 2003, p. 99. 22

Ibidem, p. 101

23

Ibidem.

24Ibidem, p. 102.

una lingua “veicolare”: «La lingua è lo strumento di cui gli uomini si servono per intendersi fra loro in relazione alle attività in cui sono coinvolti, e se da un lato esprime le loro forma di vita, dall’altro interpreta assegnandovi un insieme di