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Pratiche narrative ed esperienza

esperienza e quotidianità

3.2. Pratiche narrative ed esperienza

Le narrazioni implicano apertamente o meno, un utile, un vantaggio. Tale utile può consistere una volta in una morale, un’altra in un’istruzione di carattere pratico, una terza in un proverbio o in una norma di vita: in ogni caso il narratore è persona di consiglio per chino ascolta.

Da Il narratore, W. Benjamin

Partiamo dunque dall’accezione di esperienza che abbiamo scelto come volano declinatore del nostro significato di “vissuto esperienziale”.

Si consideri semplicemente una parola del nostro lessico, un’entità testuale che ricorre abbastanza spesso e che viene di solito usata per definire certe classi di descrizioni del mondo.

Senza addentrarci in disquisizioni e chiarificazioni di carattere propriamente linguistico, rispetto ai nuclei semantici e ai significati soggiacenti alla parola esperienza, che ci farebbero perdere la bussola rispetto a ciò che si vuole porre in evidenza, ci limitiamo ad accreditare l’analisi di Raymond Williams che definisce

l’experience past come un tipo di conoscenza pubblica, frutto di esperienze e

concettualizzazioni, sempre revocabile in dubbio. Si tratterebbe, secondo la sua analisi, di una forma di accumulo di conoscenza pubblica e almeno in linea di principio ripetibile73.

Il punto strategico qui è la ripetizione. Dal punto di vista semiotico il carattere pubblico e in linea di principio ripetibile è ciò che garantisce la comunicazione, in particolare quella linguistica e le dà quel carattere regolare che Noam Chomski ci ha insegnato a cogliere come presupposto della pratica linguistica, decisivo per la determinazione della lingua usata dalla società di cui si è parte e per la capacità degli interlocutori in un atto di linguaggio di intendere la stessa cosa nel discorso.

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Il carattere pubblico e ripetibile dell’esperienza linguistica e in generale semiotica (cioè della pratica attiva e passiva della comunicazione) è la garanzia del carattere regolare del senso, che lo sottrae alla dimensione privata, puramente psicologica. È in questo stesso senso, di evento in linea di principio pubblico e ripetibile, che il termine viene assimilato alla tradizione filosofica nel dizionario di Abbagnano: «Il termine ha due significati fondamentali: 1. la partecipazione personale a situazioni ripetibili: come quando si dice “x ha esperienza di S”, dove per S si intende una qualunque situazione o stato di cose che si ripeta con sufficiente uniformità per dare a x la capacità di risolverne alcuni problemi. 2. L’appello alla ripetibilità di certe situazioni come mezzo per controllare le soluzioni che esse consentono, come quando si dice: “L’esperienza ha dato ragione a x” oppure “la proposizione p è verificabile dall’esperienza”. Nel primo di questi due significati l’esperienza ha sempre carattere personale e non c’è esperienza dove manca la partecipazione della persona che parla alle situazioni di cui si parla. Nel secondo significato l’esperienza ha invece carattere oggettivo o impersonale: che la proposizione p sia verificabile non implica che tutti coloro che fanno questa affermazione debbano personalmente partecipare alla situazione che consente la verifica della proposizione p. L’elemento comune dei due significati è la ripetibilità delle situazioni, e questo dev’essere pertanto assunto come fondamentale per il significato generale del termine»74.

Si tratta di esperienza diretta del divino, present experience: è questo il senso di filosofia come condizione intermedia fra il sapere e l’ignoranza.

Vale la pena solo di riportare qui uno dei capisaldi di questa tradizione, all’inizio del libro A della Metafisica di Aristotele:

«Mentre gli altri animali vivono con immagini sensibili e con ricordi e poco partecipano dell’esperienza [empeiria], il genere umano vive anche di arte [techne] e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva dalla memoria: infatti, molti ricordi dello stesso oggetto vanno a costituire un’unica esperienza. Sembra

anche che vi sia una certa somiglianza fra esperienza, scienza [episteme] e arte [techne]: in effetti gli uomini acquistano scienza e arte per via di esperienza. L’esperienza infatti, come dice Polo, produce l’arte [techne], mentre dall’inesperienza risulta il puro caso. L’arte si forma quando, da molte osservazioni di esperienza si forma un giudizio generale e unico riferibile a tutti i casi simili [...] l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza degli universali [...]. Gli empirici sanno il puro dato di fatto, non il perché di questo mentre gli altri [chi conosce le arti e a maggior ragione gli scienziati] conoscono il perché e le cause»75.

L’esperienza, per Aristotele come nella definizione di Abbagnano, è un grado, minore ma valido, della conoscenza, non solo ripetibile, ma frutto di ripetute osservazioni e della loro memoria, quindi già ripetuta, non unica. Non vi è qui in nessun modo una dimensione soggettiva, di stato interno del soggetto.

Soprattutto non vi è l’idea che vi possa essere un’autonomia dello stato di coscienza rispetto alla cosa e magari un primato di questo rispetto al mondo. Autonomia, primato e non interscambiabilità sono infatti le proprietà che maggiormente caratterizzano l’experience present di Williams e di tutti coloro che la danno per scontata.

È quest’ultima, quella di Williams, l’accezione di esperienza che ci interessa e dunque il modo in cui essa si è affermata come uno dei dati caratteristici della descrizione occidentale moderna dei rapporti fra “soggetto” e mondo.

D’altro canto, come è stato scritto precedentemente, quest’idea e perfino quest’esperienza, ovvero l’esperienza dell’esperienza, si lega a una specifica tecnica narrativa caratteristica della nostra cultura.

Vale la pena di riportare qui la breve voce che il già citato Dizionario filosofico dedica a questa nozione. «Termine tedesco che si può tradurre “esperienza vivente” o “vissuta” e col quale si designa ogni atteggiamento o espressione della coscienza. Della nozione si è specialmente servito Dilthey, assumendola come strumento

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fondamentale della comprensione storica e in genere della comprensione inter- umana. Egli ha caratterizzato l’Erlebnis nel modo seguente: “L’Erlebnis è innanzitutto l’unità strutturale fra forme, atteggiamento e contenuti. Il mio atteggiamento di osservazione insieme alla sua relazione con l’oggetto è un Erlebnis, al pari del mio sentimento di qualcosa o del mio volere qualcosa. L’Erlebnis è sempre cosciente di se stesso” (Grundlegung der Gaisteswissenschaften, II, 1, 2). Allo stesso modo, Husserl ha considerato l’Erlebnis come un fatto di coscienza, quindi come uno qualsiasi dei contenuti del cogito. “Noi consideriamo gli Erlebnisse di coscienza in tutta la pienezza concreta con cui si presentano nella loro concreta connessione – con la corrente della coscienza – e nella quale si unificano grazie alla loro propria esistenza. È quindi evidente che ogni Erlebnis della corrente, che lo sguardo riflessivo riesce a cogliere, ha un’essenza propria, da afferrare intuitivamente, un contenuto che può essere considerato nella sua caratteristica intrinseca»76.

Utile ricordare inoltre che un potente contributo in direzione di una “scienza dell’esperienza” viene dalla psicologia, in particolare di quella clinica. Rivoluzionario è il pensiero di Freud che espande e rende più comprensiva la coscienza di sé, al fine di correggere l’esperienza. Quest’idea dell’autonomia dell’esperienza è molto diffusa in psicologi clinici come Ronald Laing. Laing sostiene che «l’esperienza non è un fatto oggettivo. Non occorre esperire un fatto scientifico [...]. L’esperienza di un fatto oggettivo o di un’idea astratta non è l’impressione o l’idea. L’effetto che produce su di noi un fatto oggettivo può non essere un fatto oggettivo. I fatti non sognano. Voglio fare spazio alla considerazione di questi effetti dei fatti. Dobbiamo fare spazio alla discussione dell’esperienza in quanto tale, perché i metodi usati per indagare il mondo oggettivo, applicati a noi, ignorano la nostra esperienza, inevitabilmente, e non possono rapportarsi ad essa»77.

76 Abbagnano, op. cit. p. 311.

77 R. Laing, The politics of experience, Harmondsworth, Penguin, 1982; tr. it. La politica

Ritornando agli Erlebnisse, non vi è implicato nulla di naturale o di immediato, la vita vissuta non è meno culturale delle parole scritte nei libri, anche se le parole scritte nei romanzi non testimoniano affatto la verità di una vita interiore.

Tale tipo di esperienza non è affatto immediata, ma anzi fortemente mediata dalla costruzione culturale che abbiamo ereditato a questo proposito.

Come già ampiamente argomentato nei precedenti capitoli, i rapporti fra narrazione ed esperienza nella modernità sono al centro delle riflessioni di Walter Benjamin, specie nel celeberrimo saggio su Il narratore.

Vicino a Benjamin, il tema rammenta quello dell’“oscurità dell’attimo vissuto” di Ernst Bloch: «se l’attimo vissuto è oscuro, è perché in esso siamo immersi immediatamente: la consapevolezza riflessiva compare solo post festum»78. O potremmo rammentare Hannah Arendt: «se non siamo trasparenti a noi stessi è da un lato perché solo agli altri è accessibile ciò che noi esprimiamo, e dall’altro perché, nella vita, siamo sempre e solo co-protagonisti, in modo tale che le nostre azioni si iscrivono in una trama di relazioni con quelle degli altri che ci sfugge necessariamente nelle sue ramificazioni infinite»79. Ma sono presenti anche suggestioni proustiane. Proprio in un saggio su Proust, in effetti, Benjamin ebbe a dire che «noi tutti non abbiamo il tempo di vivere i veri drammi dell’esistenza che ci è destinata. Per questo invecchiamo – non per altro. Le rughe e le grinze sul nostro volto sono i biglietti da visita delle grandi passioni, dei vizi, delle conoscenze che passarono in noi – ma noi, i padroni di casa, non c’eravamo»80.

Ciò che Benjamin intende è che l’esperienza in sé è un risveglio, ovvero la scoperta di cose che in fondo erano lì, a portata di mano, senza che noi ce ne accorgessimo. È una sorta di ritorno del soggetto a se stesso. Ciò che, in un contesto diverso, scrive con bella chiarezza un raffinato antropologo, Victor Turner: «l’esperienza è

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Ernst Bloch, Il principio speranza, Introduzione di Remo Bodei. Traduzioni dal tedesco di Enrico De Angelis (parti prima, seconda terza, quinta) e Tommaso Cavallo (parte quarta), (ed.originale 1959).

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H. Arendt, op. cit. 80

W. Benjamin, Zum Bilde Proust, in Die literarische Welt ; trad. It, Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, Einaud, Torino 1973.

incompleta, a meno che uno dei suoi momenti non sia [...] un atto creativo di retrospezione, nel quale agli eventi e alle parti dell’esperienza viene attribuito un significato [...]. L’esperienza è dunque sia un “vivere attraverso” che un “pensare all’indietro” ».81

L’esperienza è sia il procedere attraverso la vita, sia la capacità di riconsiderare quel che si è vissuto. Significa riconoscersi per “pensare all’indietro”: tornare su ciò che abbiamo vissuto e interrogarlo a proposito dei suoi significati.

La possibilità di questo riconoscimento ha a che fare proprio con la narrazione e il modo più comune in cui si realizza il “pensare all’indietro” è infatti il racconto. Come l’esperienza, anche la narrazione, dicevamo, pareva per Benjamin atrofizzarsi nella modernità. Dello stesso taglio paiono le considerazioni sulla difficoltà di raccontare, e quindi di rendere conto della propria esperienza, di attribuirvi un significato e così di appropriarsene o di “elaborarla”.

In generale, si potrebbe constatare e, il discorso sui reduci di Benjamin, serve per illustrare attraverso il caso più estremo qualcosa che appartiene a tutti i soggetti moderni, come sussista una certa difficoltà nel socializzate i racconti, nel trovare destinatari in grado di accoglierli, soprattutto dopo esperienze estreme, il che comporta una grande difficoltà di elaborazione dell’esperienza stessa, che resta come un trauma irrisolto, un segreto indicibile, non più comunicabile.

L’irruzione di mutamenti repentini, lo scollamento fra memoria collettiva e memorie individuali, la frammentazione dei vissuti, rendono difficile acquistare il senso della propria continuità, e dunque appropriarsi della propria esperienza: narrare e narrarsi. Una diagnosi che a molti sembra, nella tarda o post-modernità in cui ci troviamo, ancora più vera che al tempo in cui Benjamin scriveva.

È opportuno però che si scelga di intendere con il termine “narrazione” un’azione, attraverso la quale si racconta una storia, ovvero si produce un discorso che ha per oggetto una storia.

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Victor Turner, From ritual to theatre : The human Seriousness of play, New York, PAJ Publications, Division of Performing Arts Journal, Inc. ; trad. It., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986.

D’altro canto, come scrive Bordieau, «nella realtà esistono raramente delle azioni singole; esistono, invece, delle condotte, corsi d’azione o inter-azioni che tendono ad assumere nel tempo, in ciascun campo della vita sociale, forme parzialmente standardizzate, che potremmo chiamare “pratiche”»82. Si tratta, dunque, di pratiche narrative, ovvero, un genere di pratiche, parzialmente standardizzate o codificate e caratterizzate dal fatto di essere pratiche discorsive e dal fatto che i discorsi in questione sono di genere narrativo, cioè sono “racconti”. In altre parole, si tratterebbe di quel genere di pratiche in cui, attraverso un racconto, due o più soggetti mettono in comune una storia.83

La presenza di tali pratiche è probabilmente una costante umana. Il tempo narrativo, scrive Ricœur, è infatti «un tempo umanamente rilevante», la cui rilevanza è data dai significati assegnati agli eventi dai protagonisti della narrazione o dal narratore della storia o da entrambi. Come ha scritto sempre Paul Ricœur, «non sappiamo che cosa sarebbe una cultura nella quale non si sappia più che cosa significhi raccontare»84. Le pratiche si trasformano e la scrittura, senza contare la sempre più lunga serie di innovazioni mediali, hanno trasformato queste pratiche al punto di farne temere, se non la scomparsa, quanto meno una certa atrofia. È, come abbiamo visto, la tesi di Benjamin. Vi sono diverse ragioni a favore di questa tesi, almeno per quanto riguarda le pratiche narrative che si dispiegano oralmente fra persone compresenti nello spazio e nel tempo. La più ovvia sta nel fatto che nel mondo contemporaneo vi sono innumerevoli agenzie che si occupano di rifornirci di storie a vari titoli e per vari motivi. Per ascoltare una storia non abbiamo bisogno di rivolgerci a una persona in carne e ossa. Ma, così come la comparsa dei vari mezzi di comunicazione che si sono succeduti nel tempo non ha cancellato l’esistenza di conversazioni faccia a faccia,

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P. Bourdieau, Esquisse d’une théorie de la pratique, Paris-Genève, Droz 1972. 83

In quanto inter-azioni, le narrazioni si dispiegano entro relazioni sociali e contribuiscono a dar loro forma e significato. D’altro canto, sono azioni particolari: azioni in cui si raccontano azioni; esse costituiscono dunque aspetti peculiari della riflessività che caratterizza gli attori sociali (Melucci 2000). Tenendo conto di ciò, è evidente che anche i racconti in se stessi (e non solo le narrazioni) interessano il sociologo: di norma, tuttavia, in chiave subordinata allo studio delle dinamiche relazionali entro cui sono situati.

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allo stesso modo non è vero che abbiano cancellato definitivamente pratiche narrative di carattere orale. Queste ultime sono oggi soltanto un settore, e non il più ampio, dell’insieme delle pratiche narrative: il più ampio è costituito dalla produzione e dalla fruizione di racconti mediati. Tuttavia, continuano a far capolino nelle nostre conversazioni.

Certamente, nelle conversazioni non è sempre facile distinguere il discorso narrativo dagli altri generi di discorso, e dunque la “narrazione” dalla più ampia pratica del conversare. Il discorso narrativo è un discorso che rappresenta il tempo e la contingenza. Tuttavia, come ha notato Herrnstein Smith, «quasi ogni espressione verbale è legata a una dose più o meno piccola di narrazione, che può andare dal resoconto frammentario e dall’aneddoto appena accennato fino a quei discorsi più definiti e contrassegnati da alcune convenzioni linguistiche che tendiamo a chiamare […] “racconti”»85.

Affinché la conversazione ovvero la pratica discorsiva si contrassegni come una narrazione, si deve dispiegare anche come un’interazione: una pratica grazie a cui un narratore e un destinatario mettono in comune una storia: ma quali storie, come e perché vengano messe in comune dipende dalla relazione che sussiste fra il narratore e il destinatario, la quale a sua volta può essere rafforzata o, in certi casi, modificata dalle storie che ospita. Non a tutti infatti si raccontano le medesime cose86. Il sociologo Joshua Meyrowitz, in un suo celebre libro, afferma che la relazione che il narratore intrattiene con il destinatario determina tipo e modalità del racconto, nonché i contenuti, introducendo alcune importanti riflessioni sulla molteplicità dei sé che abitano in ciascuno di noi, come in ognuna delle nostre narrazioni. «Verso la fine

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La definizione della situazione è negoziata nell’interazione, e naturalmente può comportare tanto elementi di accordo quanto di disaccordo: interruzioni, cambiamenti di tono o di argomento, strategie di conferma o di disconferma reciproca possono comportare modifiche di questa definizione anche nel corso della stessa conversazione. D’altro canto a distanza di tempo, nel ricordo dei partecipanti, la medesima situazione può essere reinterpretata in modi diversi, cambiando così il senso stesso del racconto che vi si era dispiegato. Per tutto ciò valgono le osservazioni dell’analisi della conversazione.

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J. Meyrowitz, *o sense of Place: The impact of Electronic media on social behaviour, New York, Oxford University Press, 1985; trad. it.Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1995.

degli anni Sessanta quando ero studente universitario, passai tre mesi di vacanze estive in Europa. Feci un’ampia gamma di esperienze nuove ed eccitanti e, quando tornai a casa, ne parlai agli amici, alla mia famiglia e ad altri conoscenti. Ma non a tutti riferii esattamente la stessa versione del mio viaggio. Ai miei genitori, per esempio, diedi ragguagli sulla sicurezza e la pulizia degli alberghi in cui avevo soggiornato e su come il viaggio mi avesse reso meno pignolo nel mangiare. Ai miei amici, invece, parlai di pericoli, di avventure e di una breve storia d’amore. Agli insegnanti descrissi gli aspetti “educativi” del viaggio: visite a musei, cattedrali, luoghi storici e osservazioni sulle differenze culturali e comportamentali. Ognuno dei miei vari pubblici udì un discorso diverso. Le storie del mio viaggio erano diverse tanto nel contenuto quanto nello stile. Cambiavano le costruzioni grammaticali, i modi di pronunciare le frasi e la quantità dei termini gergali. In ogni situazione, cambiavano le espressioni del viso, le posizioni del corpo e i gesti delle mani. In ogni racconto variavano il misto di frivolezza e di serietà. I miei amici, per esempio, udivano un discorso pieno di “parolacce” e di sarcasmo […]».87

Questa constatazione in effetti ha molto più senso se si considera il discorso narrativo orale, ovvero la conversazione faccia a faccia, all’interno della quale la qualità della relazione determina quella della narrazione e dei racconti che circolano; e la qualità di questi ultimi determina a sua volta di che tipo di relazione si tratti.

Discorso diverso va fatto, invece, per la narrativa mediata dalla scrittura, dal testo che comporta di norma la separazione del narratore dal suo pubblico empirico, così emancipandone la prestazione dai vincoli che raccontare in faccia ad un altro comporterebbe e offrendo una compensazione rispetto al limite imposto alla possibilità di nominare quella che Forster chiamava “vita nascosta”: «le pure

87 J. Meyrowitz, *o sense of Place: The impact of Electronic media on social behaviour, New York,

passioni, quei sogni, quelle gioie, quei dolori e quei colloqui con se stesso di cui l’educazione o il pudore vietano di fare parola»88.

Non a caso, Forster sosteneva la relativa superiorità del romanzo rispetto a ciò che si può narrare all’interno di una conversazione. Proprio a causa della separazione tra il narratore e il destinatario, il romanzo permette infatti di toccare argomenti che in una situazione faccia a faccia potrebbero venire affrontati solo eccezionalmente, con cautela, o non venire affrontati per nulla: l’anonimità della relazione permette di aggirare il riserbo e il pudore di cui le relazioni personali devono tener conto molto più attentamente.

Contenuti, forme e funzioni della narrazione, nella vita quotidiana, possono di conseguenza essere tanto vari quanto sono varie le relazioni in cui ci troviamo implicati e tanto vari i luoghi e le funzioni sociali connesse alle diverse situazioni in cui la narrazione si svolge89.

Ciò ci induce ad affermare, senza ombra di dubbio, che la narrazione non è affatto assente dalla vita quotidiana moderna, contraddicendo un poco Benjamin e la supposta atrofia narrativa connessa al modernismo e postmodernismo e che le forme, i contenuti e le funzioni sociali delle narrazioni concrete dipendono dalle relazioni