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L'educatore come soggetto epistemico

esperienza e quotidianità

Capitolo 4 Lo studio delle pratiche educative

4.1. La valenza epistemica ed epistemologica dell’analisi delle pratiche

4.1.2. L'educatore come soggetto epistemico

Ogni lavoratore della vita dello spirito sa bene che il lavoro personale riposa. Ora, nella cultura scientifica, ogni lavoro, assume un aspetto personale.

Gaston Bachelard

Nell'affascinante e impervio itinerario che conduce al confronto tra epistemologia, soggettività e persona, alla verifica del ruolo della soggettività e della persona, nel complesso e a volte caotico panorama epistemologico contemporaneo, ci si chiede, tenendo conto di alcuni orientamenti di pensiero della tradizione epistemologica e personalistica del novecento, se la persona umana sia coinvolta nella conoscenza scientifica in quanto tale o se la conoscenza scientifica esige l'intervento del ricercatore, considerato non come un mero strumento rilevatore, bensì come un soggetto attivo, originale e creativo, cioè come una persona.

Si intende prendere in considerazione il ruolo epistemico del soggetto-persona nella conoscenza scientifica, della sua funzione nella costruzione di un tipo di conoscenza che pretende di assumere i caratteri dell'oggettività e dell'universalità.

È interessante ricordare una nota citazione di Bachelard, secondo cui «la conoscenza scientifica reclama l'idea di soggetto conoscente, inteso come soggetto qualunque, cioè come soggetto il cui statuto e il cui operare sono difficilmente riconducibili alla soggettività personale tradizionalmente intesa»61.

In realtà, l'epistemologia, per usare un'espressione di Popper, è «senza soggetto conoscente»62, ovvero senza la persona che interviene nella conoscenza.

Volendo azzardare un'ipotesi sulla possibilità di un'epistemologia dell'esperienza personale, cioè quell'ambito della riflessione epistemologica contemporanea che si occupa della struttura dell'esperienza personale, della stessa natura dell'identità

61

G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico. Contributo a una psicoanalisi della

conoscenza oggettiva, (Enrico Castelli Gattinara a cura di ), R. Cortina, Milano 1995.

62

personale63, non vi è dubbio che il sintagma epistemologia personalista si presenta, nel panorama odierno della riflessione epistemologica, in modo veramente problematico, addirittura dilemmatico e contraddittorio per i termini che lo compongono: epistemologia e persona. L'unione cui essi danno luogo sembra snaturare i significati dei termini stessi, occupando un terreno assolutamente non coincidente, né assimilabile in qualche modo. È noto, ad esempio, in Jacques Maritain, che «la conoscenza scientifica, tipica espressione del moderno, abbia perduto ogni contatto col fondamento metafisico della persona, con la sua realtà insieme nascosta e sostanziale».64

Per Maurice Nedoncelle, inoltre, quello della scienza è «uno dei mondi dell'impersonale». Infatti, se nell'ambito dell'esperienza umana si danno diverse “forme d'impersonalità”, una di esse, forse la più radicale, sostiene Nedoncelle, «è quella dell'oggettività del sapere, cioè della scienza».65 Una tale situazione non può tuttavia, secondo Nodencelle, lasciare indifferente il personalismo che «deve segnare con la sua impronta la teoria della conoscenza facendole recuperare lo spessore ontologico, l”impronta del nostro carattere spontaneo, la sua valenza intersoggettiva, la sua pretesa universalistica». La conoscenza, la stessa conoscenza scientifica è «in certo modo altruista, perché è rivolta verso l'altro, se non sempre verso un'altra coscienza»66. È proprio attraverso una visione personalista che il nostro autore ribadisce che «nella conoscenza scientifica l'esattezza dell'intelligenza coincide con la sua originalità»67.

Emmanuel Mounier, l'indiscusso padre del personalismo contemporaneo, è convinto

63

Per questo tema si rimanda al testo di C. Gabbani, Per un'epistemologia dell'esperienza personale, Guerini e Associati, Milano 2007, p. 18.

64

Si veda Scienza e saggezza, tr. it. di Piero Viotto, Borla, Torino 1962, p. 92; Antimoderno (1922), tr. it. di Oreste Orlandi, Roma, Logos, 1973, p. 48. Utili considerazioni a questo proposito si possono trovare nei saggi del volume dedicato al pensiero di Maritain: In AA. VV., Filosofia e scienza della natura. Con un'antologia di scritti di epistemologia di J. Maritain, a cura di Enrico Garulli, Massimo, Milano 1993.

65

M. Nedoncelle, Verso una filosofia dell'amore e della persona (1946), tr. it. di Carla Miggiano di Scipio, edizioni Paoline, Roma 1959, p. 217. Intero paragrafo I mondi dell'impersonale pp. 217- 220.

66

Ibidem, pp. 221-222. 67

che ci sia una sorta di impegno personale, anche nella mera esplicitazione di un'astratta formula scientifica, giungendo addirittura a sostenere che la «razionalità oggettiva della scienza è una di quella attività che permette all'esperienza personale di non trasformarsi in delirio narcisistico ma di costituirsi come autentica comunicazione intersoggettiva»68. L'intersoggettività viene ad essere il necessario tragitto che ogni conoscenza, tanto più quella scientifica, compie dal personale all'impersonale. Proprio per questo l’intersoggettività non è la cancellazione della soggettività personale, bensì la sua apertura alla comunicazione. Si tratta di un'apertura indispensabile perché la comunicazione s'instauri, perché un pensiero personale assuma si di sé il timbro dell'oggettività impersonale: «Un pensiero esiste o si irradia solo quando è compenetrato con un soggetto; ma se esso non si rende comunicabile, cioè impersonale da un punto di vista, non è pensiero ma delirio: la scienza e la ragione oggettiva sono supporti indispensabili dell' intersoggettività»69. Ricordando uno dei punti centrali dei saggi di Braudel, a proposito di quanto detto sull'”analisi storica”, e sullo statuto narrativo della storia, costruita essenzialmente sugli eventi, Braudel afferma che «gli eventi sono ciò che esseri agenti fanno accadere e, per conseguenza, partecipano della contingenza propria dell'azione».70 L'azione, dunque, secondo questo modello implicito, può essere sempre attribuita ad agenti individuali, autori o vittime degli eventi. Seguendo questa linea di pensiero, intrecciando la questione della soggettività intesa come costrutto ideologico, nonché come comunità di soggetti pensanti, in interazione tra loro, ne deriva l'appropriazione di un ruolo fortemente attivo della soggettività in quanto tale, i cui processi comunicativi determinano non soltanto le modalità con cui la realtà viene conosciuta, ma la costruzione stessa della realtà.

In una delle ultime pagine de Il soggetto qualunque. Bachelard, fenomenologo della soggettività epistemica, Carlo Vinti riassume l'idea di soggettività epistemica

68

Emmanuel Mounier, Il personalismo, (1949), tr. it. di Aldo Cardin, Roma AVE, 1952, p. 110. 69

Ibidem, pp. 58-59.

70 Fernand Braudel, La mediterranée et le monde mèditerraneen à l'èpoque de Philippe II, Armand

Colin, Paris, 1949, tr. it. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Einaudi , Torino, 1953, pp. 21-24; in P. Ricoeur, op. cit., p. 188.

dell'epistemologo francese: «L'uomo di scienza è un'anima che nella sua attività realizza il soggetto come persona...Il soggetto qualunque come soggetto personale. La persona come acquisto del vertiginoso trascendimento della soggettività più immediata e concreta attuato dal pensiero scientifico. La persona come apertura e disinteresse essenziale e radicale. Sì, il soggetto qualunque come persona, perché è proprio nella vertiginosa trascendenza, dei nostri interessi immediati, nella più disinteressata anonimia, che ritroviamo la parte più nobile di noi stessi. Ed è, per Bachelard, anche (soprattutto) il pensiero scientifico, che può condurci a questa esperienza».71

Esaurito quest'ultimo spunto di riflessione, nella prospettiva di ricondurre quanto esposto all'oggetto di indagine del presente lavoro che è appunto l'analisi della pratica dell'educazione, nella fattispecie il ruolo dell’educatore professionale, colui che si occupa di bambini, piccoli o di giovani o adulti in condizione di difficoltà o sofferenza, va detto che si tratta di un lavoro che mette chi lo svolge in una condizione di fatica che, a nostro parere, può essere sostenuta solo nell'ambito di in una prospettiva di ricerca, ricerca nel senso dell’approfondimento, ovvero far sedimentare l’esperienza di oggi per essere più consapevoli e saggi domani.

Riteniamo, ed è questo il nostro presupposto fondativo, che una buona formazione per l’educatore professionale debba comprendere un insegnamento teorico, attivo e interdisciplinare, lo sperimentarsi in una pratica, la cura della crescita personale, in reciproca alternanza e compresenza. Occorre, e da questo presupposto intendiamo intraprendere la nostra indagine, un lavoro di elaborazione dello studio e dell’esperienza in competenza e conoscenza, attraverso un’attività particolare: la scrittura.

A proposito dell’educatore professionale, soggetto e oggetto della presente indagine, la pedagogia istituzionale parla di posizione di educatore professionale come

71

Carlo Vinti, Il soggetto qualunque. Bachelard, fenomenologo della soggettività epistemica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, p. 983.

disposizione alla relazione, tale da indirizzare l’interlocutore a uno scambio con il mondo esterno o alla relazione su un rapporto duale.

Spesso, riferendoci all’educatore professionale, si tende ad etichettarlo come lavoratore della vita quotidiana, intendendo per vita quotidiana, la struttura connettiva dell’esistenza72. La considerazione riservatagli, socialmente parlando, è abitualmente scarsa.

Ritornando al concetto del quotidiano, già espresso e definito come il luogo dell’umile e dell’ovvio, e ravvisando nell’idea di sviluppo e di progresso, il debole peso che acquisisce per l’uomo moderno e post-moderno, l’attività creativa, regno da sempre considerato fuori dalla ricerca e dall’evoluzione, a rimorchio del progresso pensato e costruito altrove, risulta di facile e automatica applicazione considerare la quotidianità, come residuo non interpretabile, rispetto alla storia, il suo essere il tempo della ciclicità, dei sentimenti, dell’invisibilità sociale, della sussistenza, a rimorchio della produzione materiale e intellettuale.

Il quotidiano, regno da sempre attribuito alla donna, è anche il tempo e lo spazio dell’educatore professionale. La sua pratica ha a che fare con il tenere assieme e sulla scena sociale le parti che pongono problema alla società.

La loro professione li mette nella condizione di scegliere fra due modi di apparire sulla scena sociale: o cercare di creare consenso, ovvero di adeguare, modellare coloro dei quali si occupano, quelli che la società ha messo da parte, o impressionare, dell’esperienza dei messi a margine, tutto il corpo sociale. Luisa Muraro, esprime il suo pensiero a proposito del “farsi impressionare” di cui parla anche Paolo Jedlowski. Si tratta di passare dal fare esperienza ad avere esperienza, ovvero diventare consapevoli del senso, in ordine al cambiamento e alla conoscenza, di questo “farsi impressionare”, della sua incredibile operatività potenziale.

La professionalità dell’educatore è anche stata accostata al cosiddetto maternage,

ovvero un comportamento di cura, un buon esempio, dunque, dell’unione di

competenza e conoscenza legate alla vita quotidiana. Il maternage è capacità di

72

Si veda H. Lefebvre, La vie quotidienne dans le monde moderne, Paris, Gallimard, 1968, in P. Jedlowski, Il tempo dell'esperienza, F. Angeli, Milano 1986.

osservazione e di azione, il che corrisponde a quello che la Dolto definisce come interrogativo centrale di ogni azione educativa, connotata tanto di significato materiale, che epistemologico. Si tratta di un sapere che conserva misura e spontaneità, capacità appunto finalizzata alla pratica, il cui coordinamento non nasce da un pensiero, bensì da una passione. Il passaggio dal maternage, sulla quale esiste poca letteratura in ambito pedagogico, al piano professionale dell’educatore implica una formazione che sia non solo intellettuale, ma anche esperienziale ed emotiva, intendo per intellettualizzazione il cercare di parare col ragionamento i colpi che l’eccesso di informazione e di emozione ci procura.

L'esperienza degli educatori è, a nostro avviso, accostabile a quella che Simone De Beauvoir dice essere l'esperienza delle donne nel quotidiano, la cui pratica è quella che comprende due aspetti, uno misero e uno nobile: compiti fastidiosi, sempre da ricominciare, rapporti elementari con le cose, ripetitivi e però, attraverso questi, l'appropriazione per il possibile, di spazio, tempo e desiderio. Gli educatori si occupano infatti dello stare e dello stare insieme, in società, oltre i rapporti economici. Il loro lavoro ha a che fare con il tenere assieme e sulla scena sociale (anche se ai suoi margini) le parti che pongono problema alla società.

L'impressione che hanno a volte gli educatori di essere “cuscinetti”, “ammortizzatori”, al servizio di un disegno sociale che magari neanche condividono e l'immagine di svalutazione che vi collegano hanno radici in questa realtà, nel lavoro di tenere assieme pezzi che la società non collega o collega falsamente.

Luisa Muraro esprime in questo modo il suo pensiero, rivolto agli educatori: «Voi educatori siete, per il vostro lavoro, vicini alla parte selvaggia della società, quell'insieme di cose irrisolte e di contraddizioni che il corpo sociale mette da parte perché non stanno nel suo ordine. Se cercate subito di fare delle mediazioni, voi ponete un velo sulla realtà che avete di fronte. Il modo in cui potrete portare la parte selvaggia nel corpo ordinato, procede dall'iniziale stare in presenza, tenersi in presenza di ciò che non ha senso. Il che è molto difficile, soprattutto se siete in presenza di ciò che non ha senso. Le cose hanno un senso interno e se stiamo in loro

presenza , esse ce lo mostrano. Per questo dobbiamo prendere del tempo, non coprire la realtà con l'ordine verosimile della nostra cultura che vorrebbe mediare tutto. In questo modo vi modellate mentalmente, secondo le cose senza senso davanti a voi: la cosa senza senso vi impressionano e quando ragionate su tutte le cose del mondo, non soltanto di quelle di cui vi occupate direttamente legate alle cose senza senso, scoprite di essere più liberi e più intelligenti»73.

Impressionare la società dell’esperienza dei messi a margine, dunque, per lasciarsene impressionare, e cogliere la ricchezza e l’operatività potenziale del diventare consapevoli del senso, in ordine al cambiamento e alla conoscenza, attraverso il passaggio dal fare esperienza all’avere esperienza74.

La Muraro sottolinea poi che l’avere esperienza è diverso dal fare delle esperienze: è diverso da studiare, essere informati, avere delle conoscenze specialistiche. In questi casi i fatti che ci colpiscono sono intellettualizzati per difenderci dagli choc e limitare il coinvolgimento emotivo. Ma il lavoro di cura e di educazione si realizza anche e soprattutto attraverso le emozioni e c’è bisogno di elaborarle. È avere esperienza che permette (non essere informati) di fare bene una cosa, di scegliere, di consigliare e aiutare.

Lavorando nella formazione ci si chiede quale tipo di conoscenza possa interessare gli educatori nei due sensi possibili: conoscenza di cosa e per che cosa. Ci si pone dunque un interrogativo epistemologico.

Ricorrendo all’impalcatura di riflessioni sulla conoscenza ed esperienza di lavoro di P. Jedlowski e Ivar Oddone, si può certamente affermare che la conoscenza di sé e degli altri, nonché delle situazioni che l’educatore ha del suo lavoro non è né una conoscenza che prende le distanze dalla situazione, dall’obiettivo del lavoro, dal benessere degli attori avendo un obiettivo fuori dalle situazioni, né una conoscenza di buon senso che dà le cose per scontate: è una conoscenza legata al “cosa serve, nasce

73

Luisa Muraro, comunicazione orale fatta nel dicembre 1989 al Corso Educatori dell’USL 27 di Bologna, in Scrivere l’esperienza in educazione, E. Cocever e Angela Chiantera, Heuresis , Scienze dell’educazione, Bologna, 1996, p. 36.

74

Vedi E. Cocever, Angela Chiantera, op. cit., p. 37. Del passaggio fra fare esperienza ed avere esperienza parla anche P. Jedlowski in Il sapere dell’esperienza, cit.

da una situazione di bisogno e produce qualcosa di vantaggioso”. Ivar Oddone descrive il suo farsi parlando del “tecnico grezzo”: «L’educatore ha un ruolo importante all’interno dei processi che determinano la qualità dei servizi dal momento che deve tener conto, ne suo lavoro, della congruenza di diversi modelli di intervento nei confronti degli utenti, per il loro benessere e l’efficacia del servizio stesso. Di fronte alle situazioni spesso contraddittorie che incontra, l’operatore attua interventi che hanno valore di soluzioni: gli interventi e il loro succedersi, le azioni attraverso cui si realizzano, le strategie espresse dagli interventi e dalle azioni sono il modello d’uso della professione. Il modello d’uso è l’espressione concreta di un equilibrio sempre ricercato tra aspettative e progetti propri derivanti dalla formazione ricevuta e da esperienze precedenti ed aspettative, richieste, esigenze che all’educatore vengono dall’esperto, dalla vita quotidiana nei servizi. La caratteristica del modello d’uso è di non essere esplicito, di appartenere alla sfera del non-detto, come competenza, patrimonio del singolo che l’ha prodotto. Pur non essendo teorizzato, né solitamente riconosciuto, esso è comunque la risposta reale offerta dall’operatore alle situazioni e ai problemi che si pongono nelle varie circostanze»75. Il sapere che tiene conto del “cosa serve” è il sapere esperienziale, il sapere che, partendo dai materiali della vita quotidiana e dalle formule della memoria collettiva, mette il soggetto di fonte alla propria domanda di senso. Un sapere che non esclude, ma anzi richiede, la considerazione della sensibilità del soggetto e della sua particolarità. Un sapere che nasce dalla frequentazione del quotidiano nei confronti dell’astrazione e degli effetti di potere del pensiero nelle sue vesti più altre. In altre parole, si tratta di una presa di distanza dall’immediatezza quotidiana, che porta a comprendere la vita sullo sfondo della consapevolezza della sua insondabilità. Le ragioni dell’esperienza si configurano dunque come le ragioni del soggetto concreto che mette in campo tutte le dimensioni della sensibilità, degli affetti e dell’inconscio, quanto quelle della ricerca del senso della vita e dell’etica.

L’educatore che si pone come soggetto epistemico, è colui che applica le teorie

75

Ivar Oddone, G. Briante, Esperienza operaia, coscienza di classe e psicologia del lavoro, Einaudi, Torino 1977.

apprese, il sapere scientifico, quello razionale, fondato sull’osservazione, quello accumulato con lo studio, ma anche colui che opera pensando alle teorie e utilizzando la “riflessione-in-azione"76.

Si tratta di un repertorio di modelli differenziati costruiti sul campo che alimenta, da parte dei ricercatori, il lavoro e il loro impegno di formalizzazione di teorie (più o meno implicite) nelle pratiche educative, come ci accingiamo a dimostrare nella seconda parte del presente lavoro che attiene proprio alla ricerca sul campo e alla formalizzazione dei dati desunti dalla pratica.

In questo quadro, appunto, l’educatore si configura come soggetto produttore di conoscenze: la pratica educativa, infatti, non chiama in causa paradigmi di linearità di

applicazione teoria-pratica, ma comporta piuttosto una trasformazione

epistemologica. I contesti pratici educativi non sono affatto semplici campi di esecuzione di teorie, bensì luoghi in cui l’educatore manipola, più o meno creativamente, teorie, elabora conoscenze, costruisce un “mondo di regole”. In altri termini, costruisce un sapere in corso d’opera, conversando con la situazione e con ciò che accade, un organizzatore delle condizione concrete in vista di un cambiamento significativo a livello educativo-formativo.

Il pensiero corre ancora una volta a Paul Ricoeur e alla sua ipotesi di sagesse pratique proprio dell’essere agente in quanto «tout engagement est une résponse»77, definendo un nuova epistemologia della pratica che disegna un professionista come soggetto costruttore del proprio sapere, come colui che incrementa la propria professionalità conversando, come già detto, con i materiali che incontra e soprattutto utilizzando la conoscenza nel corso dell’azione e la riflessione in corso d’opera come strumenti di formazione e sviluppo.

La proposta dell’educatore come soggetto epistemico si presenta, dunque, alla luce di contributi, fin qui presentati, come il manifesto dell’epistemologia personalista, dove la soggettività personalizzata dell’educatore come costruttore di conoscenze nello

76

Vedi Cosimo Laneve, Scrittura e pratica educativa, cit. p. 37. 77

P. Ricoeur, Soi-mȇme comme un autre, Paris, Seuil, tr. it. Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.

svolgimento del suo ruolo, appare come emblematico del tentativo di riconoscerne una dignitosa titolarità di risorsa qualitativa nella ricerca educativo-formativa.

L’identità professionale, in questo modo, non è più da leggersi con la lente della necessità, quanto con quella della possibilità: non come esercizio di automatismi e di stereotipie, bensì come pratica di flessibilità, dinamicità, pluralità. Come dice Pennac, «Il suo modo non è l’indicativo, ma il congiuntivo»78.

Si tratta di costruire una professionalità in grado di elaborare conoscenze situate, che si caratterizzi non più in base ai contenuti materiali della prestazione, ma in base al servizio (al valore) prodotto rispetto alla realtà dei problemi affrontati.

Secondo questo modello, il professionista educativo, sia esso insegnante o educatore, non dovrebbe più sentirsi subordinato al ricercatore, bensì si potrebbe porre in rapporto paritetico e offrire a quest’ultimo tutte le sue interpretazioni/concezioni circa la pratica educativa. Si tratterebbe di uno scambio/confronto che, se è tale, potrebbe contribuire ad annullare il divario esistente tra università e scuola, ricerca e pratica, ricercatori e professionisti educatori sul campo, proprio in virtù di una dinamica di scambi dove entrambi interagiscono produttivamente, sia per la teorizzazione della