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Art-propriAzioni Inclusive

Francesca Danesi

Elaborazioni del Proprio all’interno di un Comune

Inclusione qui non significa accaparramento assimilatorio né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche – e soprattutto – a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere. (Habermas 1996, 10)

Se per inclusione intendiamo l’azione di comprendere un singolo elemento/soggetto all’interno di un tutto/insieme, l’architettura è inclusiva quando è in grado di far spazio a soggettività singole o plurali (artisti, persone, identità, gruppi) escluse o marginalizzate dai sistemi dominanti (nella fattispecie, dal sistema dell’arte contemporanea, in generale dal mercato o dalla società stessa). Jürgen Habermas, in L’inclusione dell’altro, auspica società pluralistiche maggiormente inclusive nell’accezione di «sensibili alle differenze», in grado di riconoscerle e valorizzarle, in cui “l’altro” sia accolto, non assimilato o rifiutato. Un’inclusione che parte dal riconoscimento delle reciproche differenze e porta alla loro valorizzazione, non all’omologazione a un insieme/gruppo preesistente.1

Da questo punto di vista, è difficile individuare realtà più inclusive degli spazi artistici indipendenti (anche definibili alternative spaces, spazi- progetto, friche artistique, artist-run-spaces, o ulteriori denominazioni), i quali, nascendo “al di fuori” delle logiche dominanti e auto-determinandosi in piena autonomia, si configurano come Alternativa, come “Altro” 1 - «L’eguale rispetto per chiunque, richiesto da un universalismo sensibile-alle-differenze, prende allora la forma di una “inclusione dell’altro” che ne salvaguardi le diversità senza né

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e “Altrove”, si presentano come luoghi d’apertura e condivisione, di produzione artistica e di open culture, spazi di libertà e costruzione di possibilità future, di progettazione, sperimentazione, ibridazione d’idee, culture e azioni, laboratori d’identità, legami sociali, realtà da vivere, in cui dar luogo a esperimenti di micro-società, cantieri dove elaborare il proprio sé, all’interno di un terreno comune.

Esperienze alternative

Il fenomeno architettonico, artistico e politico al contempo, degli spazi artistici e culturali indipendenti si è generato, a partire dai tardi anni Sessanta, tingendosi spesso delle connotazioni politiche dei fermenti di protesta e spinta al rinnovamento di quel periodo, vivendo una stagione particolarmente prolifica negli anni Settanta e Ottanta a New York e in capitali europee come Londra e, dopo il 1989, Berlino.

Nel nuovo millennio (con dinamiche già vivaci negli anni Novanta in America2 e sempre più accelerate e di respiro mondiale nell’ultima decade) si sta esponenzialmente diffondendo su scala globale, favorito dalla rete, che permette che tra le singole esperienze si stabilisca un rapporto non solo di comunicazione, ma di fertile scambio e sinergica collaborazione.3 Numerosi network, operanti a diverse scale territoriali, connettono le singole realtà locali, promuovendone cooperazione e sviluppo.Tali luoghi hanno offerto e offrono tutt’oggi asilo agli artisti che per scelta o costrizione non trovano spazio nei circuiti del sistema dell’arte. Le esperienze alter- native scaturiscono spesso proprio dalla necessità degli artisti “fuori” dal sistema dominante di crearsi uno spazio d’espressione, come avvenuto, ad esempio, nel caso dello Studio Museum Harlem, nato nel 1968 a New York, in seno al movimento per i Diritti Civili (Rosati e Staniszewski 2012, 108). All’origine della decisione di aprire lo spazio di 2033 Fifth Avenue c’è proprio l’esclusione degli artisti afro-americani dalla mostra al Whitney Museum (The 1930s: Painting and Sculpture in America, 1968), alla quale risponde, l’anno seguente, l’esposizione Invisible Americans: Black Artists of the 1930’s. Il proposito di Charles Innis, primo direttore del nascente spazio indipendente, è quello di creare «un terreno dove i 2 - Nel 1994, per esempio, a Brooklyn viene fondato Pierogi, spazio artistico indipendente che ha ospitato le opere di Mark Lombardi e che, nel 2009, ha aperto il Boiler, un ulteriore spazio espositivo per installazioni ambientali di grandi dimensioni.

3 - Network globali, come Res Artis network, continentali, come l’europea Trans Europe

Halles, nazionali, come quello dei Giovani Artisti Italiani, o ancor più capillari, come Actes-if,

riguardante i luoghi artistici e culturali indipendenti della sola zona della Île de France, ma appartenente al network TEH.

mondi artistici dei bianchi e dei neri si possano realmente incontrare» (Rosati e Staniszewski 2012, 108). Fin dalla fondazione sono stati previsti programmi per residenze e workshop. Nei decenni lo Studio Museum si è trasformato (si è formata una collezione permanente) e ha cambiato diverse sedi, ma senza mai smarrire l’intento e la natura inclusiva.4 È proprio la vocazione a fare spazio a soggettività “altre” a rendere queste esperienze particolarmente preziose.

Pratiche e processi di trasformazione riappropriativa

Il mondo sociale – ossia la totalità delle relazioni interpersonali legittimamente regolate – è soltanto accessibile nella prospettiva del partecipante. […] Il mondo sociale è intessuto in maniera inestricabile delle intenzioni, concezioni, pratiche e linguaggi dei suoi appartenenti. (Habermas 1996, 52)

I centri artistici indipendenti fan spazio a forme artistiche, modalità produttive ed espositive differenti da quelle degli spazi tradizionali (vi sono residenze artistiche anche permanenti, spazi dove praticare l’arte in modo laboratoriale e collaborativo...), talvolta si aprono anche a persone colpite da esclusione abitativa, come nel caso del MAAM di Roma, in cui vivono famiglie sfrattate e impossibilitate ad accedere al mercato immobiliare della capitale, o La Générale di Parigi, che mette a disposizione i propri spazi per le assemblee dei sans-Papiers.5 Il loro programma funzionale è dunque alquanto articolato e variabile, poiché si cala in un continuo progetto dell’organizzazione e dell’uso condiviso degli spazi esistenti che dunque vengono riallestiti e trasformati incessantemente, a seconda delle esigenze della specifica situazione. L’ampia hall de La Générale, per esempio, viene frequentemente trasfigurata per ospitare mostre, workshop, eventi artistici o culturali, pranzi sociali, fiere editoriali o semplicemente per le varie attività quotidiane lavorative, di formazione o ricreative, coerentemente alla sua natura di «spazio conviviale».6

4 - Tra le attività laboratoriali si segnala il “Cinema workshop” per i giovani residenti del quartiere di Harlem.

5 - La Générale, attiva dal 2005 in diverse sedi a Parigi, si definisce cooperativa artistica, politica e sociale. Tra le molteplici attività artistiche, formative, residenziali e altre ancora, si offre anche come spazio assembleare per gruppi informali privi di riconoscimento «La

Générale met à disposition ses espaces pour permettre au collectif d’assurer ses rassemblements et de préparer ses actions»: https://www.lagenerale.fr/?p=8223 [2017].

6 - La hall di dieci metri d’altezza e 300mq di superfice viene definita «espace convivial

par nature, elle est le lieu de rassemblements des résidents en présence, elle sert également d’atelier pratique pour différentes interventions culinaires, et fait office de laboratoire de recherche gustative.

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Le realtà indipendenti, radicandosi nel contesto fisico, urbano, sociale e umano da cui traggono la propria ragione d’essere, assumono caratteristiche locali, tuttavia foriere di principi universali di validità globale. Prediligono gli spazi marginali/negletti e scelgono di ri-abitare edifici abbandonati delle più variegate tipologie, dagli spazi produttivi in disuso a quelli commerciali sfitti nei centri storici. Sviluppano progetti time-based, articolati come un processo aperto alle continue modifiche e attuato per fasi progressive. L’organizzazione spaziale dunque non è stabile, ma variabile nel tempo. Per mezzo di architetture interne provvisorie e leggere, integrate con forniture spesso prodotte o “post-prodotte”7 dagli stessi artisti, residenti e fruitori con tecniche do-it-yourself, lo spazio viene allestito e reso abitabile, e diviene il teatro di continue trasfigurazioni riappropriative, oggetto e soggetto di queste e opera d’arte collettiva. Le tecniche di riuso degli edifici, così come dei materiali esistenti, si spingono ben oltre lo spontaneismo, anche se la forte sperimentalità (e gli esigui fondi per autofinanziare i progetti) talvolta hanno esiti compositivamente deboli, ciò nonostante, nella maggior parte dei casi di altissima qualità funzionale, formale ed estetica. Si tratta di pratiche spaziali, artistiche e architettoniche, che, da un punto di vista estetico, attingono a piene mani da dadaismo, situazionismo, arte povera, process art, street art… e, da un punto di vista processuale, dalle arti relazionale, sociale, partecipata, pubblica. La realizzazione dei luoghi avviene dunque per mezzo di un quotidiano processo d’ibridazione e cross-over tra elementi di continuità e richiamo al passato (con arredi, oggetti vintage o materiali industriali, per esempio) e nuovi innesti contemporanei; un’inesauribile combinazione di linguaggi, culture, approcci, che concilia tattiche contingenti a strategie e principi generali, sguardi locali a prospettive globali.

Ogni caso è estremamente site-specific e legato al contesto geografico- spaziale e sociale-umano in cui s’inserisce. Inoltre, il profondo legame tra la configurazione spaziale e il progetto artistico che la determina è insito nella nozione sociologica di “spazio-progetto” (Henry 2003) e implica che l’architettura incarni lo stesso processo (collettivo, sperimentale, sviluppato nel tempo e in continuo cambiamento) d’immaginazione,

Elle peut aussi servir de cantine lors de résidences de grosses équipes ou pour des tournages de cinéma»: http://www.lagenerale.fr/wp-content/uploads/2011/08/FICHE_TECHNIQUE.

pdf [2017].

7 - Circa il concetto di “postproduzione”, desunto dall’ambito cinematografico e utilizzato prima in ambito artistico, poi nella critica architettonica (in particolare riguardo all’intervento di Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal sul Palais de Tokyo), si veda Nicolas Bourriaud (2002).

pianificazione e costruzione del luogo, che viene infine realizzato ad opera della molteplicità dei soggetti coinvolti (con attitudini, competenze e compiti differenti) attraverso pratiche estetiche collaborative in cui ciascuno è chiamato a prendersi delle responsabilità, a donare il proprio contributo alla trasformazione dell’esistente in possibile.

Fuori dal lindo white cube, verso un museo “reale”

È l’opposto della scatola bianca. Le opere si agganciano una all’altra senza soluzione di continuità, modificandosi e complicandosi nei giochi di sponda che l’occhio è invitato a fare. E poi c’è la vita, con i panni stesi, i giocattoli abbandonati, le sedie, i mobili, i materassi, ecc. che qualche volta non sai bene se sono un’opera o no. E questo ci diverte. Infatti, non mettiamo etichette. (Greco e Mari 2016)

Musei vissuti come il MAAM “danno vita alle opere”, al contrario di white cube (O’Doherty1986) e ipermusei (Ciorra e Suma 2002; 2008) che, esponendole come oggetti già finiti e sospesi fuori dal tempo, talvolta più che musealizzarle sembrano “mummificarle”, privandole di vitalità,8 dunque snaturandone il senso. Per questa peculiarità, Cesare Pietroiusti ha coniato la definizione di «museo reale», in contrapposizione col «museo virtuale», e ne ha riassunto alcune possibili caratteristiche (Pietroiusti in de Finis 2015, 11-13), qui rielaborate:

Ospitalità: la capacità di accogliere tutti gli abitanti, sia i visitatori (chi entra), sia i residenti (i quali aprono i propri spazi di vita agli esterni), facendo sentire le persone “ospiti” nella duplice accezione attiva di “ospitanti” e passiva di “ospitati”.

Residenzialità: l’integrazione e la convivenza armoniosa fra esperienze umane, culture, arti e saperi differenti.

Utilizzabilità: il piegare l’organizzazione spaziale e la configurazione architettonica all’uso che i partecipanti vogliono fare di tale luogo, l’adattare il progetto alle esigenze artistiche e prima ancora umane e non l’opposto (come sovente viene rilevato per musei estetizzanti, le cui 8 - Al punto che Cesare Pietroiusti, in un’intervista, indica Metropoliz come luogo più adatto all’arte contemporanea rispetto al MAXXI. Si veda l’intervista disponibile su: https:// www.facebook.com/museoMAAM/videos/vb.314110191995942/401114739921714/?t ype=2&th (data ultima consultazione 29 aprile 2017). Il progetto ha ricevuto il “Premio internazionale 2014 per la Cultura Indipendente in Movimento” e Giorgio de Finis, antropologo, filmaker e ideatore di questo cantiere romano, è stato recentemente individuato come possibile direttore del museo Macro.

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sensazionali forme spingono alla selezione di opere dimensionalmente adatte all’esposizione in tal contenitore).

Produttività: la dimensione laboratoriale e attiva, in contrapposizione a quella conservativa e contemplativa degli spazi espositivi tradizionali. Nei musei reali le opere vengono prodotte e vissute, non solo esposte.

Polisensorialità: la facoltà di stimolare tutti i sensi, di proporre esperienze spaziali e artistiche che si spingono oltre la consueta egemonia della vista. Permeabilità: il lavorare sul territorio, diffondendo le attività al contesto fisico (organizzando, ad esempio, eventi in spazi aperti o esposizioni in locali anche privati, disseminati nello stesso quartiere) e assumendolo come materia di ricerca e sperimentazione progettuale.

Leggerezza: declinata, da un punto di vista fisico, come intervento improntato a flessibilità nel tempo, dello spazio e d’uso; da un punto di vista organizzativo, come caratteristica di una progettualità aperta alla dimensione temporale e temporanea, alle modifiche e gli adattamenti progressivi, alla conce-zione dell’architettura come processo continuo, non come prodotto finito; infine, da un punto di vista «politico e mediatico», come sobrietà formale, in quanto, come sottolinea l’artista, «l’eccesso di attenzione tende ad azzerare lo sviluppo dei significati e della ricerca» (Pietroiusti in de Finis 2015, 13).

Polidisciplinarietà: ibridazione di una pluralità di arti, per realizzare “luoghi delle muse” che concepiscano la conoscenza come insieme, molteplicità.9 Marc Augé, dopo averlo visitato, ha definito il MAAM un “superluogo” proprio per la capacità di offrire spazi reali e abitabili, non indifferenti alla vita umana, anzi, al contrario, in grado di accoglierla e proteggerla: «è la prima volta che vedo un luogo di questo genere, un luogo così ricco di opere d’arte, un luogo in cui l’arte protegge. Perché questo luogo, con l’aiuto dell’arte, accoglie gli esclusi» (Augé in de Finis 2017, 72).

9 - «Le Muse rappresentano una molteplicità, l’idea cioè che la conoscenza sia un “insieme”, la varietà di queste sfaccettature è costitutiva e inevitabile. Un museo reale, come casa di questa molteplicità, può accogliere discipline, linguaggi, metodi e approcci diversi e trovare proprio nella diversità e non nella specializzazione, la sua essenza di museo» (Pietroiusti in de Finis 2015, 13).

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EMAAMcipazioni inclusive10

Il MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia – mi pare quanto più prossimo all’idea di uno spazio pubblico non statale di invenzione di una nuova idea di città e inclusione sociale a partire dall’immaginazione artistica e dalla sperimentazione collettiva. (Allegri 2017)

Il MAAM è uno spazio pubblico inclusivo che sperimenta una nuova concezione sociale, politica e urbana; è una «vivente barricata poetica»11 innalzata per proteggere con l’arte Metropoliz, la «città meticcia», realtà residenziale innestata ai confini della capitale,12 in un ex-stabilimento della Fiorucci occupato nel 2009 da 200 persone, aiutate dai Blocchi Precari Metropolitani. In un primo momento l’ampia area (20.000 mq) è stata mappata e studiata per trovare soluzioni abitative dignitose per le sessanta famiglie e i moltissimi bambini. Negli anni, anche attraverso l’esperimento-laboratorio etnografico di Space Metropoliz, la città meticcia si è trasformata in un «museo politico»,13 un «contesto che promuove autonomia e cooperazione, dialogo intergenerazionale e felice indipendenza, arte e socialità» (Allegri 2017), uno spazio di emancipazione. Fin dall’esperienza fondativa, con il progetto Space Metropoliz,14 il MAAM si è proposto come cantiere di possibili mondi comuni, elaborando, in questa prima fase istruttoria, non solo l’immaginario, ma anche le stesse relazioni umane che costituiscono la comunità di Metropoliz. Il coinvolgimento diretto degli abitanti nella costruzione di un set fantascientifico è stato imprescindibile per stabilire un rapporto di collaborazione tra le molteplici identità e culture presenti e tra queste e gli artisti, i filosofi 10 - Il termine “Emaamcipazione” è anche il titolo di un’opera pittorica curata da de Finis, ripreso dall’articolo di Lori Adragna Emaamcipazioni al Maam (2014).

11- Tale definizione di Peppe Allegri (2017), richiama il titolo di de Finis, Giorgio, a cura di, 2015, Forza tutt*. La barricata dell’arte, Bordeaux edizioni, Roma.

12 - Giorgio de Finis scopre la città meticcia durante una passeggiata esplorativa lungo il Grande Raccordo Anulare, organizzato dal collettivo Stalker, alla ricerca dei nuovi limiti della città.

13 - «MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz nasce nel 2012 per difendere la “città meticcia”, l’occupazione abitativa insediatasi al civico 913 di via Prenestina a Roma. Progetto situazionista e rela-zionale, museo politico, il MAAM prefigura il contemporaneo sperimentando lo spazio e il tempo del comune», (de Finis 2015, retro di copertina). 14 - «Space Metropoliz è stato un film documentario (doveva essere anche un cortometraggio cinematografico), un esperimento di riqualificazione e di progettazione partecipata, un dispositivo situazionista e relazionale, una installazione artistica, un ciclo di laboratori creativi condivisi, una ricerca antropologica, uno spazio temporaneo per l’arte, e molto altro ancora» (Boni e de Finis 2015, 9).

e gli antropologi che, assieme a loro, hanno poi dato vita al progetto del Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia. L’impostazione giocosa e fantasiosa, libera dai vincoli e soprattutto dalle aspettative che un progetto architettonico avrebbe creato,15 ha permesso d’instaurare un rapporto di fiducia e reciproca conoscenza e ha spalancato quindi le porte alla più massiccia sperimentazione museale avviata dal 2012.

Art-propriAzioni: dal riuso degli spazi, alla riorganizzazione delle forme di vita, attraverso pratiche estetiche d’inclusione radicale16

È importante, anche se gli obiettivi non si raggiungono, come non si raggiunge la luna, agire. Se tutti si rendessero conto che agire verso un progetto di salvezza è già di per sé salvezza, il cambiamento sarebbe fatto.17

Gli spazi artistici indipendenti sono luoghi inclusivi non solo perché offrono locali attrezzati per la produzione, l’esposizione e la residenza ad artisti e persone esclusi dal sistema artistico o sociale dominante, ma perché incarnano essi stessi, nella configurazione materiale, come in quella organizzativa, l’esito di processi partecipati nei quali le trasformazioni dell’esistente vengono condotte e attuate collaborativamente in compimento di un progetto condiviso. Attraverso le modalità con cui si pianifica e realizza tale progetto, avviene la costruzione di valori comuni (esito di dialogo e negoziazione), culturali, identitari, sociali, etici e politici. Non si tratta solamente di pratiche di modifica dello spazio fisico, anche se le tattiche mediante cui questa avviene sono per certi aspetti assimilabili a quelle del riuso adattivo (attuato per fasi progressive nel tempo, con tecniche di riciclo di materiali esistenti e sovente d’autocostruzione…), 15 - Il pensiero corre alla drammatica conclusione dell’esperienza di Savorengo Ker, nella quale il collettivo romano Stalker, assieme agli abitanti del campo rom Casilino e agli studenti di architettura dell’Università di Roma Tre avevano concepito e autocostruito una “casa di tutti”, distrutta per un incendio nel 2008, con conseguente sconforto dei residenti, che hanno visto il proprio sogno d’inclusione ed emancipazione andare letteralmente in fumo (Careri in Boni e de Finis 2015, 83-99).

16 - Giuseppe Allegri (in de Finis 2017, 30) parla di «inclusione attiva e rigenerazione arti- stica», ma nel caso del MAAM si può parlare anche di inclusione radicale, come formulata da Gerald Raunig: «L’inclusione radicale significa la potenzialità dell’apertura del proprio territorio esistenziale, un territorio fondamen-talmente inclusivo senza né porte né soglie, una maniera di riterritorializzare lo spazio e il tempo» (Raunig e Montero in de Finis, Benincasa e Facchi 2015, 329).

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bensì di pratiche spaziali,18 artistiche e architettoniche al contempo, per mezzo delle quali s’invera una reale riappropriazione identitaria, estetica, antropologica, comunitaria e, in ultima analisi, politica:

Ciò che fa l’arte è immaginare “qualcos’altro” rispetto al reale dandogli la consistenza e il corpo della realtà stessa, immaginare un mondo che non c’è vuol dire andare oltre lo status quo, il conformismo, il fatto che tutto sia scontato, ineluttabile, e quando lo si rende materialmente visibile, come fanno gli artisti, si offre la possibilità agli altri di partecipare a questa immaginazione che, slegata dall’utile e dalla sopravvivenza, ci permette di realizzare un’immagine di bellezza, di significatività, di sensi multipli e universali. (Montanino in de Finis 2015, 27)

Riferimenti bibliografici

Adragna, Lori, 2014, Emaamcipazioni al Maam, in «Insideart», 21 Giugno: http:// insideart.eu/2014/06/21/emaamcipazioni-al-maam/ [2017].

---, 2014b, Roma è una Metropoliz: Intervista con Giorgio de Finis, in «Artribune», 25 Marzo: http://www.artribune.com/attualita/2014/03/roma-e-una-metropoliz- intervista-con-giorgio-de-finis/ [2017].

Allegri, Peppe, 2017, Il MAAM e l’invenzione artistica di un’altra città. Eccedenze,

inclusione, ozio, in «Operaviva», 21 Aprile: http://operaviva.info/il-maam-e-

linvenzione-artistica-di-unaltra-citta/ [2017].

Boni, Fabrizio e de Finis, Giorgio, a cura di, 2015, Space Metropoliz: L’era delle

migrazioni esoplanetarie, Bordeaux edizioni, Roma.

Bourriaud, Nicolas, 2002, Post Production, La culture comme scenario: Comment

l’art reprogramme le monde contemporain, Les Presses du Réel, Dijon [trad. it. Postproduction: Come l’arte riprogramma il mondo, Postmediabook, Milano, 2004].

Ciorra, Pippo e Suma, Stefania, a cura di, 2002, I musei dell’iperconsumo: Atti del

convegno internazionale, Accademia Nazionale di San Luca, Roma.

---, 2008, Nuovi musei: I luoghi dell’arte nell’era dell’iperconsumo, Libria, Melfi.

18 - Cecilia Guida (2012, 22) definisce le spatial practices come «pratiche non oggettuali ma esperienziali che, a partire dalla comune esigenza avvertita dagli artisti di uscire dai luoghi deputati, occupano gli spazi della vita e della comunicazione contemporanea, per sperimentare modalità estetiche diverse, con la partecipazione attiva di una comunità più