ALLORCHÉ i nuovi ospiti delle Tuileries, il mattino del giorno 7, cominciarono ad acquistare esatta coscienza di sé nelle stanze spoglie e scure, che rappresentavano la loro nuova dimora, una folla numerosa e incuriosita aveva già invaso i cortili e le entrate del castello. La prima giornata passò in presentazioni negli appartamenti, e conversazioni col popolino. Mentre i camerieri sballavano in fretta i mobili portati alla meglio da Versailles, il Re e la Regina ricevevano delegazioni, si mostravano alle finestre, parlavano alla folla, ne ascoltavano le lagnanze e rispondevano ai suoi rimbrotti.
Nei giorni seguenti, vi fu ricevimento dei corpi costituiti, rivista della Guardia Nazionale, qualche passeggiata nel giardino pubblico. Sembrava che le scene di Versailles non fossero ormai che un cattivo sogno svanito. La bellezza della Regina, la sua maestà, il suo coraggio, il sorriso e la grazia di suo figlio, la bonomia del Re, avevano conquistato gli animi. Luigi XVI, che si trovava molto a suo agio a contatto col popolo minuto, ebbe alcune uscite felici, che immediatamente vennero
divulgate. Parigi e i Sovrani riallacciavano le cordiali relazioni di un tempo. «Sto bene, non preoccupatevi», scriveva Maria Antonietta a Mercy-Argenteau.
«Dimenticando dove siamo e come vi siamo pervenuti, dobbiamo dichiararci contenti del contegno del popolo, soprattutto stamani; spero, se non verrà a mancare il pane, che molte cose si accomoderanno».
Come dopo il 14 luglio, la parola d'ordine fu quella di affermare che non vi erano stati né attentati né violenze. Il consiglio generale del Comune assicurò le province che «soltanto il sincero amore di Sua Maestà aveva procurato alla capitale la felicità che il Re si fosse stabilito a Parigi». Luigi XVI, in un proclama, non
133
fece che confermare. Gli fecero dire che, informato in anticipo della venuta dei Parigini, a Versailles, gli sarebbe stato facile trasportare la sua residenza altrove.
«Ma egli aveva preferito venire a Parigi con piena fiducia, nella sua capitale, nella quale tutti avevano fatto a gara per manifestargli le testimonianze più rispettose dell'amore e della fedeltà che gli portavano»,
Nella città, alcune misure di polizia e un'effimera ripresa del commercio cambiarono l'apparenza delle cose. Si passò senza transizione dal panico alla serenità. Il duca d'Orléans, compromesso negli avvenimenti del 5 e del 6, pensò bene di accettare una missione diplomatica in Inghilterra, e si allontanò da Parigi.
Per gli aristocratici, l'inverno fu molto allegro. «Abbiamo avuto feste meravigliose», scrive uno di essi, destinato alla ghigliottina. Non si parla che di ricevimenti e di balli. Ci si vendica degli assassinii con epigrammi. Lo studente bordolese Edmondo Gérard, giunto a Parigi verso i primi di dicembre, scrive ai suoi: «Che opulenza, che ricchezza in tutti questi negozi, il cui splendore stanca gli occhi abbacinati!». E corre all'Opéra, ove danzano Vestris e Gardel, corre al teatro degli Italiani ove canta la Dugazon, alla Comédie ove si esibisce la Raucourt. La tragedia è un pretesto per canzonette e scherzi. «Ho notato», scriverà Paolina di Tourzel, «che nei tempi di rivoluzione c'è sempre qualche momento di calma dopo i grandi uragani, ed è questo che inganna i protagonisti di tali avvenimenti. Se il corso dei fatti si sviluppasse senza soluzione di continuità, sarebbe più agevole attrezzarsi per la resistenza, e forse si potrebbe in definitiva vincere. Ma poiché la corrente rallenta dopo aver abbattuto le prime dighe, si spera sempre che tutto sia finito, e nella tema di turbare questa calma relativa che procura tanta serena gioia, non si prendono le precauzioni necessarie».
Paolina di Tourzel aveva ragione. Del resto, le era facile, poiché scriveva molto dopo il 1789. Peraltro, ci furono alcuni che videro chiaro anche allora. Centoventi
deputati del centro, non sentendosi più sicuri, si dimisero con alla testa Mounier, che era stato il compilatore del programma di Vizille. Egli si lusingava di aver 134
conservato nella propria provincia un'influenza illimitata. Quando, invece, tentò di sollevarla contro la dittatura di Parigi, nessuno lo ascoltò. Mentre egli era rimasto fermo, l'idea aveva progredito. Egli era ormai considerato un reazionario quasi sospetto. Gli uomini si consumano presto al servizio della Rivoluzione. In otto mesi si può dire che sono caduti due gruppi, due generazioni: i parlamentari, che avevano provocato la riunione degli Stati, e i moderati, che avevano diretto gli Stati per
cinque mesi. I parlamentari ritenevano di avere il diritto di sanzionare gli editti
dell'Assemblea, come ne avevano il diritto rispetto agli editti reali. Molto presto si accorsero a loro spese che la sovranità popolare è meno costante di quella
personale; difatti, al primo accenno, essi furono messi in vacanza, in attesa della loro totale soppressione. Senza fondi, senza crediti, senza forza, i moderati non potevano far altro che andarsene e muovere lamentele.
Queste successive eliminazioni dei meno violenti per opera dei più violenti
rappresentano la stessa legge della Rivoluzione fino al 9 termidoro. Se si lasciano da parte le leggende, le belle frasi e il romanticismo con i quali tali avvenimenti sono di solito raccontati, ci si accorge che tutto il meccanismo del periodo rivoluzionario è sempre consistito nel lasciar prendere la mano ai partiti avanzati, facendo sì che la piazza avesse la prevalenza sulla politica. Contro la Corte e i privilegi, quelli della Costituente aveva fatto appello agli ambienti più turbolenti della capitale. Per quanto deplorassero, nell'intimo del loro animo, gli eccessi che erano stati
commessi dopo il 13 luglio, essi avevano chiuso gli occhi, poiché ci tenevano a non perdere l'appoggio di riserva dei Circoli e dei sobborghi. Essi potevano ormai considerarsi prigionieri dei loro stessi alleati, prigionieri della loro formula niente nemici a sinistra, che avevano applicata tacitamente, ma scrupolosamente.
Dopo i parlamentari e i moderati, verrà il turno dei Foglianti 1, dei Girondini, dei Dantonisti; tutti vi pas-
________________
1 Rivoluzionari d'un Circolo avente sede nell'ex monastero dei monaci di quel nome.
(N. d. T.).
135
seranno, fino al giorno in cui, pressata da difficoltà insormontabili, la Rivoluzione ucciderà se stessa nella persona di Robespierre.
Queste epurazioni seguirono tutte uno stesso sistema. Esso consisteva
nell'impadronirsi del comune di Parigi, e, attraverso di questo, per mezzo delle sezioni, dei Circoli, della stampa, mantenere nei quartieri più esaltati una continua agitazione, che, venuto il momento opportuno, si scatenava contro un uomo o un gruppo di avversari. La paura dei complotti, la paura dei tradimenti, la paura della carestia sono le grandi cause delle insurrezioni popolari, delle giornate che
intimoriscono le assemblee rivoluzionarie, composte, come tutte le assemblee, di uomini deboli e incerti. Spesso l'inquietudine assurge a indice di patriottismo. I patrioti sono per loro stessa natura inquieti. Chiunque resta tranquillo è sospetto.
Augusta Cochin, che per il primo ha molto profondamente analizzato questa formazione, o, meglio, questa deformazione dell'animo popolare, cita un rapporto di Saint- Just, che dimostra quali prodigi fossero compiuti in questo genere e a quale stato di frenesia credulona potessero arrivare i puri, i tetragoni, coloro che erano arrivati all'ultima ora ed avevano ghigliottinato tutti i loro predecessori. Ecco qualche brano di tale rapporto: «Nel 1788, Luigi XVI fece immolare 8000 persone
di ogni età, di entrambi i sessi, a Parigi, in via Mèlée e sul Ponte Nuovo. La Corte rinnovò tali esecuzioni nel Campo di Marte; inoltre, la gente veniva impiccata in prigione; i corpi che si raccoglievano nella Senna erano frutto di tali delitti; nelle carceri erano detenuti 4000 prigionieri; s'impiccavano circa 15.000
contrabbandieri all'anno; si arrotavano 3000 persone; a Parigi c'era un maggior numero di prigionieri di oggi» (26 febbraio 1794). Ciò fu detto dalla tribuna della Convenzione; fu applaudito, fu stampato, fu divulgato fino nei più piccoli villaggi, commentato, ripetuto, condito di fronzoli. I fedeli dei Circoli credevano a tutto. Gli altri non osavano parlare. E, aggiunge con ragione Augusto Cochin, tutte le storie del genere hanno vita lunga. Congiure inventate, falsi allarmi, massacri orditi a bella posta son tutti mezzi per provocare un timore vago, ma tenace.
136
«Certe enormi calunnie, diventate famose, come il patto della carestia, o le torture della Bastiglia», furono tanto «potentemente lanciate, che vivono tuttora senza l'ombra di un minimo fondamento».
Le risorse del vero governo rivoluzionario, cioè quello dei Circoli, sono due:
eccitazione metodica dell'opinione pubblica, pressione della piazza sulle autorità ufficiali. In quell'inverno, quando ancora esso era ben lontano dall'aver conquistato tutta la Francia, non sarebbero mancati i mezzi per opporgli resistenza. Occorreva scoprirli e metterli in azione. Ma si direbbe che di fronte a questa oscura forza, il Re e i suoi consiglieri rimangano come disarmati. Non sanno che fare. Si perdono in intrighi puerili, senza rendersi conto che l'unico mezzo di salvezza è di affrontare a viso aperto il pericolo, opporre propaganda a propaganda, idea a idea. Nell'estate del 1789, Young, attraversando la Borgogna e l'Alvernia, non sapeva riaversi dallo stupore per certe strane dicerie, che sentiva spacciare con tutta serietà: la Regina voleva avvelenare il Re, Monsignore dare la reggenza al conte d'Artois, mettere a fuoco Parigi, far saltare il palazzo reale ... A Royat, poco mancò che fosse egli stesso cacciato in prigione come agente di Maria Antonietta, incaricato di scavare una miniera sotto il villaggio. Young colpisce proprio a segno, quando si stupisce di non sentire mai altro che il suono d'una campana. Nel suo paese, dice, di fronte ad una simile propaganda, la Corte avrebbe inondato le contee di giornali sostenitori della sua parte, smentito e calunniato a sua volta, se necessario. Per capir ciò, non
occorreva alcun genio, sarebbe bastato un programma di riforme, un po' di fermezza, un certo numero di seguaci. Invece d'un attaccamento ragionato, la Monarchia suscitava nel popolo un'enorme attrattiva sentimentale, che per molto tempo ancora si manifestò con subitanei accessi, e che avrebbe potuto essere utilizzata invece che fatta svanire in quelle vane esplosioni. Tale opera politica non avrebbe rappresentato niente di grandioso: d'accordo; ma poiché la lotta era
ingaggiata su questo terreno, bisognava pur continuarla a regola di gioco.
L'Assemblea, insediatasi al Maneggio, dopo una breve dimora all'Arcivescovado, aveva ripreso il dibattito
137
sulla Costituzione. Tutto era stato messo o rimesso in discussione, governo, amministrazione, giustizia, imposte, distinzione di classe, ordinamento del clero, diritto civile, diritto penale. Allorché la questione del veto era stata iscritta all'ordine del giorno, in settembre, l'Assemblea si era persino rifiutata di prender conoscenza d'un memoriale preparato sull'argomento dal Re e dai suoi ministri. Questi ultimi non potevano neanche prender parte alle sedute se non vi erano convocati. Mentre, però, i partiti avanzati per guadagnare un voto non indietreggiano di fronte a
nessun mezzo, per basso che sia, i fautori della Corte e i moderati si distinguono per indecisione, disaccordo e incapacità ad agire. Clamori tribunizi, tumulti. minacce, manifestazioni coreografiche, sfilate di dimostranti, erano le armi solitamente adoperate dalla sinistra, e su quell'Assemblea troppo numerosa, costituita da uomini di buona volontà, ma privi di sangue freddo e astratti, tali mezzi piazzaioli erano, si può dire, infallibili.
Gli aristocratici, nobili e prelati, ostentavano di non partecipare a simile consesso, e se qualche volta vi si mostravano, era soltanto per ridere, parlare ad alta voce, lanciar frizzi e inasprire col loro contegno avversari e gallerie. I moderati erano indeboliti per le dimissioni dei 120 deputati, quasi tutti sostituiti da neo eletti di opinioni più radicali. Essi volevano tentare di costituire, di fronte al Circolo di sinistra, quello dei Giacobini, un Circolo rivale, quello degli Imparziali (in seguito Circolo monarchico), il quale pur mantenendo il principio della Costituzione,
avrebbe dovuto combattere, sia direttamente, sia attraverso associazioni affiliate, la propaganda e i piani dei Giacobini. La loro società, il cui vero nome era Società degli Amici della Costituzione, era stata fondata a Versailles, nel sottosuolo del caffè Amaury, in via Saint-Cloud. Non si trattò dapprima che dell'accolta dei deputati della Bretagna, il Circolo bretone, In seguito furono ammessi rappresentanti d'altre regioni, privati cittadini, e fu probabilmente un girondino, Kersaint, che li battezzò.
Comunque sia, li si ritrova al completo lo stato maggiore che diresse la campagna di raddoppiamento e degli Stati Generali, sia a Parigi che in provincia, Le Chapelier, Lanjuinais, Sié-
138
yès, Mirabeau, Duport, Lacretelle, Bamave, i Lameth, Condorcet, Desmoulins, Volnay, La Révellière-Lépeaux, Robespierre, Fréron ... Il circolo tiene seduta al convento dei Giacobini, in via Sant'Onorato. Alla fine del 1790 conta 1100 membri.
Attraverso i suoi uffici di corrispondenza, è l'anima dei circoli provinciali che gli sono affiliati, i quali, previa epurazione, non sono che i reliquati delle vecchie
società: se ne contano 152 nell'agosto del 1790 e 406 nel giugno del 1791. La povera Società monarchica tenne soltanto due sedute: la prima fu denunciata su tutti i giornali come controrivoluzionaria, la seconda venne sciolta con la forza della plebaglia. Il suo fondatore, Malouet, chiese protezione all'Assemblea, ma venne accolto come un fazioso, un perfido, un avvelenatore del popolo, e non riuscì neppur a farsi ascoltare. Quanto al circolo di destra, il Salon Français, aperto nell'aprile del 1790, fu chiuso il 15 maggio, in seguito a proteste. Dappertutto si trovano uomini onesti, volenterosi, eloquenti, fanatici anche, ma nemmeno uno che sappia imporsi.
Uno solo aveva il temperamento, la volontà, l'ambizione necessaria per dominare la situazione invece di subirla: Mirabeau, Onorato Gabriele di Riquetti di Mirabeau, deputato del Terzo Stato di Aix, in Provenza.
Mirabeau si discosta dalla media umana. È tagliato su un modello ben diverso da quello dei comuni mortali. Suo padre, quando parla di lui, sin dalla più tenera età, si esprime sempre con vocaboli che lo qualificano un essere d'eccezione, al di là del bene e del male: "prodigio", "esagerazione". "bravaccio scapigliato".
Massiccio, dalla testa enorme su larghe spalle, la ciera pallida, il viso butterato e gonfio, gli occhi castani, i capelli cresputi, la bocca piccola, le mani delicate, egli è ad un tempo attraente e sgradevole. Poche donne resistono al fascino della seduzione e della falsità di quest'uomo voluttuoso, ardente, sanguigno, d'una sensualità
tirannica, che si compiace chiamarsi, da se stesso, atleta in amore, ed è veramente, sotto questo aspetto, incorreggibile. sfrontato, insaziabile. A ventitré anni, gli avevano fatto sposare una signorina di Marignane. Non le rimase fedele per molto, ma fu quanto bastò per rovinarsi insieme con lei, dando feste e abbandonandosi a 139
prodigalità di ogni genere. Durante un viaggio, gli salta in testa di fermarsi a Grasse, presso una sua sorella, la signora Cabris. Per quanto in seguito dovesse odiarla con furore. egli provava per la sorella un amore sì esuberante, che circolavano dicerie infamanti sul loro conto. Un giorno, mentre egli passeggia con la sorella, vestita da uomo, s'imbatte in un loro parente, certo Villeneuve, che sembrava avesse propalato certe calunnie che avevano messo a scandalo la città. Mirabeau, eccitato per aver mangiato copiosamente, gli rompe il parasole sulla schiena, e quasi lo accoppa.
Scandalo. Arresto. Mirabeau vien condotto al castello d'If, poi trasferito a Soux, vicino a Pontarlier. Trattato dal governatore con buone maniere e quasi libero d'andare e venire a suo gradimento, egli trova modo di sedurre la marchesa Sofia di Monnier, evade, fugge in Isvizzera con lei, seduce, di passaggio, una cugina della sorella, viene accusato di ratto. condannato a morte in contumacia, estradato e rinchiuso a Vincennes, mentre Sofia viene ricoverata in una casa di correzione di via Charonne, dove diventa madre.
A Vincennes. Mirabeau, per tre anni, legge, lavora e scrive. Il suo cervello è sempre in effervescenza come il suo cuore. Egli sa tutto e capisce tutto. Commercio, finanza, rescritti, magnetismo, aggiotaggio, Bicètre, la statistica, le acque di Parigi, la
letteratura oscena, non c'è nessun genere di moda che egli non abbia affrontato e trattato brillantemente, suscitando clamorosi successi. «Non ignorava nulla», scrive Aulard, «di ciò che interessava i suoi contemporanei, e quando apprendeva una cosa, l'assimilava tanto presto, che sembrava averla saputa sempre, fin dalla nascita». Il regolamento di Vincennes era severo, ma era pur sempre un
regolamento. Difatti, Mirabeau comunicava liberamente con l'esterno. Egli ne approfittò per subissare Sofia di un'ardente corrispondenza, e finalmente, il 13 dicembre 1780, fu rimesso in libertà. Senza un soldo, cc nudo come un verme», si domicilia presso Boucher, primo commesso di polizia, la cui generosità gli aveva
grandemente addolcito la prigionia. La signora Boucher non resta insensibile né alle sue disgrazie né alla sua persona. Con essa, Mirabeau inizia un'avventura che,
insieme con qual- 140
che altra, è portata in breve a compimento. Ma egli non ha tempo da perdere in simili bagattelle, e appena uscito di prigione, eccolo nuovamente preso dai vortici tumultuosi della sua vita.
Processo di Pontarlier, processo di Aix, internamento di Sofia, giudizio di
separazione legale provocato dalla moglie abbandonata, duello col conte di Galiffet, azione per resa di conti contro il padre del Mirabeau, legame con la signora Nehra, viaggio a Londra, causa contro un segretario, polemica con Beaumarchais,
campagna contro la Compagnia delle Acque, ristrettezze economiche, viaggio in Germania, opuscoli, libelli, opere, visite ossequiose o arroganti ai ministri, agitazioni per gli Stati Generali, elezioni, Stati Generali: nove anni di lotta, di tempeste, di uragani, di scandali. Un insieme di genio, di degenerazione, di ciarlatanismo, che gli procurarono una tremenda reputazione.
Si suol credere che i grandi uomini abbiano goduto presso i contemporanei una fama uguale a quella attribuita loro dai posteri. In verità, Mirabeau, pur essendo, ai suoi tempi, il più celebre dei deputati degli Stati, era anche il più screditato. Lo si considerava con curiosità, ma anche con diffidenza. Si subiva la sua eloquenza, ma lo si temeva. Escluso dalla nobiltà, egli si era fatto eleggere dal Terzo Stato, ma ai suoi colleghi del terzo ordine non ispirava alcuna fiducia. Spesso si parlava della sua bassezza, dei suoi vizi, della sua venalità. Egli poteva sedurre, convincere,
guadagnare alcuni voti, acquistare influenza, ma non poteva riuscire mai ad avere il comando. Da ciò il disaccordo continuo, l'inevitabile dualismo della sua condotta.
Per superare le prevenzioni, accattivarsi il favore popolare, Mirabeau è costretto a mettersi alla testa del partito avanzato, ad assumere la parte di tribuno della plebe e di pioniere della democrazia. È lui che, dopo la seduta reale del 23 giugno, solleva il coraggio dell'Assemblea e con la sua celebre apostrofe rende potente la fragilità delle minacce reali. In luglio, in ottobre, è sempre lui che trova gli accenti più
infiammati per colpire i concentramenti delle truppe o il banchetto delle guardie del corpo. Eccolo diventato l'idolo delle folle. Egli si compiace di tale posizione: il suo tempera-
141
mento ve lo spinge. Il fracasso, il clamore, il contatto delle masse gli frustano il sangue, lo ubriacano, lo fanno andare in delirio. E, tuttavia, egli è realista. Di più:
egli ha principii monarchici e un piano d'azione ben deciso e ponderato, che reiteratamente tenterà per vari mesi di seguito di far adottare da Luigi XVI, convinto com'è, giustamente, che solo lui può salvare e consolidare il Trono. Un giorno, all'Assemblea, egli stava per chiedere severe sanzioni contro alcuni rivoltosi che avevano saccheggiato il palazzo di Castries. La destra, ritenendo erroneamente
che Mirabeau volesse prendere il turno di uno dei membri di destra che avrebbe dovuto parlare, protesta violentemente contro di lui già salito alla tribuna. Subito, Mirabeau s'adira, apostrofa la destra, l'accusa di essere causa di sedizioni, sorvola sull'incidente di Castries e fa decretare il passaggio all'ordine del giorno, il che voleva dire far cadere nel dimenticatoio ogni idea di repressione. Questo, in piccolo, è quanto accadde durante tutta l'annata.
che Mirabeau volesse prendere il turno di uno dei membri di destra che avrebbe dovuto parlare, protesta violentemente contro di lui già salito alla tribuna. Subito, Mirabeau s'adira, apostrofa la destra, l'accusa di essere causa di sedizioni, sorvola sull'incidente di Castries e fa decretare il passaggio all'ordine del giorno, il che voleva dire far cadere nel dimenticatoio ogni idea di repressione. Questo, in piccolo, è quanto accadde durante tutta l'annata.