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PIERRE GAXOTTE LA RIVOLUZIONE FRANCESE. Traduzione dal francese di L. ZALAPY Edizioni A. Barion, 1949 INDICE

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PIERRE GAXOTTE

LA RIVOLUZIONE FRANCESE

Traduzione dal francese di L. ZALAPY Edizioni A. Barion, 1949

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INDICE

CAPITOLO 1 - IL VECCHIO REGIME 7

La Francia feudale, 9. - La Monarchia capetingia realizza l'unità nazionale creando i privilegi, 12. - I tre ordini sociali negli stati provinciali, 18. - Semplicità e bonomia dell'organizzazione sociale nel vecchio regime, 22.

CAPITOLO 2 - LO STATO POVERO NEL PAESE RICCO 27

Nascita della grande industria e sviluppo dei commerci, 29. - L'agricoltura francese e il sistema fiscale, 32. - La caotica sopravvivenza dei tributi feudali acuisce i rancori dei contadini per i signori e ostacola il progresso agricolo, 35. - Sbagliata politica finanziaria dei ministri di Luigi XVI, 41-

CAPITOLO 3 - LA DOTTRINA RIVOLUZIONARIA 49

Dissoluzione delle idee che avevano dominato il secolo XVII, 51. - Influsso dello spirito germanico, 56. - L'Enciclopedia, 59. - Concezione d'una nuova società:

Rousseau, 60. - L'esempio della rivolta americana, 64.

CAPITOLO 4 - LA CRISI DELL’AUTORITÀ 67

Gli aristocratici acclamano gli scrittori che li «impiccano in immagine», 74. - Il primo errore di Luigi XVI: la riconvocazione dei Parlamenti, 83. - Lo scandalo della collana, 84. - Disordini per le riforme tributarie, 86.

CAPITOLO 5 - L'ANARCHIA 97

Elezione degli Stati Generali, 105. - Il Terzo Stato si proclama Assemblea Nazionale, 111. - Le giornate del 12-14 luglio, 113. - I fatti del 4 agosto, 123. - Il Re è costretto ad approvare la «Dichiarazione dei diritti dell'uomo» e a lasciare Versailles per Parigi, 127.

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CAPITOLO 6 - GLI ASSEGNATI 131

Caduta dei moderati, 133. - Mirabeau, 139. - Le sedizioni militari, 146. - Il deficit dello Stato e la confisca dei beni del clero, 148. - Gli assegnati e la inflazione crescente, 157.

CAPITOLO 7 - VARENNES 159

La Costituente e la riforma ecclesiastica, 161. - Resistenza del clero e nomina di prelati statali, 167. - Fuga del Re e arresto a Varennes, 170. - Foglianti e Cordiglieri, 180. - Il Re accetta la Costituzione, 182.

CAPITOLO 8 - LA GUERRA 185

Carestia e rinnovati disordini, 192. - Gli Stati europei di fronte alla Francia, 195. - Fine del «Patto di Famiglia», e Dichiarazione di Pillnitz, 200. - Ultimatum di Luigi XVI e dichiarazione di guerra all'Austria, 215.

CAPITOLO 9 - LA CADUTA DEL TRONO 217

La Prussia si allea all'Austria, 219. - Luigi XVI si oppone al decreto contro i preti refrattari e congeda il ministero girondino, 220. - Le giornate del 20 giugno e IO luglio 1793, 223. - Il manifesto del duca di Brunswick, 229. - L'assalto alle Tuileries, 230.

CAPITOLO 10 - LA GIRONDA 239

La Convenzione di settembre e la Comune, 241. - Processo e morte del Re, 250. - Tradimento di Dumouriez e reazione di Marat, Robespierre e Danton, 263. - La Vandea, 266.

CAPITOLO 11 - LA RIVOLUZIONE VITTORIOSA 275

Carlotta Corday uccide Marat, 279. - La Convenzione montagnarda elimina i girondini, 281. - Distruzioni e massacri a Lione, a Tolone, in Vandea, 284. -

Processo e condanna di Maria Antonietta, 297. - Carnot riconquista il Belgio, 301.

CAPITOLO 12 - IL TERRORE COMUNISTA 305

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Giacomo Roux, Hébert e la loro azione comunista, 309 - Lo Stato contro

l'accaparramento e infine arbitro della produzione e dei prezzi, 315. - Nasce la borsa nera, 320. - Fouquier-Tinville, 331. - Carestia e disordine annonario, 334.

CAPITOLO 13 - ROBESPIERRE 337

Giovinezza tranquilla e mediocre, 341. - Uomo di Circolo per eccellenza, 343. -

Dantonisti ed hébertisti contro di lui, 348. - II nuovo calendario rivoluzionario, 350.

- Chiusura di tutte le chiese, 353. - La Festa dell'Essere Supremo, 360. - Violenta requisitoria di Robespierre contro i Comitati, 365. - Reazione della Convenzione e fine di Robespierre, 367.

CAPITOLO 14 - LA CONVENZIONE TERMIDORIANA 369

La reazione politica e militare, 372. - Firma a Basilea del trattato di pace, e

annessione del Belgio, 377. - Le sommosse della fame del 12 germinale e l0 pratile, 381. - Il fallito sbarco degli emigrati realisti e le esecuzioni di Quiberon, 384. - Bonaparte e il 13 vendemmiale a Parigi, 386.

CAPITOLO 15 - IL DIRETTORIO 389

I messaggi del Direttorio sulla miseria dello Stato, 393. - Dopo gli assegnati, i mandati, che seguono la stessa caduta, 395. – I Bonaparte in Italia, cacciata degli Austriaci e costituzione della Repubblica Cisalpina, 400. - Babeuf, 404. - Le elezioni del marzo 1797 esautorate con azione illegale dal Direttorio, 407.

CAPITOLO 16 - BRUMAIO 413

Eliminazione dell’opposizione moderata e rinnovamento parziale del Direttorio, 418. - Bonaparte muove contro gli Inglesi, occupa Malta e Alessandria d'Egitto, 425.

- Il colpo di Stato del 18 brumaio, 429.

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NOTA

Nato da vecchia famiglia lorenese a Revigny, fra la Marna e la Mosa, il 19 novembre 1895, PIERRE GAXOTTE, uno dei più chiari e brillanti fra gli attuali storiografi francesi, è stato insegnante, prima al liceo Charlemagne, a Parigi, e poi a quello di Eureux, e giornalista, redattore capo dei settimanali "Candide" e "Ric et Rac": La sua opera storica, lontana dal potersi dire compiuta, poiché egli ancora vi attende con feconda e pur meditata assiduità, si è svolta principalmente attraverso cinque esemplari volumi: La Francia di Luigi XIV, Il secolo di Luigi XV, La Rivoluzione Francese, Nascita della Germania e Federico II.

Fra questi, La Rivoluzione Francese (già nota in Italia attraverso questa stessa traduzione, qui, però, minutamente rivista e aumentata sulla traccia dell'ultima edizione originale del 1947, fu pubblicata nel 1928, e destò, fin dal suo primo apparire, il più vivo successo di critica e di lettori, tale da farla ritenere, per così dire, l'esatto "punto" fatto dall'odierna storiografia idealistica degli avvenimenti e del senso della "Grande Rivoluzione". L'opera non si conclude, tuttavia, in un'arida esposizione scientifica. Gli eventi dei quali tratta il Gaxotte son da lui raccontati attraverso un rapido e avvincente susseguirsi e concatenarsi, Il dramma sociale, politico ed economico di quegli anni balza netto e preciso, vivo e lampeggiante attraverso gli scorci potenti, le sintesi e

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le analisi, a volte esasperanti ma sempre efficacissime, con le quali il Gaxotte narra e interpreta il maggior fatto della storia di Francia.

Nulla è qui tralasciato per rendere forti ed evidenti i contrasti, violente e vive le contraddizioni, chiare le analogie che si possono derivare dall'esame dei fatti che si accavallano, si urtano e si inseguono, nel gran mare della Rivoluzione Francese. Né il Gaxotte fa mai ricorso a equivoci o guardinghi mezzi termini: egli esprime il proprio giudizio storico senza ambagi, e, quando non lo esprime, presenta una tale soverchiante documentazione, da obbligare il lettore a concludere per lui.

Egli investe i più reconditi meandri del fenomeno rivoluzionario con fasci di luce modernissima; e questo bagno di modernità toglie ogni scoria, riporta i fatti alla loro genesi genuina e alla loro essenza reale, li fissa nel loro tempo, onde ripensarli nella loro verità attuale. È così che ogni evento e ogni personaggio di quell'epoca assumono una trasparenza e un significato nuovo: Mirabeau, Danton, Marat, Robespierre, Napoleone, e l'ambiente nel quale sorgono agitandosi tutte le figure pallide o violente del grande dramma: la mentalità di Luigi XVI, la cortigianeria, il collasso militare e politico, tutto è logicamente e sapientemente esposto con tanto vigore di concezione e con così moderna esperienza, da autorizzare il lettore non legato a dogmatici presupposti materialistici a porre quest'opera tanto giovane accanto a quelle a cui la fama e la celebrità furono consacrate da un lungo e rigoroso vaglio critico.

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CAPITOLO 1

IL VECCHIO REGIME

LA FRANCIA del vecchio regime era un grande e vetusto edificio, costruito per opera di cinquanta generazioni durante un periodo di cinquecento anni. Ciascuna delle generazioni che si erano succedute aveva lasciato il proprio segno, che si era aggiunto a quelli del passato, senza mai nulla cancellare né abbattere. In tal modo, la configurazione generale dell'edificio si era confusa attraverso differenti stili ed aggiunte disparate. Alcune parti trascurate minacciavano di rovinare da un

momento all'altro, altre erano anguste, ed altre infine eccessivamente lussuose. Ma, tutto sommato, l'insieme risultava imponente, la facciata aveva un aspetto

dignitoso, e vi si viveva meglio e più numerosi che altrove.

Le fondamenta più antiche e profonde erano opera della Chiesa. Per ben dodici secoli essa vi aveva lavorato sola o quasi.

Al tempo dei Romani, in un'epoca rude e razionale, la Chiesa aveva recato la

consolazione nella miseria, il coraggio di vivere, l'abnegazione, la carità, la pazienza, la speranza in una vita migliore, improntata a giustizia. Quando l'impero crollò sotto i colpi dei barbari, essa rappresentò il rifugio delle leggi e delle lettere, delle arti e della politica. Nascose nei suoi monasteri tutto ciò che poteva essere salvato della cultura umana e della scienza. In piena anarchia, la Chiesa era riuscita, in sostanza, a costituire una società viva e ordinata, la cui civiltà faceva ricordare e rimpiangere i tempi tranquilli, ormai passati. Ma c'è di più: essa va incontro agli invasori, se li fa amici, li rende tranquilli, ne opera la conversione, ne convoglia l'affluire, ne limita infine le devastazioni Davanti al vescovo che rappresenta un al di là misteriose, il Germano viene assalito dal timore, e retrocede. Egli risparmia le persone, le case, le terre.

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L'uomo di Dio diventa il capo della città, il difensore dei focolari e del lavoro, l'unico protettore degli umili su questa terra.

Più tardi, quando l'epoca dei saccheggi e degli incendi sarà passata, quando occorrerà ricostruire, amministrare, negoziare, le Assemblee e i Consigli

accoglieranno a braccia aperte gli uomini della Chiesa, gli unici capaci di redigere un trattato, portare un'ambasceria, eleggere un principe.

Fra le continue disgrazie, nel naufragio dello Stato carolingio, in questa notte incombente sul IX secolo, echeggiante di armi e di armati, mentre nuove invasioni ungheresi, saracene, normanne assillano il paese, mentre il popolo disperso si agita senza alcun indirizzo, la Chiesa ancora una volta tiene fermo. Essa fa risorgere le tradizioni interrotte, combatte i disordini feudali, regola i conflitti privati, impone tregue e opera accordi. I grandi monaci Oddone, Odilone, Bernardo innalzano al di sopra delle fortezze e delle città il potere morale della Chiesa, l'idea della Chiesa

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universale, il sogno dell'unità cristiana. Predicatori, pacificatori, consiglieri di tutti, arbitri in ogni questione, essi intervengono in ogni caso e dappertutto, veri

potentati internazionali, di fronte ai quali ogni altro potere terrestre non resiste che a malapena.

Attorno ai grandi santuari e alle abbazie si intrecciano relazioni e viaggi. Lungo le grandi strade, dove camminano le lunghe processioni di pellegrini, nascono le

canzoni epiche. Le foreste spariscono di fronte all'assalto dei monaci, che dissodano la terra. All'ombra dei monasteri, le campagne rifioriscono; i villaggi già rovinati rinascono. Le vetrate delle chiese e le sculture delle cattedrali sono il libro pratico nel quale il popolo si istruisce. Il Papa è il dittatore dell'Europa. Egli ordina le Crociate e depone i sovrani. Appannaggi, ricchezze, onori, tutto si mette ai piedi degli uomini della Chiesa, e l'imponenza di questa riconoscenza basta da sola a far valutare la grandezza dei benefici seminati da essi.

Ma già un altro artefice si era messo all'opera: il signore.

Quando lo Stato s'indebolisce, gli individui più forti 10

ne prendono il posto. Caduto lo scettro di Carlomagno dalle deboli mani dei suoi successori, una generazione di soldati intervenne per raccattarne i frammenti.

La sovranità si frantumò di pari passo col territorio. Una fitta fungaia di piccole signorie coprì la terra. Funzionari imperiali, grandi proprietari, avventurieri fortunati, briganti rientrati nell'ordine, tutti questi piccoli re hanno mille origini.

Violenze, usurpazioni, contratti, immunità, spartizioni, alienazioni, e tutto secondo il capriccio delle circostanze; la sorgente varia e incoerente del loro potere è tutta qui. Tutti gli attributi della signoria pubblica si negoziano, si calpestano, si vendono, si rubano. L'uno s'impadronisce d'un pedaggio, l'altro d'un mercato ... L'esercito non esiste più; non vi sono che bande. La giustizia si suddivide in mille giurisdizioni speciali; territoriale, personale, censuale, alta e bassa. Le anime s'intorbidano come il diritto. Rimane una sola forza; il valore, il coraggio, l'audacia, la brutalità

dell'individuo.

Non c'è più alcuna sicurezza personale. Dappertutto accadono scaramucce. Le cronache parlano continuamente di assassinii, saccheggi, incendi, villaggi rasi al suolo, donne violentate, contadini massacrati. Ormai per il debole la vita

rappresenta un terrore continuo. I contadini si raggruppano tremanti attorno al signore che possiede un castello, un corpo di soldati, un tesoro. In cambio della sua protezione e della giustizia che egli amministra, essi gli dànno una parte del loro avere e dei loro raccolti. I più disgraziati si attaccano a lui vendendogli la propria vita e quella dei loro discendenti. Egli costruisce il mulino, il forno, il ponte; egli è padrone della circolazione e degli scambi. La vita dei suoi protetti, ospiti e servi, è costretta in una fitta rete di imposizioni e monopoli. Ma questo vassallaggio ben può pagarsi di fronte alla vita che se ne riceve in cambio.

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Ad una società disorganizzata, disgregata, dispersa, che non aveva più né leggi né capi, il feudalismo forni i quadri e i capi. Per quanto angusti fossero, i quadri bastarono ugualmente ad ordinare in certo qual modo gli individui. Per quanto violenti fossero, i capi servirono pur sempre a ristabilire le elementari garanzie senza le quali non è possibile la convivenza. Ne ritrassero,

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è vero, un beneficio eccessivo, di fronte alla pubblica utilità. Ma senza di essi la situazione sarebbe stata ancora peggiore.

In seguito, il regime si addolcirà, diventerà più umano.

La Chiesa apporterà un contenuto ideale. Sorgeranno i Comuni, che saranno una specie di signorie imborghesite, a carattere collettivista. I rudi baroni

comprenderanno che i loro interessi sono concomitanti con quelli dei loro protetti, e che una buona amministrazione è il miglior sistema per conservare il potere.

Al tempo di Luigi XII, in un paese che non ha più alcun bisogno della loro

protezione e che può fare benissimo a meno dei loro servigi, essi conservano una tale autorità. che nulla nel villaggio viene fatto senza sentire il loro consiglio e la loro approvazione. Si ha per essi un rispetto amichevole e una riconoscenza profonda. Essi sono invitati alle feste familiari, ai pranzi degli sponsali, dei battesimi, e sono da tutti onorati. Sono i padrini dei fanciulli e i consiglieri dei genitori. Nell'antico castello, aperto all'esterno con larghe finestre, senza fossati né difese, si vive la stessa vita o quasi delle vicine casupole. Si pensa ai raccolti, agli armenti, alla pioggia, alla vigna, alla vendita del grano. Signori ed agricoltori si trovano insieme alla fiera. Se la giornata è stata buona, vanno a bere all'osteria, si scambiano scherzi piccanti, e tra due bicchieri si dànno grandi smanacciate cordiali.

Al cader della notte, si può vedere il signore che ritorna inforcando fieramente la sua cavalcatura, spada al fianco, una pagnotta sotto il braccio, col proprio gastaldo sulla stessa groppa. Peraltro, tutto ciò non è che un ricordo: le signorie locali sono state colpite a morte, e ormai da lungo tempo è venuta l'epoca del Monarca.

Il Re fu anzitutto l'artefice dell'unità nazionale, e la sua potenza si accrebbe di pari passo col sentimento nazionale, che diventava sempre più imperioso nella coscienza popolare. Ma l'impresa non era facile, e prima che i laceri brandelli della Patria fossero riuniti e saldati, passarono molti secoli e occorse molta fatica.

Il primo Capetingio era un modestissimo signorotto, l'ambizione del quale consisteva nell'andare da Parigi a

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Etampes, senza essere aggredito né taglieggiato. I suoi tre successori si lanciarono in imprese che erano sproporzionate alle loro forze, e gli interessi della Monarchia non se ne avvantaggiarono punto. Il quinto, Luigi VI, capì che la Monarchia doveva concentrare la propria azione su un campo limitato, rinunziare all'idea di un

dominio generale e prendere per un certo tempo l'aspetto di una signoria locale.

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Egli passò vent'anni del suo regno a liberare i dintorni di Parigi dai briganti che vi si erano annidati, e fu un giorno di trionfo quando le vie di Orléans e di Melun furono rese sicure. La Monarchia aveva guadagnato in profondità quel che aveva perduto in superficie. Attiva e audace, essa si merita per la prima volta quel prestigio che si attiene non alla maestà della schiatta e alla gloria delle tradizioni, ma al valore personale, alla forza, al successo.

Ormai la via è aperta.

Si può dire, senza tema di sbagliarsi, che i Capetingi ebbero fortuna. I primi

lasciarono tutti dei figli. Ebbero scarse opposizioni. Le Crociate li sbarazzarono dei loro vassalli più turbolenti. Alcuni dei loro avversari, come Riccardo Cuor di Leone, morirono al momento opportuno. Ma bisogna riconoscere che essi ebbero molto buon senso, probità, perseveranza, energia, un certo spirito pratico e la tendenza all'amministrazione della cosa pubblica,

Anzitutto, essi sottraggono la Corona al capriccio delle elezioni, s'alleano alla Chiesa e proteggono gli umili. Instaurano il regno della giustizia. Stabiliscono l'ordine e la pace. Sono i capi della difesa pubblica e i liberatori del paese. Di volta in volta combattono Inglesi, Tedeschi, Spagnoli, Austriaci. Con l'ostinazione di un gastaldo che ingrandisce pian piano il proprio podere, essi riconquistano l'eredità carolingia.

Ogni regno, o quasi, segna una tappa della ricostruzione. Sotto Luigi XIV, si lavora ancora per la sicurezza della frontiera del Nord, troppo vulnerabile e troppo vicina a Parigi. Vengono annessi l'Artois, la Fiandra, l'Alsazia, e, all'altro estremo della

Francia, il Roussillon. Sotto Luigi XV, viene annessa la Lorena e acquistata la Corsica.

Ma occorre mettere in valore questo bel paese di Francia, non basta renderlo sicuro e ingrandirlo. Il re pro-

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muove la costruzione di strade, canali, porti, regola il corso dei fiumi, apre scuole, instituisce ospedali, favorisce lo sviluppo delle Università e delle Accademie. Tutti questi monumenti gloriosi ed utili lo rendono degno di essere proclamato Padre della Patria e pubblico benefattore.

Quando i vecchi scrittori parlano di lui, si sente nelle loro parole una devozione infinita. Per loro, egli è il più grande dei re. Nessun sovrano può essergli

paragonato, né per la vetustà della sua corona, né per la gloriosa tradizione del suo trono, né per l'estensione e la purezza del suo potere. È un personaggio divino, e tutta la nazione lo onora e lo serve con gioia: «Tutto lo Stato è in lui», scrive Bossuet; «la volontà del popolo è contenuta nella sua; come in Dio sono riunite tutte le perfezioni e tutte le virtù, così tutta la forza dei singoli è sintetizzata in quella del Principe ...». Il maresciallo Marmont, nato quindici anni prima della Rivoluzione, ci fa conoscere, in un celebre passo delle sue Memorie, qual prestigio avesse ancora Luigi XVI negli ultimi giorni della Monarchia: «Avevo per il Re un sentimento difficile a definirsi, un sentimento di devozione, di natura quasi

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religiosa. La parola del Re aveva allora una magia, una potenza che era rimasta intatta. Nei cuori onesti e puri questo amore per il Sovrano era diventato una specie di culto». E si citava con compiacimento la frase di un ambasciatore veneziano del XVI secolo: «il Reame di Francia è sempre stato riconosciuto, per unanime

consentimento dei popoli, come il primo e il miglior regno di tutta la cristianità, sia per la sua dignità e potenza, come per l'assoluta autorità di colui che lo governa».

Ma queste frasi spesso hanno dato luogo a varie deduzioni, poiché gli uomini non hanno tutti una stessa idea dell'autorità, e la intendono in modi diversi e disparati.

La maniera in cui la Francia monarchica s'era formata, mettendo cioè insieme pezzi e frammenti delle rovine della Francia feudale, dava al potere reale, teoricamente illimitato, un carattere e dei limiti, che noi, cittadini d'uno Stato burocratico, napoleonico e semisocializzato, siamo lungi dall'immaginare. A noi, l'au- 14

torità appare oggi in veste d'un funzionario seduto dietro uno sportello e investito dei più estesi poteri, compreso quello di trasformarci in soldati e inviarci a prendere sassate nei tafferugli e pallottole d'acciaio sui campi di battaglia.

Questo personaggio è eterno, immutabile, identico a se stesso, da un estremo all'altro del territorio dello Stato. In pianura e in montagna, nell'Isola di Francia o in Lorena, egli applica i medesimi regolamenti e riscuote le medesime imposte. Egli è potentissimo, poiché la sua specie è numerosa, e tutti hanno bisogno di lui,

essendo i suoi ordini appoggiati a un'attiva polizia, a un'ossequiente magistratura e a parecchi reggimenti. Egli censisce, registra e indaga. Egli conosce le nostre

entrate, ed è in grado di far l'inventario delle nostre eredità. Egli sa se possediamo un pianoforte, un'automobile, un cane o una bicicletta. Educa i nostri figli, e fissa il prezzo al pane. Fabbrica i fiammiferi, e vende il tabacco che fumiamo ogni giorno. È industriale, armatore, commerciante e medico. Ha quadri, foreste, ferrovie,

ospedali, banche e fabbriche. Accaparra la carità sociale. Se siamo di sesso maschile, ci chiama davanti a sé, ci pesa, ci misura, ci esamina il funzionamento del cuore, dei polmoni e della milza. Non possiamo fare un gesto, un passo, senza ch'egli, avvertito a tempo, non trovi il pretesto d'intervenire. Un milione, circa, di Francesi sono al suo servizio, due o tre milioni sono da lui pensionati, e gli altri aspirano a

diventarlo. Tutti borbottano, ma obbediscono, e quando uno dei suoi agenti viene maltrattato da un cittadino malcontento, tutti ad una voce condannano l'audace e chiedono che venga imprigionato e giudicato.

Questa concezione di governo burocratico, servito da un esercito di funzionari, con una legge unica e uguale per tutti gli amministrati, è forse quanto vi possa essere di più diverso dall'antico regime. I più audaci riformatori, i pionieri dell'unità, Colbert, Machault, Maupeou, Lamoignon, non avrebbero potuto mai immaginare simile uniformità e docile coesione.

Napoleone costruì il proprio edificio a furia di decreti, su un suolo livellato. La Monarchia, invece, a fatica, riunì a sé, pezzo per pezzo, province una volta in-

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dipendenti, ognuna delle quali aveva una propria organizzazione e consuetudine.

Ed essa le rispettò. Il regno è uno per la persona del Sovrano, molteplice per le istituzioni.

Nel 1668, dopo la prima conquista della Franca Contea, Luigi XIV firmò con i rappresentanti della regione una capitolazione, di cui il primo articolo suona così:

«Tutto resterà immutato nella Franca Contea, per quanto concerne i privilegi, le esenzioni e le immunità».

Una clausola garantiva il rispetto delle leggi e degli editti in vigore sotto la

dominazione spagnola; un'altra proibiva l'introduzione di nuove imposte; un'altra ancora conservava a Besançon l'Accademia. Dòle si faceva promettere che sarebbe stata il luogo di riunione degli Stati ... infine l'atto terminava con questa

dichiarazione:

«S. M. promette e giura sui Santi Evangeli che Essa e i suoi Augusti Successori manterranno fedelmente tutti i privilegi, le esenzioni, le immunità e le libertà, gli antichi diritti acquisiti, gli usi, i costumi e le ordinanze, e, in genere, che Essa farà tutto ciò che un Principe e Conte Palatino di Borgogna è tenuto a fare».

Estendete questo esempio, rappresentatevi le province, le città, le classi, le

associazioni, i mestieri, gli uffici, ognuno dei quali enti con sue proprie leggi, statuti, diritti, immunità d'ogni natura ed ampiezza, e vi formerete un'idea di quello che poteva essere la Francia di Luigi XV e Luigi XVI, e del come poteva in quel tempo esercitarsi il potere sovrano.

Nonostante un forte tentativo di semplificazione, compiuto sotto Luigi XIV, a tutte le decisioni governative continuava ad opponi una serie di tradizioni, concordati, compromessi, diritti acquisiti, dei quali era giocoforza tener conto. Occorreva discutere, accomodarsi, ammettere transazioni, esenzioni, eccezioni. Gli ordini più rigorosi venivano corretti ed emendati da questo insieme di istituzioni, contro le quali era inutile opporsi. Continuamente. i ministri si lamentavano per la difficoltà di governare uno Stato composto di cittadini così bene provveduti contro h volontà del Sovrano:

«Non si può fare un passo, in questo vasto regno», diceva Calonne, «senza imbattersi in leggi diverse,

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usanze contrastanti, privilegi, eccezioni, esenzioni d'imposte, diritti e pretese d'ogni specie». E aggiungeva, da ministro autoritario e accentratore: «Questa generale varietà complica l'amministrazione, ne interrompe il corso regolare, ne paralizza le iniziative, e moltiplica dappertutto le spese e il disordine».

Prendiamo un altro esempio. Al principio del XVIII secolo, qualche amministratore di province confinarie, desideroso di riparare al più presto le vie più rovinate,

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ingaggiò obbligatoriamente i contadini delle campagne adiacenti, e li adibì alla bisogna. Poiché i risultati che se ne ottennero sembrarono soddisfacenti, il sistema delle corvées a poco a poco si generalizzò.

Nel 1731, il controllore generale Orry invitò i suoi subordinati a usare tale sistema, e propose un modello di regolamento. S'intende che era escluso si potesse imporre simile prestazione obbligatoria ai nobili e agli ecclesiastici. Le città che dovevano mantenere le vie e le piazze sfuggivano, naturalmente, a quest'obbligo, e vi

soggiacevano soltanto quei cittadini che possedevano masserie o case di campagna.

Venivano pure esentati i funzionari della giustizia, dell'amministrazione delle finanze, le guardie forestali, gli operai della zecca, i corrieri e, in generale, tutti coloro che si desiderava mantenere quali fattori della pubblica prosperità.

L'intendente della Sciampagna, per esempio, esenta gli operai delle fabbriche

d'armi, i fonditori e i raffinatori. Nel Poitou, vengono esonerati i cartai. In una zona, la corvée vien imposta con severità, in un'altra con molta larghezza. Altrove, la riluttanza degl'individui è tale, che la corvée non s'arriva neppure a metterla in funzione.

Ecco come veniva modificata la decisione ministeriale che abbiamo visto più sopra.

E non è ancora tutto. La Linguadoca, che da molto tempo ha un ufficio dei ponti e delle strade, non ne tiene alcun conto. In quasi tutti i quartieri di Parigi, dove convergono molte vie principali, la cura di esse è tenuta a pagamento, e la corvée è quindi ridotta al trasporto dei ciottoli e delle pietre. In provincia, due o tre

intendenti prendono l'iniziativa di migliorare il sistema della corvée, diminuendone, al tempo stesso, l'esosità, e, d'accordo con le par-

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rocchie, trasformano la prestazione corporale in un contributo pecuniario, ripartito sulla massa dei cittadini. Orceau de Fontette immagina un sistema per la propria provincia di Caen, che è ricca. Turgot ne applica un altro nel Limosino, provincia povera. Divenuto ministro, egli tenta d'imporre all'intera Francia un sistema analogo, ma questo tentativo di generalizzazione cade, e si ritorna ai regolamenti locali, più numerosi che mai, bene o male adattati alle risorse di ciascuna regione e all'indole degli abitanti.

Dopo quarant'anni dalla sua introduzione, la corvée è irriconoscibile. Di dieci in dieci leghe essa varia di natura, di tasso, di modalità, di gravame. Deformata, ingrandita, impicciolita, convertita, accettata, combattuta, ridotta a zero, essa

dimostra, attraverso le sue mille forme, l'estrema varietà del regno e il suo potere di resistenza e di reazione di fronte alle iniziative statali.

Il primo ordine dello Stato, il clero, aveva una particolare organizzazione, che lo rendeva un corpo politico. Ogni due anni, i suoi rappresentanti si riunivano per votare le tasse erariali. Queste venivano chiamate «dono gratuito», per mostrare chiaramente che si trattava d'una specie di regalo e non di una vera e propria imposizione. Va da sé che le deliberazioni preliminari servivano di pretesto a una

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serie di lagnanze alle quali il potere, stretto dal bisogno di danaro, non poteva rimaner sordo. Tra una sessione e l'altra, due rappresentanti venivano preposti alla difesa dei privilegi ecclesiastici, ed essi espletavano questo incarico con la massima vigilanza. Grande proprietario, ricco dei suoi cento milioni di decime, il clero ha il monopolio delle due funzioni sociali alle quali lo Stato moderno sembra tenere più che a ogni altra, e sacrifica una cospicua parte delle proprie entrate, e che la

Monarchia, invece, lasciava da parte: la pubblica istruzione e la beneficenza. Il clero vi consacrava gran parte dei propri introiti.

Nelle province che erano state riunite alla Corona in tempo più recente,

sussistevano ancora alcuni Stati locali il cui potere era abbastanza vasto, poiché essi dirigevano l'amministrazione, gestivano il loro bilancio e votavano le imposte

generali.

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Alla vigilia della Rivoluzione, questo sistema funzionava in Borgogna, in Provenza, in Fiandra e in molti paesi dei Pirenei, ma soprattutto in Linguadoca e in Brettagna.

Gli Stati della Linguadoca godevano d'una buonissima reputazione, e passavano per essere molto malleabili; quelli della Bretagna, al contrario, erano di carattere

difficile. La carica di commissario del Re presso questi ultimi Stati era, quindi, considerata come una spaventevole impresa, dalla quale era pressoché impossibile uscire con onore. La composizione di questi Stati era singolare. Mentre il clero e il terzo Stato inviavano soltanto una cinquantina di rappresentanti ciascuno, tutti i nobili maggiori di venticinque anni, che potevano comprovare un secolo di nobiltà, avevano il diritto di partecipare in persona alle sedute e di prender parte alle

discussioni. dimodoché il loro numero ammontava solitamente a quattro o

cinquecento, e, qualche volta, anche a più. Suscettibili, diffidenti, gelosissimi delle libertà della provincia, consacrata dal contratto della duchessa Anna, costoro erano sempre pronti a criticare il Governo e a giocar brutti tiri ai suoi rappresentanti.

Altrettanto originale era la situazione dei territori dell'Alsazia e della Lorena. Non c'era tra la Francia e la Renania una frontiera lineare che marcasse una brusca soluzione di continuità nei rapporti sociali e politici, ma piuttosto una zona di transizione, un terreno di penetrazione reciproca, disseminato di zone e di villaggi contestati. Sarrelouis, città francese, era in territorio tedesco, ma, per compenso, i principi tedeschi di Alsazia conservavano alcuni diritti sopra un quinto del paese.

L'arcivescovo di Besançon contava, tra i propri suffraganei, il vescovo di Basilea, ma l'arcivescovo di Magonza era anche metropolitano di Strasburgo. Il confine

doganale correva tra la Francia e la Lorena, non tra l'Alsazia e l'Impero. Da Nancy, si commerciava più facilmente con Trèves e Magonza che non con Digione e Reims.

Nessuna. ostilità tra Renani e Francesi: i rapporti, al contrario, erano costanti e stretti. Molti Tedeschi venivano a stabilirsi fra di noi, otto o nove mila servivano nel nostro esercito e facevano parte precisamente della guarnigione dell'Est. I giovani signori del

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Palatinato o del Wurttemberg hanno il pensiero a Versailles, parlano la nostra lingua, comprano i nostri libri, e tengono collezioni delle nostre opere d'arte. Le Università di Bonn e di Magonza sono compenetrate della nostra cultura, e quando Goethe pensa di diventar professore, è perché vuole insegnare a Strasburgo.

«Non bisogna manomettere le usanze e le consuetudini alsaziane», aveva scritto un ministro di Luigi XIV. In base a questa massima, né il concordato del 1516 né la revoca dell'editto di Nantes sono applicati in Alsazia. Le chiese vivono in Alsazia sotto il regime in vigore al momento dell'annessione, e i protestanti vi praticano il loro culto senza restrizioni. Le lingue, i costumi, i tribunali, le libertà civiche, le costituzioni municipali sono fedelmente rispettati. Né taglie, né contributi, né diritti statali; le imposte locali sono applicate secondo la forma tradizionale.

La Lorena era stata trattata meno bene. I primi intendenti stabiliti a Nancy avevano spodestato gli ultimi duchi. Tuttavia, prima di esser annessa, la Lorena era passata per i due stadi di transizione dell'occupazione e del protettorato. Di conseguenza, essa beneficiava ancora di qualche privilegio: la giustizia vi era più regolare e più equa che altrove. La maggior parte dei diritti di contributo non avevano corso, così come non l'avevano la capitolazione e la terza vigesima.

Le città e le comunità del regno conservavano importanti privilegi del loro passato:

esenzioni o riduzioni d'imposte, libera nomina delle autorità urbane, diritto di giustizia, diritto d'imporre tasse, contrarre prestiti, stanziare spese a piacimento ...

Benché in molte regioni il governo centrale avesse approfittato della disordinata gestione e delle eccessive spese dei grandi municipi per stabilire il proprio controllo o dare un carattere di funzionari ai sindaci e ai luogotenenti, la vita municipale conservò, tuttavia, un vigore e una indipendenza stupefacenti.

Il magistrato di Strasburgo, i giurati di Bordeaux, il corpo municipale di Lione, la camera di commercio di Marsiglia, che nominava i consoli del Levante, erano

potenze delle quali era d'uopo tener conto. Le piccole città non erano meno accanite nel difendere le loro pre-

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rogative, e avrebbero preferito rovinarsi in una serie di liti piuttosto che

sottomettersi spontaneamente alla tutela del potere reale. Le parrocchie rurali si eleggevano i sindaci, ma costoro nulla potevano senza il generale assenso

dell'assemblea degli abitanti, che si riuniva la domenica, alla fine della messa, per scegliere gli agenti delle taglie, deliberare sulle corvées, sulla manutenzione delle vie e sulle imposte, accogliere le comunicazioni dell'intendenza e ascoltare la lettura dei nuovi editti.

Ma il più potente ostacolo all'esercizio illimitato dell'autorità reale era costituito dagli stessi tribunali: Parlamenti, Corti dei conti, Corti dei tributi, presidiali,

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podesterie, siniscalcati, elezioni, uffici di Finanza, magazzini del sale ... i cui membri erano proprietari delle rispettive cariche, come oggi lo sono i notai e gli avvocati.

Non è facilmente intuibile quali conseguenze apporti simile sicurezza della propria carica nei confronti dell'indipendenza, della libertà e delle tentazioni?

Equivale al diritto di assolvere, approvare e riabilitare coloro che la Corte

perseguita, di attaccarne gli agenti e di colpirli di cattura, di rifiutare nettamente la registrazione e l'applicazione dei nuovi decreti; alla possibilità, insomma, di tenere in pugno tutta la macchina del governo, per poco che l'andamento di essa sia

esitante ed impacciato.

E ciò con maggior facilità in quanto tutti questi corpi giudiziari non hanno limiti assoluti di competenza per materia, e in misura diversa hanno tutti attribuzioni finanziarie, amministrative e politiche.

Se qualcuno di questi enti, per indolenza o per decadenza, si lasciava spogliare di tali giurisdizioni, altri, più intraprendenti e audaci, conquistavano, per compenso, competenze ben più importanti, che davano loro continui pretesti per intervenire e agire nei campi più vano

Questa enumerazione è ben lungi dall'essere completa, ma basta a dimostrare in che differisse dalla Francia attuale la Francia d'una volta, per quanto concerne la

costituzione e il governo.

«Presa nel cappio dell'amministrazione, che essa porta da oltre un secolo senza ribellarsi, e che favorisce

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tanto bene le tirannie settarie o cesaree», la Francia d'oggi è senza difesa e senza forza di reazione contro i ministri e gli uffici. Per guidarla bastano tecnici e specialisti. Gli uomini contano meno dei diplomi, e questi valgono meno dei regolamenti.

Per regnare su quella specie di federazione d'organismi viventi che era l'antica Francia, per mettere in moto e contenere al tempo stesso quel centinaio di repubbliche aristocratiche o popolari, rivali e scontrose, occorreva maggior

carattere, maggior attenzione, maggior pazienza e anche più amore ed energia. Non bastava che un governo fosse onesto e volenteroso. Occorreva che il governo si facesse rispettare e temere.

La Francia del vecchio regime era riuscita a organizzare un simile tipo di governo, e fino agli ultimi giorni, mentre la testa declinava, già corrosa, le altre parti

rimanevano ancora sane e vitali come nel periodo più rigoglioso.

Le imposte, la giustizia, l'organizzazione sociale, provinciale e municipale, abbiamo già detto ch'erano straordinariamente complicate e confuse. Peraltro,

l'amministrazione propriamente detta era molto semplice e ben delineata, qualunque opinione se ne possa aver avuta.

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In alto, il Consiglio della Corona, supremo legislatore, centro e motore di tutta la macchina; in basso, gli uffici e le commissioni per preparare i suoi decreti; sei ministri per stenderli e trasmetterli; trentadue intendenti per farli eseguire.

Null'altro. Poco personale, poche scartoffie, niente complicazioni burocratiche, il puro necessario per far presto e bene.

S'intende che a questo stato non si arrivò d'un sol tratto. Prima che Luigi XIV gli desse forma definitiva, periodicità e divisione in sezioni, il Consiglio era passato attraverso tutti gli stadi possibili, ora diventando pletorico, ora rimpicciolendosi, a seconda delle circostanze e degli interessi contingenti. Gl'intendenti, d'altra parte, apparvero soltanto verso la metà del XVI secolo, e dapprima potevano considerarsi come commissari provvisori, incaricati di missioni temporanee nella provincia o al seguito degli eserciti. Durante la Fronda, essi erano scomparsi o quasi. Soltanto da Colbert in poi i commissari furono stabilmente collocati

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nelle circoscrizioni ben delimitate, e con attribuzioni cosi estese, che Lavisse poté con ragione scrivere che l'intendente era il re nella provincia.

Spesso questa formula è stata capita male, e si è creduto che l'intendente, quasi fosse un moderno prefetto, non avesse un'esistenza personale, ma fosse una

semplice emanazione del ministro e non potesse intraprendere nulla d'importante senza riferire a Versailles. Ciò non è esatto. Gl'importanti poteri che venivano conferiti all'intendente gli appartenevano personalmente, nel vero senso della parola. Egli ne usava con larghezza, e, sotto la propria responsabilità, non aveva alcun bisogno di mendicare continuamente a Parigi istruzioni o ordini. Agiva, prendeva iniziative, cercando che fossero coronate dal successo. Risolveva, seduta stante, le difficoltà, intraprendeva le riforme che giudicava utili, esponeva

apertamente la propria autorità e la propria persona, salvo a farsi poi sostenere da un decreto del Consiglio, che, d'altronde, veniva proposto, preparato e redatto da lui stesso. Il controllore generale lo sorvegliava dall'alto, ma non lo disturbava. E

questa libertà era tanto grande, che un intendente di Parigi poté, di sua propria testa, modificare da cima a fondo il sistema delle misure e trasformare la

capitazione, imposta di classe, in una tassa sui salari.

Giovane referendario, segnalato per i suoi rapporti e i suoi lavori. ecco l'intendente pronto a partire verso la provincia a lui assegnata. Egli è serio, diligente, aperto a tutte le novità, a tutti i progressi, impaziente di agire, avido di distinguersi. Resterà in funzione nello stesso posto per dieci, venti, trenta, quarant'anni, forse di più, e lascerà l'intendenza soltanto per la carica di consigliere di Stato o il portafoglio di ministro. In ogni modo, egli non cesserà per tutta la vita di lavorare intorno alle stesse questioni, con la medesima disposizione mentale e la stessa saggia audacia.

In nessun momento della sua storia, neppur durante l'epoca dei grandi prefetti napoleonici, la Francia ebbe un'amministrazione tanto saggia, tanto attenta,

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operosa, votata al bene pubblico e accessibile ai desideri degli amministrati. Difatti, pur essendo il rappresentante di Sua Maestà, l'intendente è anche il difensore della 23

provincia. Dopo esserci stato per molti anni, egli vi si è attaccato, e ne difende gl'interessi, ne diventa l'avvocato, e, all'occorrenza, invocando le proprie benemerenze per i servigi resi in passato, la protegge contro le pretese e le

esorbitanze del potere centrale. Attorno agli intendenti, nascono e si organizzano, attraverso successivi abbozzi. i grandi servizi pubblici che la Rivoluzione demolirà e Napoleone non avrà che a far risorgere, facendo la figura di esserne il creatore.

L'ufficio del registro, il demanio, le ipoteche, l'amministrazione dell'imposta ventesimale, che diventerà l'amministrazione dei contributi diretti, la regìa, le

poste, le acque e foreste, i ponti e strade, le miniere: tutte queste istituzioni debbono essere iscritte all'attivo degli ultimi Borboni, sia per la loro creazione come per il loro perfezionamento.

Rimangono molte tracce dell'attività degl'intendenti. Quasi tutte le città di provincia debbono a loro la fisionomia e il piano regolatore: Bordeaux, Nancy, Orléans, Tours, Rennes, Metz, Chàlons, Rouen, Limoges, Poitiers, Besançon conservano intatte piazze, vie e giardini che testimoniano la preveggenza e il senso estetico dei loro antichi amministratori.

Ma più che visitando i loro vecchi palazzi, possiamo penetrare le loro intenzioni e misurare i loro beneficii sfogliando gli archivi che ci hanno lasciato. Nulla di meno burocratico di questi incartamenti e della relativa corrispondenza. Gli uomini di quel tempo sapevano trattare le questioni più ardue in un linguaggio facile, leggero, esatto. Quando un ministro scrive a un intendente, adopera il tono d'una

conversazione d'affari tra persone distinte. Lo stile è puro, semplice, preciso. Le frasi dicono in poche parole ciò che è strettamente necessario. In poche righe, senza lungaggini né digressioni, la pratica è trattata esaurientemente. Ma ogni

espressione è nobile e al tempo stesso cortese, familiare. Non accade mai che un ministro ordini o proibisca. Egli piuttosto consiglia e prega. Scrive abitualmente:

«Vi sarò molto obbligato se ...». Fra lui e l'intendente non c'è alcun sussiego, alcun servilismo, alcun segno di subordinazione burocratica; soltanto attraverso

leggerissime 24

sfumature nella formula finale si può scoprire chi è il superiore e chi l'inferiore.

Ardascheff, che ha studiato molto bene questo particolare, cita il biglietto del controllore generale delle finanze Lambert a un intendente della Linguadoca:

«Egregio Signore, ho ricevuto, con la lettera che mi avete fatto l'onore di scrivermi il 29 del mese scorso, la copia delle deliberazioni su ciascun articolo. Vi ringrazio di questa nuova prova di attaccamento».

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Certamente, il ministro dell'Interno non scrive oggigiorno su questo tono ai suoi prefetti. Ciò è dovuto evidentemente al fatto che prefetti e ministri sono estranei gli uni agli altri. Questi sono i rappresentanti del Parlamento, quelli i rappresentanti dell'Amministrazione. Sotto l'antico regime, ministri e amministratori

appartenevano alla medesima classe, a quell'aristocrazia statale che possedeva per eredità le cariche dello Stato e forniva al Re i suoi migliori servitori. Lo stile ufficiale sarebbe stato fuori posto tra queste persone che si consideravano colleghi; essi avrebbero anzi ritenuto ridicolo scrivere in una lingua diversa da quella che usavano nei loro salotti.

Alle prese con innumerevoli difficoltà, in mezzo ai meandri di complicate

istituzioni, invisi a tanti contribuenti scontrosi, questi amministratori, distinti e severi al tempo stesso, riuscirono nel loro intento: e questo fu un gran merito.

Mathiez è nel vero quando scrive che la Rivoluzione non scoppierà in un paese esaurito, ma anzi nel pieno vigore delle sue risorse.

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CAPITOLO 2

LO STATO POVERO NEL PAESE RICCO

La miseria può suscitare tumulti, ma non può scatenare rivoluzioni. Le rivoluzioni hanno cause più profonde. Nel 1789, i Francesi non erano in miseria. Dai

documenti più attendibili si desume, per contro, che la ricchezza si era

sensibilmente accresciuta da circa un cinquantennio, e che le condizioni materiali di tutte le classi sociali, tranne la nobiltà rurale, erano sensibilmente migliorate.

Il regime corporativo, molto meno oppressivo e invadente di quel che se ne sia raccontato, non aveva ostacolato la nascita e l'affermarsi della grande industria. Le macchine importate dall'Inghilterra avevano favorito le concentrazioni di capitali, e già, almeno in qualcuno dei suoi tipici aspetti, si delineava la classica fisionomia della Francia mineraria e manifatturiera. Nel Nord e nell'ambito del Massiccio Centrale, l'estrazione del carbone e le officine metallurgiche (il Creusot data dal 1781); a Lione, l'industria della seta; a Rouen e a Mulhouse, il cotone; a Troyes, i berrettifici; a Castres, a Sedan, ad Abbeville e ad Elbeuf, la lana; in Lorena, il ferro e il sale; a Marsiglia, il sapone; a Parigi, la lavorazione delle pelli, i mobili e le

industrie di lusso. Già si muovevano lamentele per la scarsezza della mano d'opera e la mancanza di combustibile!

Tutte le forme d'associazione che abbiamo ai tempi attuali, sono fin d'allora

adottate. Nobili e borghesi impiegano in comune, in queste imprese, i loro capitali.

Grandi nomi dell'aristocrazia figurano come accomandanti di ditte plebee. Anzin e Aniche sono proprietà di due società anonime, di cui una fondata dal principe di

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Croy. Il duca di Charost esercisce Roche-la-Molière: il principe di Conti, unitamente al maresciallo de Castries e Tubeuf, ha l'impresa della Grand-Combe.

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La figura dell'industriale moderno, che, agitandosi fra i milioni, comanda a centinaia d'operai, esiste già molto prima della Rivoluzione, e così dicasi del banchiere, del mediatore, del finanziatore, dell'agente di cambio.

C'è la Borsa, alcune banche, una Cassa di Sconto, con un capitale di cento milioni, che emette biglietti simili a quelli della nostra Banca di Francia, un mercato a

termine, una quotazione, e anche l'aggiotaggio. Si specula già sui cambi, sui titoli di Stato, sull'appalto generale per la riscossione delle imposte indirette, sulle azioni delle grandi Compagnie: Compagnia delle Indie, Compagnia delle Acque e

Compagnia delle Assicurazioni. Secondo i calcoli di Necker, la Francia, in quel suo periodo storico, deteneva la metà del capitale europeo.

Il commercio con l'estero prendeva intanto uno sviluppo prodigioso, che, fatto raro nella storia economica dell'antico regime, possiamo seguire anno per anno, per merito delle statistiche compilate da un funzionario del controllo generale, che risponde al nome di Arnould. Tali dati corrispondono a quelli raccolti dalla Compagnia delle Indie.

Dalla morte di Luigi XIV, il movimento commerciale andò aumentando fino a quadruplicarsi. Nel 1788, aveva già raggiunto il valore d'un miliardo e sessantun milioni! Tale enorme cifra non sarà più raggiunta fino al 1848.

I grandi porti di Marsiglia, Bordeaux, Nantes, avevano acquistato quell'animazione, quell'aspetto, quel carattere cosmopolita, di grandezza e opulenza, di fronte al quale anche il contadino odierno suol rimanere sbalordito, abituato com'è agli angusti orizzonti della propria vita tranquilla. Marsiglia s'era accaparrato il commercio del Levante. Sulle sue banchine e nei magazzini si ammassavano i tappeti, le balle di tela indiana, i liquori, il riso, il grano, i vini di Cipro, l'olio, le pelli, le mussole.

Bordeaux e Nantes avevano il monopolio dei generi coloniali. La sola San Domingo forniva loro circa la metà dello zucchero che si consumava nel mondo. I grandi armatori, scossi per un momento dal trattato del 1763, ben presto si risollevarono.

Le vittorie della guerra d'Indipendenza americana diedero loro nuova audacia. Di fronte alle sette navi del 1738,

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stanno i trentatré bastimenti del 1784; i vini di Bordeaux si vendono fin nei mercati russi, e quelli di Borgogna dominano le piazze commerciali del Belgio e della

Germania.

Il commercio interno segue una sorte parallela. Nel 1715 c'erano pessime strade accidentate da continue frane e devastate dalle acque, con rari argini selciati e disfatti. Nel 1789 ci sono diecimila leghe di ottime strade, solidamente selciate, ben tenute, che varcano fiumi e montagne. Il servizio delle comunicazioni, riorganizzato

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da Turgot, è più rapido e meno costoso. In nessun altro paese si viaggia presto, bene e a buon mercato come in Francia. Arturo Young, che visitò la Francia sotto Luigi XVI, quando già la Rivoluzione era scoppiata, non seppe frenare la propria

ammirazione (egli, che disprezzava tutto ciò che non fosse inglese) per la bellezza e la comodità delle strade francesi.

A questo punto ci si presenta un grave problema.

Questa brillante società riposa davvero, come si è affermato, su un fondo di miseria? Dietro la folla dorata dei borghesi arricchiti, si agita forse una massa enorme di contadini affamati e indigenti?

Molti Sono stati di questo parere, e hanno citato, in appoggio, il celebre passo di La Bruyère: «Si vedono certi esseri animaleschi, feroci, maschi e femmine ... neri, lividi, bruciati dal sole», senza riflettere che questa pagina vecchia d'un secolo era soltanto un pezzo letterario di un amaro moralista, che, come tutti i suoi

contemporanei, scambiava l'affascinante vallata di Chevreuse per un deserto selvaggio.

Attraverso gli scritti degli economisti, si sono pure spigolate spaventose descrizioni della vita dei campi. Ma la maggior parte sono opera di uomini di studio, che non conoscono la campagna se non attraverso le opere di Quesnay, in un'epoca in cui era di moda celebrare l'ingenua virtù dei contadini e versare torrenti di lacrime sul caro foraggio o sul deperimento dei montoni merinos.

Si sono anche citate testimonianze di viaggiatori, ma ogni affliggente descrizione è contrastata da un'altra contraria. Come, del resto, da tanti appunti frettolosi si può trarre una conclusione generale e definitiva? In

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un'ora di carrozza si passa da una regione buona ad una cattiva, da una terra grassa a un suolo arido ... Basta una giornata di grandine per mettere un villaggio nella desolazione. Un raccolto che si preannuncia buono in giugno, risulta poi irrisorio in luglio. Una primavera piena di sole compensa un inverno infausto. Da un anno all'altro, tutto cambia. Ogni provincia differisce dall'altra. Sarebbe arrischiato dare una portata generale a fatti di secondaria importanza, attinenti strettamente alla località nella quale sono avvenuti.

Inoltre, occorre tener presente una circostanza capitale e indiscutibile, cioè che il sistema d'imposte che pesava sul contadino rendeva assolutamente necessaria per lui l'APPARENZA della povertà.

L'imposta rurale per eccellenza, la taglia, era un'imposta sull'introito

grossolanamente computato attraverso i segni esteriori della ricchezza, da alcuni agenti scelti a turno fra gli stessi contadini.

Guai al contribuente esatto e sincero! Tutto il peso dell'imposta ricadrà su di lui.

Dovendo percepire una somma fissata globalmente a priori, e volendo al più presto

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disfarsi della loro antipatica missione, gli agenti delle imposte loro malgrado, felici di trovare un ingenuo, un "fesso" come si direbbe oggigiorno, si affrettano a

duplicare o triplicare la sua quota, mentre trattano con ogni riguardo i contribuenti più riottosi, e cioè i furbi che hanno saputo dissimulare le loro rendite, le teste calde che hanno fama di non lasciarsi passare la mosca al naso e gli attaccabrighe che non temono le complicazioni scandalose di una vertenza.

È un assioma profondamente sentito dal popolo, quello secondo il quale il mezzo per non pagare anche per gli altri, la sola maniera di non rimanere schiacciati da ingiusti accertamenti fiscali, è quella di restringere le spese, di apparire agli occhi altrui senza mezzi di sussistenza, di esibire le apparenze della più squallida

indigenza: «Il più ricco individuo di un villaggio», scriveva nel 1709 il podestà dell'Isola di Francia, «non s'arrischierebbe a uccidere un maiale se non di notte, poiché, se facesse ciò pubblicamente, gli verrebbero senz'altro aumentate le

imposte». L'Assemblea provinciale del Berry constata ugualmente, nel 1778, che il coltivatore

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dei campi «cerca di dissimulare le proprie facoltà finanziarie», cioè le rendite, in modo tale, che egli «cerca di non spendere nei mobili, nei vestiti, e persino nei cibi, in tutto ciò, insomma, che è esposto all'altrui vista».

La sorte delle imposte arbitrarie, anche quando sono modeste, è infatti quella di essere difficilmente riscosse. Il contribuente dell'antico regime è restio, simulatore e insolente a tal punto, che noi, ai nostri giorni, non ce ne possiamo fare un'idea. La sua cattiva volontà è senza confini; egli si decide a pagare il più tardi possibile.

Spesso è in mora di due o tre anni. «Chi ha il danaro nascosto», dice Boisguillebert,

«prima di tirar fuori un soldo, si fa citare quaranta volte. Piuttosto che mostrare le proprie risorse economiche pagando alle scadenze, costoro preferiscono essere portati in giudizio e arrivare sull'orlo del sequestro. Molestano continuamente l'intendente di reclami e lamentele. Fanno intervenire in loro favore il signore, il giudice e il curato. Gemono, gridano, protestano senza interruzione, e ognuno cerca di gridare e protestare più forte e più a lungo, per non apparire più ricco o più docile del vicino».

Rousseau, sperdutosi un giorno in una zona montagnosa, assalito dalla fame, entrò in casa d'un contadino e gli chiese da mangiare. Costui rifiuta; non ha nulla; gli hanno tolto tutto. non gli è rimasta una briciola; che Rousseau cerchi pure, tutto è vuoto. Rousseau supplica, insiste, dichiara finalmente l'essere suo. Il contadino, dopo averlo ascoltato, si raddolcisce, si rassicura, smaschera con circospezione un nascondiglio, e ne trae, con grande mistero, pane, carne e vino, ma nel contempo spiega che egli sarebbe un uomo perduto, «se questa sua possibilità economica si rendesse nota».

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La situazione dei contadini dell'antico regime è per l'appunto questa; una grande finzione di miseria, e, sotto il mantello di stracci, una vita tranquilla, spesso agiata, qualche volta larga, persino.

È inutile aggiungere che essi sono uomini liberi. La servitù della gleba, che

sussisteva ancora in quasi tutti i paesi europei, era scomparsa in Francia. Esisteva soltanto in forma attenuata in qualche angolo del Giura e del Borbonese. Il Re ebbe cura, nel 1779, di cancellarne gli ultimi avanzi nei suoi domini, e il suo esem-

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pio venne seguito da qualche signore della Franca Contea.

I contadini erano anche, molto spesso, proprietari. Mentre, in Inghilterra, il regime dell’"inclusione", li gettava nella dura condizione di servi o manovali, in Francia essi approfittavano del rialzo dei prodotti agricoli per migliorare la loro condizione. È certo che alla vigilia della Rivoluzione i contadini posseggono almeno la metà dei campi francesi. E bisogna anche contare nella frazione che appartiene al clero, ai nobili e ai borghesi molte terre improduttive: boschi, bandite, parchi, ville di piacere.

Ci sia permesso citare qualche cifra. Nel Mauge, in una delle regioni, cioè, ove la proprietà ecclesiastica e la proprietà aristocratica si sono conservate più che altrove, i due ordini privilegiati posseggono ancora il 63% delle terre; ma a Larrazet (Tarna e Garonna), secondo il catasto del 1769, giunto sino a noi, i coltivatori e gli artigiani rurali hanno già in loro mani, a quell'epoca, il 49,8% del territorio; a Paroy (Senna e Marna, circondario di Provins), secondo un catasto del 1768, conservato dal

castellano, i contadini vi sono registrati per 501 jugeri su 941. La stessa proporzione ritroviamo nel Forez.

Dal 1750 al 1789, i contadini della zona di Soissons acquistarono un quantitativo di terra quattro volte maggiore di quel che perdettero. Dal 1779 al 1781, i contadini del territorio limosino si avvantaggiarono di 4000 arpenti di terra. Nelle 86 parrocchie dell'elettorato di Tulle, su 247.000 arpenti essi ne posseggono 137.080. In 43

parrocchie dell'elettorato di Brive, 34.000 su 63.000. In quei due territori, soltanto il 17% di essi non sono proprietari.

In certi villaggi si giunge a constatazioni ancor più favorevoli. Per esempio, rientra in questi casi Gillonay, nel Delfinato, presso la Costa Sant' Andrea. Dal 1702, sopra 1378 ettari, i contadini ne posseggono 800. Allo scoppio della Rivoluzione, ne posseggono 1250. I nobili sono rimasti proprietari soltanto di qualche pezzo di vigneto. I due castelli e le tenute adiacenti passarono anch'essi ad alcuni borghesi.

A Saint-Benoist-sur-Loire, nell'Orleanese, dopo il 1734, 34

la vecchia e celebre abbazia, che era stata proprietaria di tutto il territorio, non conserva altro che quattro masserie. Alcuni agricoltori benestanti, lavoratori, come

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si diceva allora, ne hanno acquistato la maggior parte. Il resto della popolazione, cioè 340 capi famiglia, si divide 733 arpenti di terra, fra vigne e prati. Di essi, 286 possiedono una casa o, almeno, una parte di casa. I quattro abitanti adibiti Come manovali o giornalieri hanno: il primo, una casa e un giardino; il secondo, un angolo di vigna; il terzo, un arpento di terra e un mezzo arpento di vigna; il quarto, una casa, un mezzo arpento di terra e un quarto di vigna.

I piccolissimi proprietari conducono due coltivazioni: l'una per proprio conto, l'altra come gastaldi o mezzadri. E si deve aggiungere un'ultima risorsa ancora: l'industria a domicilio, tessitura o piccola metallurgia, molto sviluppata nel XVIII secolo ed oggi quasi scomparsa. I magnani di Vimeu e gli orologiai del Giura stanno a testimoniare anche oggi questo antico sistema di lavoro.

In molte province, il sistema di coltivazione era rimasto primitivo. Il maggese era la regola, e i raccolti erano scarsi. Pertanto, il governo si sforzava di diffondere il sistema dei prati a semina. Spesso, aiutato dalla nobiltà, che, anche per seguire la moda, s'interessava attivamente alle questioni agricole, gli sforzi del potere centrale furono coronati da successo. Furono quindi impiantate masserie sperimentali, create cattedre di veterinaria, instituiti concorsi; furono bonificate paludi, dissodate lande, fu diffusa la coltivazione della patata e migliorato l'allevamento del bestiame Con l'introduzione e l'acclimatazione di nuove razze. Goethe, venuto in Francia nel 1792, al seguito degli eserciti prussiani, rimase colpito dal bell'aspetto e dalla solidità delle case lorenesi, dall'eleganza dei loro mobili e dall'assortimento delle loro cantine. Se questo non è ancora il vero benessere, è già qualcosa che molto gli si avvicina.

Ma questa proprietà agricola che s'accresce e migliora, è una vera proprietà nel vero senso della parola, o piuttosto un semplice possesso, gravato da esose servitù?

Il feudalismo, che non esisteva più come regime politico e nemmeno quale inquadramento sociale, sussi-

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steva ancora dal punto di vista civile ed economico. Accanto al governo reale, si potevano ancora vedere, sparsi al suolo, i frammenti del precedente regime, il quale, ormai spogliato delle sue attribuzioni e di ogni funzione socialmente utile,

continuava purtuttavia ad avvantaggiarsi delle passate tradizioni.

È certo che questa bardatura, della quale non si vedeva più la ragion d'essere, non era sopportata con molta pazienza, e ciò è naturale e legittimo. È pure evidente che essa sembrasse vessatoria in rapporto all'estensione della proprietà dei contadini.

Ma che essa fosse insopportabile è da discutersi.

Non bisogna, però, lasciarsi ingannare dalla straordinaria quantità di termini che servivano a designare le tasse feudali. Nessuna lingua fu ricca di tali e tanti

sinonimi.

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A seconda dei luoghi, dell'importanza e della natura dei terreni, uno stesso diritto fiscale poteva chiamarsi in modi diversissimi.

Ogni termine ha sette od otto equivalenti, qualche volta anche di più, e a cagione di quest'infinità di denominazioni, si è troppo facilmente affermato che in quel tempo esistesse un sistema fiscale multiforme e schiacciante, mentre, in realtà, tutto si riduceva a quattro o cinque voci corrispondenti a canoni riscossi alcuni in natura, altri in danaro.

Le tasse in danaro erano state fissate una volta per tutte nel Medio Evo. Vale a dire che, a causa della svalutazione della moneta, questi tributi erano diventati irrisori, e ormai esistevano soltanto come formalità, che soddisfacevano più la vanità del signore che la sua borsa.

Le tasse in natura erano più gravose, ma l'imposizione era stata spesso contestata, e per negligenza, o per paura di incontrare difficoltà, o per tema di provocare

un’emigrazione in massa, molti signori evitavano di esercitare in pieno i loro diritti.

«Fate pure molto chiasso», suggeriva il duca di Cossé-Brissac ai propri amministratori, «ma non ricorrete alla coercizione se non nei casi urgenti e indispensabili».

In molti feudi, i contadini rimanevano venti o trent'anni senza pagare tassa alcuna.

In altri, avevano otte- 36

nuto modifiche, che riducevano sensibilmente le antiche tasse. In altre ancora, essi, comprando la terra, avevano, al tempo stesso, acquistato i diritti che gravavano su di questa. Centinaia di canoni erano stati soppressi dagl'intendenti. Se il censo non aveva più ragion d'essere, i diritti feudali si giustificavano purtuttavia con una contropartita: l'affitto di un frantoio, di un forno o di un mulino. La decima

ecclesiastica imponeva ugualmente al clero che la riscuoteva di sostenere le spese del culto, d'istruire i bambini, di assistere i poveri e curare gli ammalati.

È difficile ridurre in cifre l'ammontare dei tributi feudali. In parecchie località del Maine, tuttavia, Jean de la Monneraye è riuscito a raccogliere qualche elemento preciso. Sulle dipendenze del feudo di Maulny grava un complesso di tributi pari al 12,5% del reddito. Irrisori sono i tributi riscossi da feudatari di Courtoux: 15 soldi e due corvées su un reddito annuo di 360 lire. Nel feudo di Forest, i contadini

cedevano al signore circa la centesima parte d'un reddito di 4488 lire. Nella signoria di Trouchet i canoni feudali corrispondevano a un sedicesimo dei prodotti. In

media, senza pretendere ad un'esattezza illusoria, si potrebbe, per quella regione, attenersi ad un tasso del 10%, pressappoco quel che viene pagato nella Guienna (a detta del Marion), meno che in Bretagna (H. Sée), ma di più che nel Roussillon (Brutails).

In verità, queste sopravvivenze feudali erano odiose non tanto perché pesavano molto, ma per il semplice fatto che costituivano un reliquato storico con tutti i

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caratteri tipici d'incertezza, fonte di continue liti: «Nella feudalità non c'è nulla di realmente vivo, tranne le liti», diceva Le Trosne. Ed effettivamente il male di questo regime consisteva appunto in ciò.

I diritti feudali erano un pretesto a continui cavilli. Un verminaio di piccoli legulei campagnoli, che traevano i loro mezzi di sussistenza da quest'unica fonte di

perpetue dispute, si metteva d'impegno con tutte le risorse professionali per attizzarle. Tutto contribuiva a facilitare le contestazioni: l'incertezza delle

consuetudini, l'imprecisione dei termini, la mancanza di titoli originari, la difficoltà di trovare gli equivalenti attuali del-

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le antiche misure di capacità e di superficie, la distinzione fra ciò ch'era dovuto in danaro e quello che avrebbe dovuto pagarsi in natura, il computo, la natura, la legittimità dei passaggi e dei riscatti, le frodi e i ritardi dei mugnai signoreschi ecc.

Si litigava, si disputava, senza tregua né respiro. Le parti rivaleggiavano in mala fede per prolungare le liti. E i giudici facilitavano questo stato di cose.

Questa foga litigiosa non fece che aggravarsi nella seconda metà del secolo. Sia perché non risiedevano più nelle loro terre, sia perché desideravano liberarsi da ogni fastidio, pur non volendo rinunciare alloro regolare reddito, molti nobili avevano affidato la riscossione dei loro diritti ad agenti e a commercianti, i quali, non vincolati né da ricordi di famiglia né da punti d'onore alla gente del feudo, si misero d'impegno a cavar loro più danaro che fosse possibile. Molte volte, poi, i signori, non sentendosi più nel legittimo possesso dei loro beni per mancanza di documenti originari, in un'epoca nella quale le loro pretese erano sempre più contrastate, presero l'iniziativa di far rinnovare, verificare, mettere in chiaro e completare il loro "terratico" da alcuni giuristi specializzati in questo genere di pratiche, ai quali essi accordavano generalmente una percentuale sulle rendite recuperate per loro mezzo.

I contadini, che si erano sempre avvalsi dell'oscurità dei titoli originari per legittimare le loro contestazioni, in questa impresa non potevano che rimanere soccombenti.

Roberto Latouche ha attentamente studiato la maniera con cui venne ripristinato il

"terratico" della collegiata di Montpezat nel Basso Quercy. I due feudisti incaricati di tale lavoro spinsero le loro ricerche sino al XIV secolo. Interessati per metà al ricupero delle somme dovute, si mostrarono senza misericordia. «Più volte la loro malafede si rese manifesta, o per lo meno trasparve». Spingendo la prudenza alla sottigliezza, estorsero ai canonici l'incarico scritto che, senza la loro approvazione, non sarebbero stati accordati né attenuanti né accomodamenti di sorta a coloro che non fossero comparsi in giudizio o che avessero trascurato di pagare il dovuto. Forti di tale procura, fecero vendere i beni di

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un fittavolo per il ritardo d'un pagamento di 507 lire. Altrove i feudisti si studiarono di rimettere in vigore canoni ormai caduti in disuso, e di rialzare il tasso di quelli che avevano subìto una diminuzione. Questo è quanto fu detto la "reazione feudale".

I contadini, nel momento stesso in cui il Governo faceva proporre dai pubblicisti ufficiali l'abolizione degli antichi diritti, ebbero l'impressione che i signori

cercassero di schiacciarli sotto nuovi gravami, e si ribellarono, con la disperazione d'un naufrago, che, sul punto di toccare la riva, incontri un ostacolo imprevisto.

Quest'odio era ingiusto. In generale quei signori non erano punto cattivi. Sudici, pillaccherosi come i loro gastaldi, essi della loro signoria conservavano soltanto un albero genealogico, una colombaia, un cane da caccia e una vecchia spada

arrugginita. La loro fortuna si era polverizzata nella tormenta delle guerre di religione, e il continuo rialzo del costo della vita, provocato dal l'afflusso dell'oro americano, non aveva permesso ad essi di ricostruirla. Essi, come il padre di Chateaubriand, che abitava con cinque domestici e due cavalli in un castello che avrebbe potuto accogliere cento cavalieri, il loro seguito e la muta di re Dagoberto, vivacchiavano in angustie, nei loro manieri spogli di mobili e scalcinati. Molto spesso, le loro ultime terre erano ipotecate, e le loro rendite cedute a speculatori, i quali perseguivano il ricupero con un accanimento che i signori non avrebbero certo messo agendo in proprio.

I contadini non avevano alcun motivo personale per detestarli. In molti casi,

durante il periodo più sanguinoso del Terrore, costoro saranno protetti e salvati dai contadini. Ma in quell'anno 1788, essi rappresentano agli occhi dei contadini

l'ultimo ostacolo alla completa liberazione dal servaggio. L'ultimo: vale a dire quello contro il quale si accumulano collere e rancori, quello che nell'orgasmo di

conquistare la mèta s'infrange selvaggiamente, invece di girarlo come gli altri precedenti. L'ombra del servaggio riesce a volte più odiosa dello stesso servaggio.

Ma la popolazione rurale (dirlo non sarà di troppo) non è affatto omogenea: fra il giornaliero, che non possiede che le proprie braccia per vivere, e il ricco agricol- 39

tore, che lo prende a lavorare a giornata, corre quasi lo stesso divario che tra un ciabattino e un duca. Cionondimeno, il giornaliero non può dirsi un disgraziato, per il fatto che in campagna la proprietà non assume quel carattere assoluto che il

diritto romano le conferisce, La proprietà è subordinata a ciò che un giurista chiama il "diritto sociale", e cioè agli equi bisogni della comunità. In altre parole, essa è soggetta a varie servitù, che periodicamente la rimettono a disposizione dell'intera parrocchia, ricchi e poveri indistintamente: il pascolo sui campi già spogli, la spigolatura, il diritto di svellere le stoppie, quello di far legna nei boschi, il godimento indiviso dei beni appartenenti alla comunità, lande, paludi, praterie.

Tutto questo permette al contadino, privo di beni fondiari, di possedere una capra, un maiale, una mucca, polli, conigli, di provvedersi gratuitamente di strame. di legna, di foraggio. Alcune di queste usanze comportano severe prescrizioni riguardo

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alle colture: bisognava, affinché il bestiame potesse trasferirsi a suo agio da un luogo all'altro, che il territorio del villaggio fosse obbligatoriamente diviso in

sezioni, ciascuna sottoposta a rotazioni alterne: maggese, frumento invernale, grani primaverili. Il diritto di pascolo impediva che si chiudessero i grandi feudi, ed

esigeva che la mietitura e la falciatura avvenissero ovunque contemporaneamente a seconda dei "bandi". Oltre a questo, non era permesso sostituire il falcetto con la falce, dato che ne sarebbe derivato molto minor vantaggio alla spigolatura e al diritto sulle stoppie. Per dirla in poche parole, «ogni cura del contadino povero tendeva a limitare il diritto della proprietà individuale, per la; difesa delle

costumanze collettive che gli permettevano di vivere, e che egli considerava una proprietà altrettanto sacra che le altre».

Non è meno evidente, però, che simili usi costituiscono un ostacolo pressoché insormontabile al progresso agricolo: gli agro nomi cominciavano a reclamare la libertà di chiudere le proprietà (cosa già in atto nelle regioni occidentali e centrali), come condizione necessaria al miglioramento del terreno e dei metodi intesi

all'aumento della produzione. A cominciare dal 1765 proprietari, allevatori, intendenti, si sforzano di far trion-

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fare presso il ministero la politica d'individualismo agrario. Il Consiglio, pur incline a favorire gli innovatori, procede con molta cautela: cominceranno ad essere chiusi i prati, per salvare il guaime. L'inquietudine, tuttavia, serpeggiava tra i diseredati, attaccati all'uso come ad una salvaguardia.

Altra questione aperta: i beni comunali. Ammettendo che si fosse venuti alla

decisione di dividerli, come dividerli? A un tanto per famiglia? Proporzionalmente ai gravami? Che cosa sarebbe spettato al signore? Un terzo o la metà, come molti pretendevano? E come sarebbero stati delimitati i piccoli lotti? Chi li avrebbe attribuiti? I poveri non sarebbero stati danneggiati a ricevere in proprietà assoluta un pezzettino di campo o di bosco, invece di continuare a mantenere un diritto effettivo sull'insieme?

Insomma, si può dire, volendo usare parole un po' solenni, che nel 1789 la parte meno favorita della popolazione dei campi si trovava in rivolta virtuale contro la trasformazione capitalistica dell'agricoltura.

Con tutto ciò, si deve ammettere che, da un secolo, le campagne s'erano arricchite. È vero che non tutti avevano profittato in ugual misura del rialzo dei prezzi, che

proseguiva quasi costantemente sin dal 1730. Alcuni storici pretendono che i giornalieri ne siano stati addirittura schiacciati, perché l’"aumento dei salari non tien dietro che con ritardo al rialzo dei viveri. Ma essi dimenticano che i contratti di lavoro prevedevano, oltre il vitto, anche un vestito all'anno e le calzature. La vita era diventata più sicura per tutti.

L'intera Francia aveva partecipato a questo movimento di prosperità. Ne fa fede, a parte tutto, l'accrescimento regolare della popolazione. Questa raggiungeva i 25

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