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CIÒ CHE PIÙ MERAVIGLIA negli avvenimenti dell'epoca rivoluzionaria, a

cominciare dalla Legislativa, è il modesto numero dei protagonisti. Alle elezioni, la cifra dei votanti è infima. Per le vie, la massa dei manifestanti si rarefaceva di giorno in giorno: sei o settemila, tutt'al più, a Parigi, sempre gli stessi, per i quali, si può dire, la sommossa era diventata un mestiere. Con la caduta della Monarchia, la Francia dà le dimissioni dalla vita pubblica. Sotto l'uragano, essa diviene umile, sottomessa, assente, agognando giorni migliori, e su questo grande popolo che tace, regna e legifera il piccolo popolo dei Giacobini.

Le Società, fin dal 1788, erano state la forza propulsiva della Rivoluzione.

Solidamente costituite, esse avevano, nella crescente anarchia, consolidato e accresciuto il loro potere, ma fino al 10 agosto avevano potuto agire soltanto

dall'esterno, mediante pressioni sul Governo reale. Quest'ultimo, di capitolazione in capitolazione, era giunto all'estremo grado di impotenza, ma era ancora parecchio audace, e qualche volta si rifiutava di obbedire alle imposizioni, cosicché era stato necessario abbatterlo.

La Francia, allora, venne a trovarsi in una singolare situazione: senza Re, ma sottomessa ad una Costituzione monarchica. La Convenzione avrebbe preteso di

esercitare il potere esecutivo, ma le precauzioni che erano state prese contro la Corte impedivano anche ad essa tale esercizio. In sostanza, la Repubblica veniva ad essere paralizzata dalla medesima situazione che aveva paralizzato la Monarchia, e, cioè, indipendenza delle autorità locali, mancanza di subordinazione, continuo rimpasto dei corpi amministrativi, impotenza dei magistrati eletti, abbandono della forza armata alle Comuni. La

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dualità di poteri, costituita dalla Corona e dall'Assemblea, non esisteva più, ma poiché l'Assemblea era divisa in due fazioni avverse, l'attività del potere centrale, invece di essere coerente, rimaneva come prima, oscillante e contraddittoria. I Giacobini, nei rispetti della Convenzione, si trovavano, con maggiori forze, nella stessa situazione nella quale si erano trovati fino a due mesi prima nei confronti del Re; sostanzialmente, erano i padroni della situazione, sovrapponendosi ai

governanti ufficiali. I loro sistemi d'intimidazione rimasero invariati; le stesse campagne giornalistiche, gli stessi discorsi, le medesime dimostrazioni, sommosse, violenze. Obbligando l'Assemblea a sacrificare, il 2 giugno, i capi della propria maggioranza, i Circoli dimostrarono chiaramente che essi intendevano trattare la sovranità popolare alla stessa guisa della sovranità personale. Tuttavia,

contrariamente a quanto si suol credere, il 2 giugno non fu un punto di arrivo, ma soltanto una tappa. L'agitazione che ne segui portò, verso la fine del 1793, alla creazione del Governo rivoluzionario, cioè della dittatura giacobina.

Durante questa crisi, come ormai accadeva da cinque anni, la Montagna fu guidata dall'estrema sinistra, costituita dal partito degli Arrabbiati. Dove cominciava questo partito? Dove finiva? È difficile fissarne i limiti esatti. Fra i suoi membri, le beghe e gli odi i erano continui, e cagionavano frequenti, reciproche scomuniche. Ma, fatte queste riserve, si può dire che il movimento nacque dalla predicazione comunista di Giacomo Roux e dei suoi emuli, Varlet e Leclerc. Furono essi a lanciare l'idea che la rivoluzione politica doveva essere integrata con la rivoluzione sociale, e che

l'eguaglianza dei diritti civili non poteva andar disgiunta dall'eguaglianza delle condizioni economiche. Respinti dai capi della Rivoluzione, costoro si rivolsero al popolo minuto delle città, ridotto alla più tetra miseria dall'inflazione. Fin dal mese di maggio essi erano già abbastanza agguerriti per obbligare Marat e Robespierre ad accettare il loro aiuto contro i Girondini, e fino a settembre la loro influenza andò aumentando.

La storia di questi tre mesi era, ancor non è gran tempo, quasi ignorata. Il Mathiez, che per i! primo se n'è

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occupato particolarmente, la giudica «molto imbrogliata e confusa». «I

protagonisti», egli dice, «sono oscuri. I loro atti son poco noti, e meno ancora le loro intenzioni. È un continuo avvicendarsi di petizioni, di manifestazioni, di torbidi e intrighi. Il Governo va qualche volta alla deriva; si destreggia con la sommossa. Le

dichiarazioni e i provvedimenti che oppone alla piazza non sono mai definitivi; cede e ritorna in seguito sulle concessioni accordate». Era il caos.

Tuttavia, se ci si limita a considerare il movimento nelle sue grandi linee, non è difficile farsene una chiara idea, e tutto si può riassumere nel modo seguente, Giacomo Roux, approfittando delle difficoltà della "saldatura" fra i due raccolti del 1792 e 1793, tiene le sezioni in effervescenza, e tenta tre o quattro volte di lanciarle all'assalto della Convenzione, che è da lui accusata di ridurre il popolo alla fame, accordando la sua protezione ai ricchi, ai mercanti e agli aggiotatori. La petizione che egli legge alla sbarra, il 25 giugno, ha tutto il tono d'una requisitoria: «La libertà non è che un vano fantasma, quando una classe di uomini può impunemente

affamare l'altra. L'eguaglianza non è che un vano fantasma, quando il ricco, attraverso il monopolio, esercita diritto di vita e di morte sul suo simile. La

Repubblica non è che un vano fantasma, quando la controrivoluzione agisce giorno per giorno sui prezzi dei viveri, e che i tre quarti dei cittadini non possono

acquistare se non con lacrime». Nel suo giornale il giovane Ledere invitava i

legislatori ad alzarsi di buon mattino alle tre, per andar a prender posto nelle code che, prima del levar del giorno, s'allineano lungo le botteghe chiuse. «Tre ore di tempo passate davanti alla porta d'un fornaio addestrerebbero un legislatore più che quattro anni di permanenza sui banchi della Convenzione».

Il favore con cui è accolta questa propaganda inquieta la Comune. Temendo di essere sopraffatti, Hébert e Chaumette riprendono per loro conto le teorie comunistiche e, col momentaneo aiuto di Robespierre, riassumono

tempestivamente la padronanza sulle masse, che stavano per sfuggire al loro controllo. Respinto dai Cordiglieri, privato del suo giornale, Il Pubblicista della 309

Repubblica, accusato dai Giacobini d'essere un emissario di Coblentz e un agente di Pitt, denunciato alla Convenzione dalla "vedova" di Marat, Giacomo Roux,

arrestato, si toglie la vita in prigione. Leclerc ritiene prudente scomparire, e si arruola in un battaglione. Varlet, l'oratore di piazza, passa qualche settimana in prigione; e ne esce muto. Il gruppo è eliminato, ma si tratta, in fondo, d'un semplice cambiamento di persone.

Che il comunismo si sia affermato sotto il nome di Hébert o quello di Roux, non conta. L'importante è che il comunismo trionfò, che la deviazione a sinistra non si arrestò alla Rivoluzione "borghese", ma arrivò fino alla Rivoluzione "proletaria".

La conversione di Hébert rappresenta l'episodio principale di questa evoluzione, ed avviene dopo l'assassinio di Marat (13 luglio). Marat, con la sua autorità, col suo talento giornalistico, con la sua straordinaria dote di interpretare ed esprimere le passioni popolari, tagliava la via agli ambiziosi; era, in sostanza, un personaggio ingombrante. Ai suoi funerali, l'amico intimo di Hébert, Vincent, non poté

nascondere la propria gioia, e lo si sentì mormorare: «Finalmente!». Era vacante un gran posto. Roux e Leclerc fecero di tutto per occuparlo. Hébert li mise da parte:

«Se occorre un successore a Marat», esclamò egli davanti ai Giacobini il 20 luglio,

«se occorre una seconda vittima, eccola pronta e rassegnata: sono io».

Hébert non aveva nessuna. voglia di essere assassinato, ma voleva semplicemente conquistare al proprio Père Duchene la clientela dell'Amico del Popolo e del

Giornale della Repubblica.

Onde non esser battuto nel campo della demagogia, egli aveva cura di stampare alla rinfusa nel suo giornale tutte le dicerie, tutte le calunnie, tutte le storie di complotti e di tradimenti che circolavano nell'ambiente delle Società; e siccome, di

conseguenza, era pur necessario proporre i rimedi a questo stato di cose

denunciato, Hébert si appropriava senza vergogna della paternità del programma formulato da Roux e da lui stesso fino ad allora combattuto, e cioè: requisizione, imposta sui ricchi, guerra di classe, socializzazione del commercio.

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«La Patria», egli scrive ai primi di settembre, «la Patria, lasciamo andare! I negozianti non ne hanno. Fintanto che essi hanno creduto che la Rivoluzione

sarebbe loro stata utile, l'hanno sostenuta, hanno aiutato i sanculotti ad abbattere la nobiltà e i Parlamenti; ma era soltanto per sostituirsi agli aristocratici. Ed ora che non esistono più i cittadini privilegiati, ora che l'infimo sanculotto gode degli stessi diritti del più ricco esattore, tutti questi cani di giudei hanno voltato casacca e s'adoperano con ogni mezzo a distruggere la Repubblica, hanno accaparrato gli approvvigionamenti per rivenderceli a peso d'oro o per cagionare la carestia; ma poiché essi hanno visto i sanculotti disposti a morire piuttosto che ridiventar schiavi, questi mangiatori di carne umana hanno armato i loro commessi e tira piedi contro la sanculotteria; peggio ancora, hanno fornito i viveri, il vestiario, e tutto il necessario ai briganti della Vandea; ed ora aprono le porte di Tolone e di Brest agli Inglesi e mercanteggiano con Pitt per cedergli le colonie ...».

Hébert, sostituto del procuratore del Comune, padrone del maggior giornale di Francia, poteva permettersi di dare colpi tremendi all'opinione giacobina. Alcuni numeri del suo giornale raggiunsero, dicono, la tiratura di 600 mila copie,

distribuite gratuitamente alla cittadinanza di Parigi e all'esercito. Ma il suo potere si estendeva molto al di là di tale regno cartaceo. Egli spadroneggia nel Ministero della Guerra, e Bouchotte gli concede tutto: danaro, privilegi, sinecure, comandi.

Trecento milioni da spendere ogni mese, 50 mila posti o gradi da distribuire, centinaia di contratti lucrosi da aggiudicare, tale è l'attività di Hébert. Attorno al capo, c'è uno stato maggiore degno di lui: Vincent, segretario generale del ministero della guerra, Ronsin, comandante dell'esercito rivoluzionario, Rossignol,

comandante dell'armata dell'Ovest. Al suo seguito troviamo Hanriot, comandante della Guardia Nazionale parigina, Pache, sindaco di Parigi, Chaumette, procuratore-sindaco, un ometto grassoccio, rubicondo e accurato, figlio d'un calzolaio di Nevers, educato nel collegio della città natale, grazie alla protezione d'un gran signore, a volta a volta monaco, marinaio, scrivano,

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