PER IL GENIO FRANCESE, il XVII secolo era stato un'epoca di pieno splendore.
L'uomo esemplare, prototipo di questa epoca, è un essere cosciente e riflessivo, che sa frenare i propri istinti e le proprie passioni e sottoporsi ad una superiore regola d'ordine ed' armonia. Egli si fida ben poco delle astrazioni individuali, dei capricci del sentimento, degli atti istintivi, di tutto ciò che è oscuro e indefinito, di tutte quelle forze incoscienti, insomma, che oscurano gli spiriti più limpidi, come l'ombra d'una nuvola sulla superficie d'uno stagno. Conoscendo le proprie debolezze, egli non fonda la morale e la scienza nei propri desideri. Vuole, anzitutto, la gerarchia e la disciplina, e si gloria di sottomettersi all'esperienza, alla logica, alla tradizione, che è esperienza accumulata. E' cristiano e conservatore. Ha in orrore i disordini e le rivoluzioni. Ama l'universale e l'eterno. Si compiace di ritrovare le stesse eterne verità, immutabili attraverso tutti i tempi e tutti i paesi, sotto tutte le mode e tutte le apparenze. Egli ha il bernoccolo dell'organizzazione, la mente equilibrata, l'amore del vero e il senso della realtà.
Per cinquant'anni la Francia s'ammira in Luigi XIV, poiché egli è ragionevole, moderato, esatto, metodico, padrone di sé, e i suoi sentimenti sono nobili, la sua vita gloriosa e ben condotta. Lo stesso ideale ispira tutto il secolo. Colbert e Vauban lo esprimono con la stessa forza di Racine. Poussin e Bossuet. Un discorso di
Bourdaloue, una lezione d'Hugues di Lionne, portano l'impronta di questo ideale come il Louvre, Versailles e le commedie di Molière. E per lui la Francia ebbe la signoria nel mondo, raccogliendo il meraviglioso retaggio di Atene e di Roma.
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In verità, il dramma del XVIII secolo non è nelle guerre o nelle giornate della Rivoluzione, ma nella dissoluzione e nel capovolgimento delle idee che avevano illuminato e dominato il XVII secolo. Le sommosse e i massacri ne saranno soltanto l'aspetto clamoroso e sanguinoso. Quando si verificano tali avvenimenti, il vero male ha già raggiunto il suo acme, e da molto tempo.
Lo spirito rivoluzionario è vecchio quanto la società. Ma neppure la forma che assunse verso il 1750 si può considerare una novità. In ogni tempo, i poeti si sono compiaciuti d'immaginare paesi incantati nei quali uomini puri di cuore vivono fraternamente, in mezzo ad un'accogliente natura, e i moralisti si sono serviti dello stesso espediente per catechizzare i loro contemporanei e rimproverar loro i difetti.
Ma fin qui non è che burla o esercizio retorico. Perché queste fantasticherie si mutino in principii, perché queste facezie degenerino in rivolta contro le conquiste della civiltà, occorrerà che esse siano infiammate dalla passione religiosa.
La Riforma fu una prima esplosione dell'individualismo distruttore e del
sentimento repubblicano. Le grandi questioni intellettuali e sociali, anzi che essere risolte in comune e con i modi tradizionali, cominciarono a essere elaborate nel segreto dei cuori e nell'isolamento delle coscienze. Le vaghe aspirazioni di ogni individuo divennero per essa verità e dio. L'attività organizzata degli aggruppamenti naturali, le loro abitudini di disciplina religiosa ed estetica svanirono di fronte alle iniziative singole di ciascuno dei loro membri. Questo fenomeno si chiamò
"redenzione" (affranchissement). Là dove la Riforma trionfò nella sua forma più pura, quella luterana, non vi fu in realtà se non anarchia, e quando il periodo della fermentazione fu compiuto, rimase un enorme spezzettamento territoriale e
un’irrimedicabile disgregazione morale.
L'unità francese fu salvata, e con essa il Re. Il classicismo trionfante, Pascal, Descartes, Bossuet, La Bruyère basano le loro teorie del diritto e dello Stato sul concetto monarchico. Sembra che nulla turberà mai questo equilibrio e questo accordo. Pur nondimeno, la mistica rivoluzionaria non è morta. Essa ispira le tirate dei libertari contro la memoria e la ragione che hanno corrot-
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to la natura e hanno tolto all'uomo il piacere e il senso della pura gioia. Essa solleva i libellisti protestanti, che dall'Olanda e dalla Germania inondano la Francia e
l'Europa dei loro libelli. Essa corrompe con le sue chimere uno degli spiriti più delicati e brillanti del secolo; Fénelon.
Luigi XIV si era preso la briga di scrivere per i figli una specie di Manuale del perfetto Sovrano, in cui egli s'adoperava a far loro sentire la maestà della loro condizione, affinché attendessero ai loro doveri con serenità e con amore.
Precettore dell'erede al trono, Fénelon, invece, si adopera a suscitarne in lui il
disgusto. Il Telemaco è un'untuosa critica di tutti i principi monarchici: «Il mestiere di Re è grande, nobile, delizioso ...», aveva scritto Luigi XVI. «Qual follia», dice Fénelon, «mettere la propria felicità a servizio dei propri sudditi... O insensato colui che aspira al Trono! Beato colui che si limita a vivere la vita privata e pacifica in cui praticare la virtù gli è meno difficile ... Rifuggi dunque, figlio mio, rifuggi da una condizione così pericolosa ... È una schiacciante schiavitù ...».
Gli uomini di Stato, che dopo la Fronda avevano riflettuto sulla struttura e sulla solidità dei governi, avevano riportato dai loro esame un'istintiva sfiducia nella bestia umana, e poiché essi "non avevano paura delle parole, non avevano esitato a dire che, per domarla, occorre la forza, e che, in definitiva, la forza è il cemento di ogni società. «Non dimenticherò mai», racconta d'Argenson, «ciò che il mio defunto padre mi disse la prima volta che mi permise di ragionare Con lui
dell'atteggiamento del Parlamento contro l'autorità reale. A tutto quello che gli esponevo intorno alle ragioni, agli argomenti e alla vivacità del Parlamento, egli rispose soltanto; "Figlio mio, il vostro Parlamento ha truppe? Per conto nostro, abbiamo 150.000 uomini. Ecco tutto!"», Fénelon non si cura di questi spiriti positivi e freddi. Sorvolando difficoltà e obiezioni, con un diluvio di effusioni
ottimiste, egli afferma impassibile: «Quando parlano la giustizia e la virtù, calmano tutte le passioni... Tutti i popoli sono fratelli, e come tali debbono amarsi...»
Il re di Fénelon è al tempo stesso condannato alla 53
ghigliottina e assunto in cielo, dopo aver fatto, con la mano sulla coscienza, la disgrazia dei propri sudditi e condotto il popolo alla rovina e all'anarchia. Ma non era ancora il tempo di Fénelon. Il saldo buon senso di Luigi XIV, una polemica di Bossuet, meravigliosa per dialettica ed eloquenza, bastarono a smorzare l'incendio che stava per divampare. Le poche fiammelle che continuarono a volteggiare qua e là, non appiccarono fuoco a niente. Occorreranno i viaggi a Londra di Montesquieu e di Voltaire per riattizzare la predicazione individualistica e rivoluzionaria, e questa volta sul serio.
Dell'Inghilterra, Montesquieu e Voltaire riportarono un quadro che ci stupisce.
L'isola "tetra e turbolenta dei regicidi", la nazione intollerante, avida, ambiziosa, che aveva organizzato la persecuzione religiosa sotto la forma più fredda e implacabile, quella amministrativa non esisteva per loro; al suo posto c'era soltanto una Salento liberale, illuminata, popolata di eruditi e di pensatori, degna di fornire al mondo modelli di civismo e di virtù.
Fu questo il punto di partenza di una critica di particolari, divertente per le
seduzioni che presentava, sconcertante per la sua puerilità e il suo semplicismo. Gli abusi sicuri e le ingiustizie riconosciute non vi sono trattati in modo peggiore dei principii e delle istituzioni di cui vivono e vivranno tutte le società. Con una barzelletta: un sorriso o un epigramma, tutto è. condannato alla rinfusa e senza.
appello. Per questa sommaria esecuzione, si crea un nuovo personaggio, un
immaginario selvaggio che rappresenta la natura ingenua, adorna di tutte le grazie e di tutte le raffinatezze delle civiltà millenarie. Il suo ufficio è di stupirsi
continuamente e di usare tutte le risorse di uno spirito colto, educato e raffinato, per rendere assurde, ridicole e nocive la raffinatezza, l'educazione e la cultura.
Per quarant'anni, la Francia fu piena di questi Irochesi molto parigini, di questi Persiani molto civili, di questi ingenui senza ingenuità. Con le loro dotte ironie, con i loro paragoni spregevoli, con le loro finte meraviglie, essi giunsero a turbare gli spiriti, a gettare il dubbio e l'inquietudine in quelli più solidi, a far prendere per attentati o usurpazioni i diritti più comuni, - e per istituzioni nuove, inquietanti e illegittime gli ordina-
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menti che da secoli ci si gloriava di rispettare e servire.
A cagione di questo sconvolgimento la letteratura germanica, la cui azione era stata interrotta dopo la Riforma, penetrò naturalmente da noi.
Come ha osservato Luigi Reynaud, di cui mi limito qui a citare e a riassumere i notevoli lavori, gli uomini del secolo XVII riconoscevano alla Germania filosofi ed eruditi, ma si erano sempre mostrati molto riservati riguardo ai poeti e agli scrittori che essa si attribuiva in quantità. Nella poesia, nell'arte, nelle belle lettere, c'era qualche cosa che sembrava loro non accordarsi con ciò che essi sapevano di questa nazione. Nei suoi Colloqui d'Aristide e d'Eugenio, un uomo di gusto e di dottrina, padre Bonhours, faceva sostenere a uno dei suoi personaggi che era quasi
impossibile a un tedesco fare dello spirito.
Il genio tedesco è nell'ordine intellettuale essenzialmente individualista: «La lingua è attrezzata per assicurare alle forze recondite la loro completa espressione a spese degli elementi razionali. I termini vi abbondano per designare i fenomeni dei sensi e le emozioni; il chiaro e franco vocabolario delle idee le fa difetto. Alzata e abbassata a volta a volta con toni di variabile intensità, raccolta intorno a qualche termine energicamente pronunciato, la frase ha una natura costantemente patetica. Il tedesco, messo di fronte ad un uomo riflessivo, padrone di sé, che si muova con disinvoltura Della vita pratica, si trova disorientato. Dategli, viceversa, un essere elementare e rozzo, un pazzo, un maniaco, un individuo in preda alla febbre dei sensi: egli lo comprenderà e lo descriverà alla perfezione. Per la sua intima
costituzione, il Tedesco è loro prossimo parente. La sua intelligenza è imprigionata nelle confuse emozioni della carne e compenetrata di esse da tutti i lati». Lo spirito
francese, respingendo la potenza della ragione, adottava, al tempo stesso, la formula di pensiero dei popoli germanici.
I Tedeschi ne ebbero la sensazione subito. Mentre le opere inglesi s'introducevano in Francia soltanto per intercessione dei Francesi (abate Prévost e Voltaire), i Tedeschi organizzavano da loro stessi la propaganda, e uno di essi, Grimm, s'incaricò di rivelare ai sudditi di
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Luigi XV i meriti letterari della sua patria. Nell'ottobre del 1750, il Mercurio di Francia pubblicava una prima lettera di lui, subito seguita da una seconda nel
febbraio del 1751. Con ogni sorta d'inchini e complimenti, Grimm osava proclamare che la letteratura tedesca poteva reggere il confronto con la letteratura francese, e che se essa non aveva raggiunto la fama della vicina, ciò era dovuto al fatto che le erano mancati una Parigi e un Luigi XIV. Ma il suo turno sarebbe certamente venuto, anzi era molto vicino.
Il varco era aperto: per la breccia passarono articoli, grammatiche e traduzioni. Un altro tedesco, Michele Huber fu l'organizzatore dell'invasione. Pieghevole,
conciliante, cortese, parlando a volta a volta il linguaggio della filosofia e quello della religione, con la mano al cuore, sciorinando massime edificanti, condusse in modo molto sicuro i destini della letteratura teutonica. Direttore del Giornale straniero, autore di una voluminosa raccolta di poesie tedesche in quattro volumi, ebbe la grande abilità di offrire al pubblico francese soltanto dò che corrispondeva ai suoi gusti: argomenti idilliaci, sentimentali e moralizzatori. Si attirò la
benevolenza di Fréron e dei suoi seguaci, rassicurati da tale copia di dichiarazioni di virtù. Ottenne l'entusiastico appoggio della più turbolenta frazione del partito
filosofico, con alla testa Rousseau e Diderot. Rousseau era certamente troppo capriccioso per far la parte del gregario, ma egli spinse i suoi amici. Come avrebbe potuto restare indifferente? Si trattava del suo misticismo naturalistico che
ritornava per un'altra via.
Tutta questa carta stampata è per noi una lettura ben noiosa. A quei tempi
appassionava. Uno scrittore molto mediocre, Gessner, che era appena conosciuto dai suoi compatrioti, ebbe a Parigi un successo enorme, che si prolungò inalterato per dieci anni. La sua prima opera: La morte di Abele, tradotta nel 1759 da Ruber e Turgot, andò a ruba. Le altre sue opere venivano portate alle stelle e giudicate capolavori. Vi si ammirava freneticamente la natura nuda, quella natura cordiale e pura che l'orribile civiltà aveva per tanto tempo celata: fertili campi, i quali,
nonostante nessuno li lavori, producono una messe generosa; tortorelle su tutti gli 56
alberi per la delizia degli innamorati; fiori che non appassiscono; uccelli che
gorgheggiano senza mai stancarsi: bestie modello tutta lana e burro; vecchi pieni di esperienza e di saggezza; ragazzi sottomessi e affettuosi; ragazze d'un candore stupefacente, che rivolgono alle loro madri le più commoventi domande sull'amore
e sul matrimonio; qua e là si trova, sì, qualche traviato, delinquente occasionale, ma è lacerato dai rimorsi e si convertirà, versando torrenti di lacrime, al primo sermone patetico che gli sarà dato d'ascoltare: «Un poeta, lungo le rive del Reno», scrive Dorat, «è, a ben considerare, l'uomo della natura. Egli respira soltanto per
studiarla, e la studia soltanto per descriverla. Egli non conosce né il fiele, né l'odio, né gli artifici dell'ambizione, né i furori della gelosia; egli non scrive soltanto per essere notato dagli uomini; egli scrive per renderli migliori, per farli continuamente specchiare in immagini virtuose ...»
I progressi scientifici e pratici verificatisi nel corso del secolo favorirono questi traviamenti. Non che la scienza abbia mai dato qualche consistenza al mito della natura felice pervertita dalle leggi umane, e neanche si può dire che gli scienziati e gli inventori siano stati, tralasciando d' Alembert, settari in filosofia; ma la visione di tante macchine sconosciute, la rivelazione di tante nuove scoperte inebriarono i profani e i letterati, e, abbagliati com'erano, essi ne trassero la convinzione di vivere in un secolo straordinario, e che tutto quello ch'era stato detto e scritto prima di loro non contava ormai più niente, quindi ogni mente illuminata doveva
distinguersi col disprezzare tutto ciò che in precedenza era stato fatto.
Invano Taine si è affannato a dimostrare che Voltaire, Diderot, Rousseau e
compagni erano veri scienziati. Voltaire aveva il genio della volgarizzazione, ma il suo laboratorio di Cirey era una mera fantasia di Madame du Chatelet, che avrebbe installato sulle sue rovine un'officina metallurgica o una cappella, se fosse stata di moda la metallurgia o la religione. Le esperienze di Montesquieu fanno sorridere: la più importante consisteva nel tuffare nell'acqua la testa di un'oca e nel contare in quanto tempo sopraggiungeva la morte
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della povera bestia. Per quanto riguarda Diderot, e Rousseau, il primo era un semplice autodidatta confusionario, e il secondo aveva una ben scarsa cultura.
Il vero pensiero scientifico, obiettivo, prudente, senza vanità, è in contraddizione quasi assoluta con l'atteggiamento filosofico del 1750. Per la scienza, le ipotesi sono soltanto delle costruzioni provvisorie che permettono di raggruppare un certo numero di risultati sperimentali. L'esperienza resta sovrana. Nessuna teoria, per quanto seducente possa essere, si sottrae alla sua indagine. Viceversa, i filosofi non seguirono mai questo metodo di sottomettere il soggetto all'oggetto. Invero, essi non lo avrebbero potuto fare senza condannare se stessi. La sentimentalità declamatoria, alla quale essi si abbandonavano, non li rendeva certo adatti
all'osservazione e sensibili all'esperienza. Alle constatazioni tanto sensate e solide del Buffon sulla formazione delle rocce sedimentarie, Voltaire oppose argomenti d'una stupefacente puerilità, e se egli si compiacque di riprodurre le esperienze dello Spallanzani sulle lumache, lo fece soltanto per lanciare un libello contro i monaci e la religione, dal titolo Le lumache del reverendo L'Escarbotier.
Il padre L'Escarbotier, predicatore e cuoco del grande convento di Clermont, scrive a padre Elia, carmelitano scalzo e dottore in teologia:
«Qualche tempo fa non si parlava d'altro che dei gesuiti ed ora non si parla che di lumache, ogni cosa a suo tempo; ma è certo che le lumache dureranno più a lungo di tatti i nostri ordini religiosi, poiché è evidente che se si tagliasse la testa a tutti i cappuccini e a tutti i carmelitani, essi non potrebbero più accogliere novizi, mentre una lumaca alla quale si sia tagliato il collo, in capo ad un mese mette fuori una nuova testa ... Il 27 maggio, alle 9 del mattino, essendo il tempo sereno, tagliai la testa interamente con le sue quattro antenne, a 20 lumache di color bruno e a 12 chiocciole. Inoltre a 8 chiocciole tagliai la testa fra le antenne.
«In capo a 15 giorni, 2 lumache mostrarono una testa nascente e cominciarono a mangiare, mentre le loro 4 antenne prendevano a spuntare ... Spesso ho parlato di ciò nelle mie prediche, e non ho potuto che paragonarle a San Dionigi, il quale, essendogli stata ta-
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gliata la testa, la portò in braccio per due leghe, baciandola teneramente. Ma se la storia di San Dionigi ha una verità teologica, la storia delle lumache ha una verità fisica, una verità palpabile, che tutti possono constatare con i loro occhi.
L'avventura di San Dionigi è il miracolo di un giorno, quella delle lumache il miracolo di tutti i giorni...».
Tutto ciò è senza dubbio molto divertente, ma nulla ha a che vedere, come dice il Taine, parlando precisamente di questa buffonata, con le ricerche del vero
scienziato.
Quanto a Diderot, egli non seppe esprimersi che con una stoltezza, a commento delle mirabili ricerche di Réaumur sugli insetti: «Cosa penserà di noi la posterità, se non avremo da lasciarle che una immensa Storia di animali microscopici? Ai grandi ingegni grandi oggetti, ai piccoli ingegni piccoli oggetti». Fréroh ha qualificato
«sconveniente», quel giudizio, ed aveva ragione.
In realtà, i filosofi esaltarono ciecamente, e senza averne esatta cognizione, le conquiste scientifiche del loro tempo, in quanto essi ne potevano trarre argomenti contro la tradizione, il cattolicesimo, la storia e l'autorità costituita, ma rivolsero la loro attenzione in modo serio e costante soltanto alle scienze più astratte, come la matematica pura e la meccanica celeste, delle quali applicarono il metodo di
deduzione nel campo politico e sociale, dove era ancor più fuori luogo pel fatto che essi volevano premettergli il postulato della bontà naturale dell'uomo, che non ha alcun carattere di evidenza.
Dal 1751 al 1772, l'Enciclopedia riunì contro il comune nemico tutte queste idee e tutte queste aspirazioni: critica della Monarchia e delle sue basi teoriche, ateismo, sensismo, elogio del XVIII secolo, considerato come il secolo illuminato e
apportatore di progresso, liberalismo economico, disprezzo della civiltà, apologia di
un preteso stato di natura nel quale tutti gli uomini avrebbero dovuto essere uguali nei diritti e nelle proprietà, e, infine, studio particolareggiato ed esteso delle
macchine e dei mestieri. A quest'ultima parte, la meglio riuscita e la più utile, erano annessi undici volumi di tavole che servivano per coprire il resto. Si può dire che essa promosse il successo dell'opera.
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Rousseau non amava gli enciclopedisti. Costoro avevano toccato la sua vanità, e certe loro teorie gli ripugnavano. Peraltro, egli concordava con essi sulle basi della dottrina, e, in definitiva, fu il suo genio a imprimere alla mistica rivoluzionaria tutto lo slancio e la forza propagandistica.
Nato disgraziato, senza famiglia, senza amici, pervertito fino al midollo dalle sue prime avventure femminili, divorato da una foga inquieta, che verso la fine lo porterà alla pura follia, egli proveniva da Ginevra, uno dei centri della Riforma,
«dove da due secoli si agitavano fermenti di dissoluzione». Egli troverà accenti di respiro e bellezza stupefacenti per proclamare i suoi furori, le sue rivolte, le sue inquietudini, il suo bisogno di distruzione. Ed è un triste spettacolo vedere
quest'uso delle più belle e potenti espressioni della lingua e della lirica rivolto alla celebrazione di un'anima tanto sordida.
Ma Rousseau non si limita agli anatemi, ai rimproveri, alle invettive. Egli getta le basi della futura società che permetterà agli uomini il libero esercizio dei loro diritti
Ma Rousseau non si limita agli anatemi, ai rimproveri, alle invettive. Egli getta le basi della futura società che permetterà agli uomini il libero esercizio dei loro diritti