CI SONO PERIODI nei quali la calamità e i pericoli pubblici fanno comprendere al popolo l'utilità di un comando. Dimenticato, però, il pericolo e riparato il male, questo sentimento scompare.
Desiderata dopo la Fronda per i suoi benefici, salutata con entusiasmo nel 1661, l'autorità riusciva già gravosa nel 1715, prima d'esser trattata come tirannide nel 1789. Ciò non vuol dire che essa fosse più vessatoria o più costosa, ma soltanto che era invecchiata. Il paese, abituatosi ad averla, non se ne rendeva più conto, e
riteneva naturali e spontanei l'ordine e la tranquillità, che venivano invece mantenuti con cure continue, impazientendosi per la soggezione che ne era il prezzo.
Appena Luigi XIV chiuse gli occhi, le agitazioni rinacquero tra quelli che, per la loro stessa posizione, son gli avversari dichiarati del potere regio: i nobili e i corpi privilegiati. Essendo potenti per conto loro, essi beneficiano molto più della semianarchia dello Stato, della quale si atteggiano a capi o almeno a poteri
indipendenti, anziché dell'esistenza di un'autorità unica e forte, che, mantenendo
l'ordine e la giustizia, rende inutile la loro tutela, porta loro via clienti ed influenza, e costringe essi pure all'obbedienza. Liberati dalla sorveglianza reale, costoro si gettarono su tutto ciò che il regno aveva loro interdetto, e fecero proprie con gioia le teorie libertarie che cominciavano a circolare in sordina.
Queste teorie erano seducenti, e avevano tutta l'aria d'esser innocue. Solleticavano la vanità, senza, d'altra parte, minacciare gl'interessi. In queste condizioni, che cosa ci poteva essere di più piacevole d'un viaggio nel mondo delle nuvole in compagnia di una guida spirituale e cortese?
69
Nelle feste brillanti dell'alta società, la conversazione rappresenta il pezzo forte, e senza filosofia essa sarebbe insipida! La filosofia ci mette un tono di piccante, d'ironico, di paradossale, di pungente, di audace, di sarcastico. «Nessun pranzo, nessuna cena dove essa non trovi posto», dice Taine. «Ci si trova a tavola circondati da un lusso delicato, in mezzo a donne sorridenti e ingioiellate, accanto a uomini istruiti e cortesi, in una società scelta, dall'intelligenza pronta e dal tratto spigliato.
Dopo la seconda portata, la conversazione esplode, l'arguzia zampilla, gli spiriti s'infiammano e sfavillano. Si può far a meno, alle frutta, di metter in burla gli
argomenti più seri? Verso il caffè, si arriva al problema dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. Per immaginare quest'audace e seducente conversazione, basta leggere la corrispondenza, i trattatelli, i dialoghi di Diderot e di Voltaire, che sono quanto vi ha di più vivo, di più fine, di più piccante e profondo ad un tempo nella letteratura del secolo: per quanto ciò non sia che un relitto, un frammento.
Tutta questa filosofia scritta fu detta, parlata con l'accento, la foga, l'aspetto
inimitabile dell'improvvisazione, con i gesti e l'espressione cangiante della malizia e dell'entusiasmo; e quantunque oggi fredda scrittura, essa entusiasma e seduce ancora: che dire quando usciva viva e vibrante dalla bocca di Voltaire e di Diderot?».
Nel XVII secolo, gli scrittori erano stati trattati con la più grande distinzione dalla Corte e dalle autorità municipali. Ma non si pensava che essi avessero una missione da compiere, ritenendosi piuttosto che le lettere potevano essere soltanto un
gradevole diversivo, nel quale lo spirito si diletta liberamente, senz'altra
preoccupazione se non quella di piacere al pubblico, ispirandosi agli eterni modelli tramandatici dagli antichi. Nel XVIII secolo, la letteratura agnostica lascia il posto alla letteratura polemica, ambiziosa e pugnace. Gli scrittori diventano riformatori professionali, ma nel loro nuovo compito traggono vantaggio dal rispetto e
dall'ammirazione di cui sono stati circondati i loro predecessori. Commensali ambiti e signori dei salotti, adulati al di là di ogni immaginazione, essi sono i maestri spirituali dell'aristocrazia raffinata ed elegante. Quante
70
graziose testoline incipriate s'inebriano di teorie che le faranno rotolare nel paniere di Samson!
Appena uscito dal collegio, Voltaire ebbe per protettore un uomo molto noto, il marchese di Caumartin, ex intendente di finanza e consigliere di Stato. Costui lo presentò al priore maggiore di Vend6me. Voltaire stringe amicizia col presidente Hénault, col maresciallo di Villars, col presidente di Maisons, col marchese d'Ussé.
Seduto a mensa dal principe di Conti, scrittore di versi egli pure, Voltaire osa
chiedergli: «Siamo principi o poeti?». La sua lite col cavaliere di Rohan e il viaggio a Londra non gl'impediscono d'essere nominato gentiluomo ordinario di camera, né d'essere ricevuto a Corte in tale qualità.
Nel 1747, trovatosi a giocare in presenza della Regina, vedendo che la sua amica madama Du Chatelet aveva perduto un'enorme somma, ottantaquattro mila lire, le disse ad alta voce, in inglese, che ella giocava con dei farabutti. Il suo insulto fu capito, e poiché egli non era molto coraggioso, se ne fuggì a Sceaux, presso la vecchia duchessa di Maine, figliastra di Luigi XIV. Egli se ne stava chiuso nella sua camera, con la finestra sprangata, e lavorava alla luce delle candele. «La notte», racconta Enrico Carré, «verso le due, dopo che la duchessa aveva congedato i propri ospiti e se ne era andata a letto, egli scendeva nella stanza di lei; un servo, che era a parte della cosa, montava una tavola fra il letto e il muro e gli serviva la cena». La duchessa gli narrava gl'intrighi del regno di Luigi XIV, ed egli le leggeva in cambio il racconto o il romanzo che andava scrivendo.
Quando egli prese stanza a Ferney, la situazione si aggravò. Le più grandi
personalità del Regno, Choiseul e Richelieu fra i primi, mendicavano i suoi favori e subivano i suoi rabbuffi. Il ritorno a Parigi nel 1778 provocò un vero delirio.
La vita di Rousseau è nota. Ex-cameriere, licenziato per furto, amante, sedicenne, di una donna di trent'anni che divideva i propri favori fra lui e il giardiniere, scacciato dal signor di Mably, che l'aveva assunto come precettore e del quale egli
saccheggiava la cantina, amante di una governante, Teresa Levasseur, con la quale vi-
71
veva presso un'altra protettrice, la signora d'Epinay, affetto da mania di
persecuzione, già pazzoide prima di diventar pazzo del tutto, egli è l'idolo dell'alta società. Il principe di Conti gli scrive lettere piene di traboccante affetto. La signora di Lussemburgo gl'invia, un giorno, un biglietto del seguente tenore: «Vi sono sinceramente affezionata; mio marito vi abbraccia con tutto l'affetto dal profondo del cuore». E un'altra volta il signor di Lussemburgo così gli scrive: «Non siete voi che dovete inchinarvi davanti a me, ma io che debbo farlo davanti a voi». Quando il Rousseau ha qualche incidente con la polizia, tutta l'alta società si precipita per favorirgli la fuga. Quando egli sloggia, tutti vanno a gara nell'offrirgli la casa, a lui, a Teresa, alla madre di Teresa: «Avrete le chiavi della mia biblioteca e dei miei
giardini», gli scrive il principe di Ligne, «potrete piantare, seminare; potrete fare ciò che vi aggradirà ...».
Alla fine del regno di Luigi XVI, tutti si recano alla tomba di Rousseau come ad un pellegrinaggio. «Mezza Francia s'è recata a Ermenonville per visitare l'isoletta che è dedicata alla sua memoria», narra un novelliere. «La Regina e tutti i principi e le principesse ci sono andate esse pure la settimana scorsa. E mi è stato riferito che l'augusta famiglia s'è intrattenuta più d'un'ora all'ombra dei pioppi che circondano la tomba ...».
Nel XVII secolo, i nobili erano stati messi in ridicolo, ma soltanto a causa dell'l loro pretenziosità e delle loro piccinerie. Nel successivo, invece, vengono colpiti
nell'onore, nella ricchezza, nei diritti, nella loro stessa vita. E sono essi stessi che incoraggiano i loro aggressori, li accarezzano, ne creano la fama, a volte li
mantengono, come il conte d'Artois e il principe di Condé mantenevano Chamfort, il quale, per tutta riconoscenza, invitava il popolo a sterminare la nobiltà e trattava da "stupidi" i cortigiani e da "prostitute" le dame titolate.
Nel 1765, Orazio Walpole, trovandosi di passaggio a Parigi, si stupiva di quest'incoscienza: «Il riso è giù di moda come il gioco dei burattini o quello dell'ometto sempre ritto. Queste brave persone non trovano più il tempo di star liete, hanno troppo da fare: debbono
72
detronizzare Dio e il Re; singolarmente e collettivamente, uomini e donne si son messi d'impegno a quest'opera di demolizione». Una signora, alla quale egli aveva nominato Voltaire, gli rispose con disprezzo: «È un bacchettone, crede
nell'esistenza di Dio».
Nel 1771, dopo l'abolizione del Parlamento, tutte le riunioni e i ricevimenti erano divenuti, secondo quando scrive Besenval, «Stati Generali in miniatura, dove le donne, in funzione di legislatori, stabilivano canoni sociali e dissertavano con
spigliatezza sulle massime del diritto pubblico». Non scriveva, forse, una di codeste innovatrici, la signora di La Mark, che: «il potere assoluto e una malattia mortale», e che «le azioni dei sovrani sono giudicate dai sudditi»?
Il conte di Ségur, nelle sue Memorie, ci ha lasciato un quadro esatto e giudizioso di questa follia: «Quanto a noi, giovane nobiltà francese, senza rimpianto del passato né inquietudine per l'avvenire, si camminava su un tappeto di fiori che nascondeva un baratro. Si rideva delle antiche usanze, dell'orgoglio feudale dei nostri padri e del loro complicato cerimoniale; tutto ciò che sapeva d'antico ci sembrava mortificante e ridicolo. La serietà delle antiche dottrine ci pesava ... Qualunque fosse la sua veste, la libertà ci seduceva per la sua audacia; l'uguaglianza, per la sua comodità. Si
prende gusto a discendere, finché si crede che sarà facile risalire appena si voglia, e con disavvedutezza noi godevamo, al tempo stesso, i vantaggi del patriziato e le dolcezze di una filosofia plebea. In tal guisa, quali si fossero i nostri privilegi, i resti della nostra antica potenza che ci minavano sotto i piedi, questa guerriglia ci
piaceva; senza provarne i colpi, noi ne vedevamo lo spettacolo. Poiché il
rivestimento dell'edificio rimaneva intatto, non ci accorgevamo che lo andavano
minando di dentro, e ridevamo dei gravi allarmi della vecchia Corte e del clero, i quali si lanciavano contro questo spirito d'innovazione, mentre noi applaudivamo, invece, le commedie repubblicane dei nostri teatri, i discorsi filosofici dei nostri accademici, le audaci opere dei nostri letterati ...». È necessario ricordare, per completare il quadro, la prima rappresentazione delle Nozze di Figaro del 27 aprile 1784. Tutta la Corte vi assisteva. Dalle undici
73
del mattino, la duchessa di Barbone aveva inviato alcuni valletti a far la coda allo sportello, che si apriva soltanto alle quattro pomeridiane. Dame dell'aristocrazia con le figlie presero posto in piccionaia, e tutti questi nobili applaudivano
clamorosamente le tirate contro la nobiltà: «Vi credete un gran genio? Che avete fatto per meritarvi tanta fortuna? Vi siete soltanto degnato di nascere …»
Si dice che la danzatrice Guimard abbia detto: «Non credevo che fosse così divertente vedersi impiccare in immagine». Quando gli aristocratici acclamano coloro che li impiccano in immagine, è prevedibile che non passerà molto tempo ed essi saranno impiccati sul serio.
Ma codesti nobili non erano semplici privati. Erano funzionari dello Stato,
magistrati, ufficiali, ambasciatori, ministri. Questa loro filosofia è, dunque, in certo qual modo, un tradimento; difatti, come potranno essi difendere il Re e lo stato monarchico, se sono persuasi che il miglior regime sia la democrazia?
Il duca d 'Orléans, cugino del Re, è gran Maestro della Massoneria. Nell'esercito ci sono venticinque logge militari, in seno alle quali ufficiali e soldati fraternizzano nel culto dell'uguaglianza. Nella loggia Unione dell'arma di artiglieria, il venerabile è un sergente, mentre il colonnello, marchese di Havrincourt, non è che un semplice delegato del Grande Oriente ... L'immensa maggioranza dei giudici, alcuni
intendenti, molti funzionari appartenevano al partito filosofico e frequentavano le associazioni intellettualistiche. L'Accademia francese è interamente composta di filosofi, e dal momento in cui d'Alembert viene nominato segretario perpetuo, non vengono più ammessi nel suo seno indipendenti. Quando Turgot diviene ministro, tutti fanno ressa, ed egli deve collocare Dupont di Nemours, Morellet, di Vaisnes, Condorcet, Suard, e far entrare nello stato maggiore il conte di Guibert, amante della signorina Lespinasse.
Prendiamo, come esempio particolarmente tipico, quello del signor Malesherbes, direttore della biblioteca.
Sotto l'antico regime, il direttore della biblioteca era incaricato di controllare la pubblicazione, il commercio e la circolazione di qualunque stampato. Egli esamina- 74
va i manoscritti delle opere, e poteva interdire la pubblicazione di quelle che, a suo parere, fossero contrarie ai buoni costumi o pericolose per l'ordine sociale. Vigilava i confini, e teneva a bada le stamperie clandestine. Ordinava il sequestro dei libri e
dei giornali messi in vendita o distribuiti senza essere stati previamente sottoposti alla sua censura, e ne perseguiva i colpevoli e i complici. In un momento in cui una grande offensiva intellettuale si scatena contro la Monarchia, questo posto
rappresenta una carica di prim'ordine, di capitale importanza.
Fino al 1750 fu occupato dal conte d'Argenson, il quale, prendendo sul serio le sue mansioni, istituì, nel 1748, un efficace sistema di repressione. Le frontiere furono chiuse. Vennero ordinati alcuni arresti e operata una serie di perquisizioni che dettero ottimi frutti. Ma ecco che nel bel meglio d'Argenson venne sostituito dal primo presidente della Corte dei sussidi, Malesherbes. Costui, filosofo egli pure, darà ai rivoluzionari impunità quasi completa. Qualche misura di rigore che egli si sarà deciso a prendere, solo per l'apparenza, verrà comunicata, ma «lasciata senza esecuzione», e l'unico risultato sarà quello di fare una clamorosa réclame e una lusinghiera reputazione di martiri ai pubblicisti perseguitati, senza por loro alcun freno o intimidirli, sia pure per un momento.
Uno appresso all'altro, appaiono La lettera sui sordi, di Diderot; i Discorsi di Rousseau; le opere principali di Voltaire; l'Enciclopedia; le miscellanee di
d'Alembert ... Alcuni libri già posti all'indice da d’Argenson, come La storia di Luigi XI di Duclos, vengono ora permessi. La sorveglianza alle frontiere è illusoria. I pacchi di opuscoli sediziosi che i cortigiani si fanno inviare, non sono più perquisiti.
Nei principali palazzi, nelle case dell'Ordine di Malta, nei conventi e negli ospizi religiosi, si creano centri di propaganda. Ve ne sono anche a Versailles, perfino nel Castello. Tutti lo sanno, ma la polizia finge d'ignorarlo.
Malesherbes, vanitoso, credulone, molto sensibile agli omaggi interessati dei letterati, felice di poter vivere nel riverbero della loro splendida rinomanza, non com-
75
prendendo né la portata delle loro opere né la gravità dei propri atti, prototipo del liberale che ha paura di passare per reazionario, si fa in quattro per accendere la rivoluzione e proteggere gl'incendiari.
Egli fa da intermediario fra Rousseau e il suo editore, e gl'invia con un corriere speciale le bozze che avrebbe dovuto sequestrare, e quando il Ginevrino è in rotta col suo solito editore, il Malesherbes si adopera a tutt'uomo per procurargliene un altro.
S'intende che incorrono nei suoi rigori i difensori dell'autorità; Fréron non poté mai ottenere un trattamento di favore per l'Annata letteraria, e, tutti i momenti, il suo giornale era sospeso, poiché egli aveva osato criticare d' Alembert, Voltaire o anche Marmontel. Nel 1758, il Fréron stava, anzi, per esser processato per aver pubblicata la recensione d'un'opera contraria all'Enciclopedia, e gli fu proibito di rispondere agli attacchi ai quali venne fatto segno, con minaccia di sanzioni penali. Nel 1752, Malesherbes toglie dalla circolazione un'opera del padre Geoffray, ostile a Diderot.
Nel 1754, fa biasimare da Bourgelat, suo agente a Lione e collaboratore egli pure
dell'Enciclopedia, il padre Tholomas, che ha osato criticare l'articolo Collegio del dizionario. Palissot, Gilbert, sono sottoposti alle medesime persecuzioni, e ciò sarà la causa della morte di Gilbert.
I filosofi gridavano contro la tirannia, ma la vera tirannia la esercitavano essi ai danni della letteratura. Sentite con qual tono d'Alembert reclamava per i suoi amici la protezione dei poteri costituiti: «Vengo a sapere, o signori, che l'Enciclopedia è tacciata come opera scandalosa dal giornale di Fréron. Va bene che simili giornali e i loro direttori non hanno alcuna importanza, ma questa non è una buona ragione, mi pare, perché essi si permettano tali abusi, né che il censore possa permetterli. Mi parrebbe di mancare verso me stesso e verso tutti i miei colleghi, se non vi rivolgessi questa protesta, decisissimo, del resto, a starmene poi tranquillo, se, per una
disgrazia che non potrò imputare a mia colpa, non ci sarà fatta giustizia. Ho motivo, o signori, di aver fiducia in voi. La vostra equità e l’onore che ho di essere vostro collega me ne rendono
76
sicuro ...». Ed ecco i funzionari del Re correre in aiuto dei nemici del Re!
Moltiplichiamo questo esempio per cento e per mille, e avremo un'idea di quello che fu la politica interna della Francia dal 1750 al 1789; un'abdicazione progressiva, cioè, della monarchia.
Al suo fianco, protetto dalla sua stessa tolleranza, con l'aiuto e la collaborazione dell'aristocrazia, con la complicità e la partecipazione della magistratura, della polizia e dell'amministrazione, si costituì un nuovo potere attivo, audace e
intollerante, il partito filosofico. Questo potere ha le sue organizzazioni costituite dalle associazioni; i suoi capi negli enciclopedisti; il suo portavoce nel Parlamento; il suo esercito nell'avvocatura; le sue grandi manovre nelle lotte politiche imperniate sulle imposte e sulla religione.
I contemporanei si resero perfettamente conto di questa rinunzia, di questa forma di suicidio. Molti di essi lo rivelarono esplicitamente. Non solo Voltaire, che aveva rivolto vari appelli agli enciclopedisti di formare «un manipolo», «una muta», «un corpo d'iniziati» per diventare i «padroni»; ma anche Duclos, il quale dichiara che
«i potenti comandano», ma «gli intellettuali governano»; anche Necker, il quale, dedicando all'opinione pubblica molte pagine del suo Trattato delle finanze, conchiude che «essa regna ormai su tutti», che i principi «la rispettano» e le sono
«sottomessi», che essa «detta legge al comune, alla Corte e financo nel palazzo del Re»; e, infine, il d'Alembert, il quale dice ancor più chiaramente che «l'opinione governa il mondo» e che «i filosofi governano l'opinione pubblica».
Il regno di Luigi XV è travagliato dai contrasti fra i due poteri. Ogni motivo è buono:
i giansenisti, le vigesime, i gesuiti, le strade, le prestazioni, le franchigie provinciali, il contingentamento dei grani fanno scoppiare vere rivolte filosofiche, contro le quali il vecchio governo fiacco. scoraggiato, si dimostra impotente. È certo che l'esercito attaccante manca d'unità. I parlamentari e i filosofi sono ben lungi
dall'andar d'accordo. Per quanto avversari del Papa e del Re, i primi rispettano la religione, e sono molto attaccati ai loro privi-
77
legi di casta, mentre i secondi sono atei ed egualitari. Peraltro, essi si azzuffano durante le tregue, salvo a riconciliarsi subito davanti al nemico e a combattere a fianco a fianco, fraternamente.
Niente di più monotono di queste battaglie, iniziate, condotte e terminate con un metodo sempre uguale, con la stessa audacia e le stesse armi da parte degli
assalitori, e la solita incoerenza e arrendevolezza da parte del ministero.
Le leggi venivano emanate dal Re e dal Consiglio della Corona, ma spettava ai Parlamenti la loro applicazione, il giudizio sulle loro infrazioni, le sanzioni contro coloro che vi contravvenivano. Così i ministri erano obbligati a notificare le leggi ai Parlamenti perché venissero registrate. Sotto Luigi XIV, questa era una semplice formalità di trascrizione, ma, dopo la morte del gran Re, il reggente commise l'imprudenza di rendere alle Corti sovrane il diritto di merito, vale a dire la facoltà di criticare i decreti che venivano loro sottoposti, compresa quella di chiederne l'abrogazione pura e semplice, rifiutando di registrarli. In teoria, tale rifiuto poteva facilmente essere superato, avendo il Re il diritto di non tenerne conto, procedendo egli stesso alla registrazione, in una seduta solenne chiamata «letto di giustizia».
Ma i Parlamenti presero subito l'abitudine di appoggiare la loro opposizione legale e
Ma i Parlamenti presero subito l'abitudine di appoggiare la loro opposizione legale e