L’is lam pl urale.
2. Le associazioni son numerose, organizzate prevalentemente su base etnica o inte-
retnica. A titolo esemplificativo, si rimanda all’elenco dei firmatari del Patto per l’islam
italiano, siglato nel 2017 (www.interno.gov.it/sites/default/files/pa tto_nazionale_per_un_
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anche la seconda generazione, che attraverso l’associazione dei Giovani musulmani in Italia, si fa portatrice di istanze moderate, rappresentando un islam modernista, “buono e integrato”.
Le diverse ricerche sull’islam in Italia (Allievi 2003; Pace 2013) hanno via via messo in luce come quanti si ricono- scono in questa religione si possano collocare lungo una direttrice che va dalla vicinanza culturale all’impegno attivo nell’associazionismo comunitario, passando per posizioni intermedie come quelle della pratica individuale e/o fami- liare e della frequenza assidua della moschea. Le posizioni di fronte alla religione appaiono quindi molteplici e non riconducibili a semplificazioni che tendono a presentare la seconda religione fra gli immigrati (e non la prima né la maggioritaria, come spesso si sente affermare) come portata avanti da fedeli attivi, per nulla scalfiti nell’appartenenza religiosa dagli effetti della migrazione, dall’essere in un am- biente in cui manca (o è ridotta ad ambienti non sempre edificanti, come garage, magazzini nei cortili) la struttura architettonica per la preghiera e i tempi della vita lavorati- va, scolastica e sociale rendono difficile la pratica.
Occorre infine considerare l’eterogenea distribuzione territoriale della presenza immigrata: fattore assai signifi- cativo, non solo dal punto di vista della comprensione di come si modificano i volti delle città, ma anche da quello delle politiche di accoglienza, inserimento e integrazione sociale (Entzinger et al. 2015).
Già solo da questi pochi cenni si comprendono alcuni degli aspetti che, se non giustificano, almeno contribui- scono ai dubbi sulla comprensione di cosa significhi esse- re diventati un pae se di immigrazione. A essi va aggiunto un terzo elemento fondamentale, la rilevante presenza di cittadini comunitari del gruppo dei 13, ovvero dei pae si entrati nell’Unione Europea dal 2004 in poi, che in Italia rappresentano oltre il 30,2 per cento del totale degli stra- nieri residenti (Istat, anni vari).
Va peraltro detto che nel dibattito sull’immigrazione, che spesso si limita al timore verso i “nuovi arrivati” che “rubano il lavoro” e “ottengono le case popolari al nostro posto”, non sempre i protagonisti cui si pensa sono coloro che effettivamente sono giunti in Italia, ma a chi per tratti somatici, lingua e radici culturali e religiose appaiono meno
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“accettabili”. Talora la distinzione che conta non è basata sulla cittadinanza o sulla nazione di origine della propria famiglia, ma fra chi fa o no parte di un “noi” accettato, perché composto di uomini e (soprattutto) donne, spesso capaci di “passare per italiani” per caratteristiche fenotipi- che e magari composto di nuovi fedeli che si pensa possano riempire chiese da tempo svuotate (Ricucci 2017).
Nello scenario tratteggiato, alcuni fenomeni sociali rive- stono particolare importanza. A partire dagli anni Novan- ta si ad esempio è iniziato a guardare ai cittadini stranieri con una speciale attenzione verso la componente minorile, sia per i numeri crescenti, sia per le nuove sfide e questioni che essi ponevano ai diversi contesti locali (dalle politiche di accoglienza a quelle scolastiche, dalle attività nel tempo extrascolastico alle relazioni con genitori ritrovati dopo anni).
Il ricongiungimento o la formazione della famiglia e/o, soprattutto, l’arrivo dei figli impongono il contatto con gli enti socio-sanitari di base, il mondo della scuola, le istitu- zioni del pubblico e del privato sociale che intervengono nei diversi ambiti della socializzazione. Le famiglie si con- frontano con servizi e istituzioni che occorre imparare co- noscere, a partire da norme e consuetudini che definiscono i processi educativi e formativi. Se per i migranti il proble- ma è apprendere elementi di convivenza in uso nei nuovi contesti di vita i nativi, d’altra parte, incontrano (volenti o nolenti) nuovi usi, costumi, tradizioni e sono chiamati a guardare al di là di stereotipi e facili semplificazioni per cui la particolarità di qualcuno diventa la caratteristica di un intero gruppo etnico. Sono percorsi di apprendimento complessi e da non dare per scontati, poiché richiedono di aggiornare le concezioni e alle immagini dell’altro, spesso con conseguenze sui propri ambiti professionali: ripensare, in senso lato, alla cittadinanza in ambienti multiculturali.
Altro fenomeno rilevante coinvolge istituzioni territo- riali, che si confrontano con nuove questioni sulla gestione della convivenza all’interno dei quartieri, delle strutture socio-assistenziali, delle opportunità di assistenza e welfa- re. La convivenza porta con sé tensioni, soprattutto quando avviene all’interno di scenari locali in cui la coesione sociale è difficile. Spesso questi elementi si saldano a fratture fra le generazioni, favorendo fenomeni di emarginazione delle
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fasce sociali più deboli. Questo è il tratto principale della descrizione che la cronaca propone per quartieri “simbolo della multietnicità”, ad esempio l’Esquilino a Roma. In senso più ampio la stabilizzazione di cittadini stranieri e il sorgere di attività artigiane e commerciali, connotate etnicamente (ad esempio negozi di cosmetici, sartorie e agenzie specializzate nell’import-export con una zona geografica, come avviene nel caso cinese) e interetniche, rivolte a una clientela mista (negozi di alimentari, abbiglia- mento, servizi telefonici), trasformano l’ambiente urbano, anche dal punto di vista della sua stessa identità.
Tale insediamento avviene in silenzio: esso si accompa- gna solitamente a proteste dei vecchi residenti che pro- pongono un’appartenenza locale in contrasto all’arrivo “dello straniero” e, per semplificazione, “del criminale”, avanzando richieste di tutela e di sicurezza. Le tensioni interne a specifici quartieri, la svalutazione immobiliare conseguente e la cosiddetta “fuga” degli abitanti e delle famiglie autoctone dalle stesse aree attirano l’attenzione dei media delle autorità locali sulla necessità di predispor- re attività e iniziative volte a ricreare un clima positivo di convivenza sociale. In quest’ottica spesso nascono progetti indirizzati alla cittadinanza per favorire la conoscenza e la comprensione di un fenomeno che in ogni contesto geo- grafico e in ogni epoca storica modifica il tessuto sociale ed economico di sobborghi, distretti, città.
Un ultimo fattore da tenere in considerazione riguarda la trasformazione vissuta negli ultimi anni delle caratte- ristiche dei flussi migratori verso l’Italia, fortemente de- bitrice della recessione economica vissuta dal pae se. La dinamica generale ha infatti visto un rallentamento degli ingressi, che sono percentualmente diminuiti rispetto ai dati del decennio 2000-2010; soprattutto però si sono mo- dificate le motivazioni. Come già avvenuto in altri periodi di crisi occupazionale, aumentano i ricongiungimenti fa- miliari e si riducono (sino in alcuni casi ad azzerarsi) gli ingressi per lavoro; per lo stesso motivo diminuiscono gli immigrati adulti e aumentano proporzionalmente i mi- nori. Anche in questo caso si conferma uno scenario di progressivo aumento e stabilizzazione della componente straniera della popolazione, segnalato dall’aumento dei numeri di residenti stranieri. Allo stesso tempo aumenta-
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no però gli immigrati che ottengono lo status di cittadino
italiano, stimati in oltre 100.000 su base annua3.
Proprio le modalità attraverso le quali cui è possibile di- venire cittadino italiano rappresentano uno dei principali aspetti non ancora pienamente coerenti, almeno dal punto di vista normativo, con uno scenario in cui la presenza immigrata non è più né una novità né una temporanea eccezione. Gli stranieri sono diventati nel tempo parte del- la realtà lavorativa, di vicinato, di quartiere. E ancora più degli adulti, lo sono i figli, presenze importanti non solo nelle scuole italiane, ma nella società in generale. Presen- ze che pongono la questione della revisione dell’attuale dispositivo di acquisto della cittadinanza.
Nel 1992, l’anno del varo dell’attuale legge (n. 91), l’im- migrazione era un fenomeno già noto. Poco tempo prima la legge n. 39/90 (cosiddetta legge Martelli) aveva dato il via alla prima significativa regolarizzazione della presenza straniera, aprendo inconsapevolmente quella che sarebbe diventata una prassi nella gestione del fenomeno.
La norma riconosceva anzitutto la necessità di non rompere il legame con gli italiani all’estero, con un per- corso più rapido e semplificato per i discendenti degli emigranti; al contrario non era centrale la posizione dei minori ricongiunti oppure nati in Italia, che all’epoca non rappresentavano, in effetti, un fenomeno particolarmente rilevante.
Oltre venticinque anni dopo la realtà dell’immigrazio- ne sul suolo italiano si è completamente trasformata, e i cittadini stranieri rappresentano un elemento struttura- le del tessuto produttivo e sociale della penisola. I figli dell’immigrazione irrobustiscono le fasce d’età giovanili, dando una parziale risposta alla crisi demografica (tasso di natalità è al di sotto di quello di sostituzione). La legge sulla cittadinanza è però rimasta la stessa, ancora basata sullo ius sanguinis: semplificando, stabilisce che è cittadino per nascita chi è figlio di un cittadino italiano.
Molte voci oggi sostengono che la concessione della cittadinanza basata sul sangue rispetto al territorio di na-