• Non ci sono risultati.

Assoggettare la forza-lavoro

I molti modi della produzione

2.4 Assoggettare la forza-lavoro

Siamo partiti dall’ipotesi che fin dai primi scritti marxiani sia possibile individuare una traccia di pensiero attorno al problema della soggettività. Abbiamo visto come al loro interno emerga una concezione del soggetto non come fondamento ma come prodotto storico che si costituisce a partire dal suo agire. La soggettivazione – come movimento di produzione della soggettività – è collocata in quel campo di relazioni che è la società civile. Quest’ultima, a sua volta, è determinata dalle forme della produzione. In altre parole, la produzione capitalistica è anche produzione di molteplici soggettività, tra cui quella della forza-lavoro salariata. Per Marx infatti l’essere umano è connotato da un’insieme di potenzialità la cui estrinsecazione è sempre un atto collettivo storicamente determinato. A partire dunque da un’idea di “lavoro come l’atto con cui l’uomo produce se stesso” (MEF p. 171), Marx situa questo soggetto nei processi di assoggettamento al comando del capitalista in quanto possessore di denaro. La compravendita della forza-lavoro quindi si presenta come la porta di accesso a una serie di meccanismi di produzione soggettiva che prendono le mosse dal fatto che il possessore di forza-lavoro ceda ad altri la direzione, il controllo e i prodotti dell’attività del proprio corpo per un certo periodo di tempo.

A riguardo è interessante la distinzione fatta da Didier Deleule e François Guéry (1973) e ripresa anche da Machery, quella tra forza produttrice e forza produttiva. La prima è forza già in atto, la seconda invece solo in potenza. Il soggetto-al-lavoro è pagato in quanto forza produttiva, ciò come insieme di attitudini che possono essere impiegate in un processo produttivo e non come forze già estrinsecate. Il capitalista compra dunque l’uso di qualcosa che è (incarnata in un corpo) ma non ancora completamente (in quanto potenza). Non essendo ancora attualità, le sue potenzialità possono essere altrimenti, sono gestibili e modificabili. A questo servono (tra i vari dispositivi) le norme e la disciplina di fabbrica, le quali non hanno un valore semplicemente prescrittivo ma produttivo, ossia non si limitano a imporre/proibire comportamenti ma a plasmare una soggettività. Marx dunque presenta la produzione capitalistica, ribadiamolo, non solo come produzione oggettiva ma anche soggettiva. Come mostra Machery (2012), una volta venduta a certe condizioni la propria forza-lavoro, il

venditore si “trasforma”: le potenzialità generiche del suo corpo si tramutano in soggetto

produttivo. Soggetto perché ora è qualcosa di definito tramite una relazione di

acquisto/vendita e di dispositivi di produzione/riproduzione che ne determina le condizioni e le forme di vita. Produttivo perché è appunto la produzione (di valore) che lo definisce come soggetto, la sua capacità di trasformare il mondo attorno a sé in qualcos'altro. Scrive ancora Macherey: “nel momento in cui accetta le disposizioni stipulate attraverso il suo contratto di lavoro, il lavoratore subisce una trasformazione quasi miracolosa: cessa di essere il suo corpo in persona, la cui esistenza non è, per definizione, uguale a nessun'altra, e diventa “soggetto produttivo”, portatore di una “forza lavoro” le cui prestazioni, in quanto rappresentano il suo “lavoro sociale”, sono sottoposte a una valutazione comune; e, in questo modo, egli è, in tutti i sensi, assoggettato” (Machery, Il soggetto produttivo, p. 22). La vendita della forza-lavoro è quindi una forma particolare di assoggettamento delle forze vitali e sociali dell’essere umano all’interno di una rete di norme, dispositivi, prassi, ruoli: “il lavoratore, dopo essere entrato nel regime del lavoro salariato, ha cessato di essere la persona che è, con la sua Arbeitskraft individualmente70 costituita e, in senso proprio assoggettato, è diventato l'esecutore di

un'operazione che supera i limiti della sua esistenza particolare: questa operazione è il “lavoro sociale”, che non è più, in senso stretto, o almeno non è più soltanto, il suo lavoro, ma lavoro che deve essere eseguito in condizioni che si sottraggono alla sua iniziativa e al suo controllo” (Machery, Il soggetto produttivo, p. 27).

Cosa vuol dire assoggettare la forza-lavoro ad un modo di produzione capitalistico? È questa la domanda generale a cui risponderemo in quest’ultimo paragrafo, mentre nel capitolo successivo entreremo nello specifico rispetto ad alcune strategie e tecniche di sussunzione. Come sostiene Foucault ne La verità e le forme giuridiche, la società moderna, in quanto società industriale, si basa su una serie di dispositivi che hanno una doppia finalità: estrarre tempo (di lavoro) e trasformare i corpi (per renderli adatti al lavoro). Si tratta di operazioni diverse ma correlate dalla logica di “fare del tempo e del corpo degli uomini, della loro vita, una forza produttiva” (Foucault 1974, cap. 5), esercitate all’interno di specifici spazi di potere.

70 Il punto criticabile della lettura che da Machery dell’assoggettamento al regime del salario è la distinzione fra l’esistenza individuale pre-produttiva e quella sociale una volta divenuti dei soggetti produttivi. Quello che ho cercato di mostrare tramite il concetto di Gattung è che Marx pensa fin da subito il corpo e le forze ad esso connesse come costitutivamente relazioni.

Nel primo caso si tratta di far sì che il tempo di vita si tramuti in tempo di lavoro71, nel

secondo caso invece di trasformare il corpo in una forza produttiva. Come spiega lo stesso Foucault: “la prima funzione di queste istituzioni del «sequestro» è lo sfruttamento della totalità del tempo. […] La seconda funzione delle istituzioni di sequestro non consiste più nel controllare il tempo degli individui, ma semplicemente i loro corpi. […] La prima funzione del sequestro era di sfruttare il tempo in modo che il tempo degli uomini, quello vitale, si trasformasse in tempo di lavoro. La funzione di trasformazione del corpo in forza-lavoro risponde alla funzione di trasformazione del tempo in tempo di lavoro” (ivi). Non è semplicemente una questione di espropriazione del lavoro altrui, ma una problema di ortopedizzazione dei corpi e di gestione biopolitica delle forze produttive72.

Credo che Marx abbia in mente questa duplice natura dell’assoggettamento della forza-lavoro quando nel capitolo V del Capitale presenta la distinzione fra processo lavorativo e processo di valorizzazione. Il primo è il lavoro inteso come processo di scambio fra uomo e natura che si concretizza in forme specifiche tramite singoli lavori; il secondo invece è il lavoro come valorizzazione del capitale, una forma storica particolare di produzione.

Il processo lavorativo è presentato da Marx come “attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali pei bisogni umani, condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana” (C, I, p. 218). A riguardo Marx distingue i fattori oggettivi del lavoro (i mezzi di produzione e la materia prima) dai fattori soggettivi (la forza-lavoro). Il modo di produzione capitalistico, come abbiamo visto nel capitolo I, è quel modo di produzione in cui la tecnica diventa centrale. A tal proposito, Machery evidenzia il fatto che “il macchinismo è un regime di produzione complesso che comprende, accanto a un apparato materiale, gli agenti più o meno qualificati o dequalificati che lo fanno funzionare e che, nello stesso tempo, sono incorporati

71 A proposito, è nota la metafora marxiana del capitale come vampiro che si nutre della vita altrui, ovvero che estrae costantemente lavoro vivo per trasformarlo in lavoro morto. “Soltanto il dominio del lavoro accumulato, passato, materializzato, sul lavoro immediato, vivente, fa del lavoro accumulato capitale. Il capitale non consiste nel fatto che il lavoro accumulato serve al lavoro vivente come mezzo per una nuova produzione. Esso consiste nel fatto che il lavoro vivente serve al lavoro accumulato come mezzo per conservare ed accrescere il suo valore di scambio” (LSC, p. 49).

72 “Si tratta non solo di un'appropriazione o di uno sfruttamento della massima quantità di tempo, ma anche di controllo, formazione, valorizzazione, secondo un determinato sistema, del corpo dell'individuo” (Foucault 1974).

al suo sistema in quanto portatori di una forza lavoro destinata a essere consumata produttivamente” (Machery 2012, p. 28). In altre parole, i fattori soggettivi e oggettivi, anche se sono analiticamente separati, risultano invece profondamente integrati nel processo lavorativo. Detto altrimenti, il corpo umano è corpo artificiale: il mezzo di lavoro diventa suo organo, prolungamento della sua attività nel mondo, estensione e potenziamento dei corpi. L’uso di mezzi di lavoro caratterizza il processo lavorativo specificamente umano tanto che Marx parla di “toolmaking animal” (C, I, p. 214). Il lavoro vivo è dunque corpo-macchina, unione di forza-lavoro e forza macchinica. La tecnica non soltanto potenzia73 il soggetto-al-

lavoro, ma lo produce anche qualitativamente74. Per trasformare la forza-lavoro in forza

produttiva è dunque necessario “fissare” (cfr Foucault 1974, p. 78) un corpo individuale in un apparato produttivo oggettivo: “affinché gli uomini siano effettivamente collocati nel lavoro e legati ad esso, è necessaria un'operazione o una serie di operazioni complesse attraverso le quali gli uomini si trovano realmente, non in una maniera analitica ma sintetica, vincolati all'apparato di produzione per il quale lavorano” (ivi).

Nel processo di valorizzazione invece “non si tratta più della qualità, della natura e del contenuto del lavoro, ma ormai soltanto della sua quantità. E questa ha da essere semplicemente contata” (Il Capitale, p. 223). Il processo di valorizzazione ruota attorno alla formazione di una quantità di valore finale maggiore di quella avuta in partenza75.

73 “Si supponga che una qualche invenzione metta il filatore in grado di filare in sei ore tanto cotone quanto ne filava prima in trentasei. Il suo lavoro come attività utile e idonea, produttiva, ha sestuplicato la propria forza. Il suo prodotto è un sestuplo, trentasei libbre di refe invece di sei. Ma ora le trentasei libbre di refe assorbono soltanto il tempo di lavoro che prima ne assorbivano sei” (C, I, p. 235).

74 “I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavorativa umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro” (C, I, p. 214).

75 Marx (C, I, Capitolo IX) prova a stabilire un grado della valorizzazione che dia la misura non di quanto valore venga prodotto nel processo di valorizzazione ma di quanto valore in più si produca rispetto a quello di partenza. La prima formula di questa trasformazione è C= c+v, ossia il capitale di partenza. Il prodotto finale invece è posto come C’= c+v+p dove p è appunto la differenza di valore. Il carattere tecnico del processo lavorativo determina la proporzione fra fattori soggettivi e oggettivi. Il rapporto fra capitale costante e capitale variabile, mezzi di produzione e forza-lavoro, può variare soltanto in termini quantitativi ma non qualitativi, “questa variazione cambia soltanto il rapporto di grandezza fra capitale costante e capitale variabile, ossia le proporzioni dello scindersi del capitale complessivo in componenti costanti e variabili, ma non intacca la distinzione fra costante e variabile” (C, I, p. 244). Detto altrimenti, lo sviluppo tecnico non permette di oltrepassare questa distinzione o di mettere in moto il lavoro per produrre plusvalore senza forza-lavoro. Altrove Marx critica anticipatamente qualsiasi ipotesi di automazione totale all’interno del capitale: “se tutta la classe dei salariati fosse distrutta dalle macchine, che cosa terribile per il capitale, il quale senza lavoro salariato cessa di essere capitale” (LSC p. 69). Per Marx, poiché il capitale costante riproduce solo se stesso, il plusvalore può essere ascritto solo al capitale variabile, ovvero alla forza-lavoro.

Ovviamente, si potrebbe pensare che sono i mezzi tecnici a permettere la formazione di nuovo valore e che dunque il lavoro umano sia solo un elemento accessorio della valorizzazione. Marx invece spende pagine importanti per dimostrare che le macchine non possono produrre più valore di quello che contengono; queste non fanno altro che trasferire il proprio valore all’oggetto del lavoro. La forza-lavoro invece è presentata come l’unico fattore in grado di valorizzare, ovvero creare più valore di quello inizialmente materializzato nei fattori produttivi.

Conservare valore e crearlo sono due funzioni presentate da Marx come essenzialmente distinte76. È il mezzo di produzione a svolgere la prima funzione; le macchine trasferiscono

valore perché contemporaneamente lo perdono e quindi non possono metterne in moto più di quanto ne contengano. “Mentre il lavoro produttivo trasforma mezzi di produzione in elementi costitutivi di un nuovo prodotto, il loro valore subisce una metempsicosi: trasmigra dal corpo consumato nel corpo di nuova formazione. […] Quel che viene prodotto è il nuovo valore d’uso, nel quale si ripresenta il vecchio valore di scambio” (C, I, pp. 240- 241).

Per questo pone c=0, ovvero astrae dal capitale costante. Quindi se p rappresenta il plusvalore come grandezza assoluta, p/v il plusvalore in rapporto al capitale variabile ci dice quanto si è valorizzato il capitale investito i forza lavoro, ovvero quanto la forza-lavoro è stata in grado di produrre in più rispetto al suo valore di partenza. Letto da una prospettiva diversa, il saggio del plusvalore può essere visto come l’indice della capacità di estrarre lavoro, ovvero l’efficienza della disciplina del capitale sul lavoro: “il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista” (C, I, p. 251).

Lo stesso vale per il lavoro: quello necessario riproduce il lavoro condensato nel salario, il pluslavoro invece è un di più di lavoro rispetto al primo. “Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte di giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione [del lavoro anticipato come salario]: chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa” (C, I,, p. 250). “La somma del lavoro necessario e del pluslavoro, dei periodi di tempo nei quali l’operaio produce il valore che sostituisce la sua forza-lavoro e il plusvalore, costituisce la grandezza assoluta del suo tempo di lavoro: la giornata lavorativa” (C, I,, p. 263). Il saggio di plusvalore e quello di pluslavoro esprimono quindi la stessa relazione in forma diversa. Il saggio del pluslavoro dunque ci dice quanto l’operaio lavori per riprodurre il costo dei propri mezzi di sussistenza e quanto per il capitalista. Questo rapporto fra tempo di lavoro necessario e pluslavoro, che compone la giornata lavorativa, diventa uno degli assi attorno ai quali ruota il conflitto fra capitalista e operaio.

76 “Dunque la parte del capitale che si converte in mezzi di produzione, cioè in materia prima, materiali ausiliari e mezzi di lavoro, non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione. Quindi la chiamo parte del costante del capitale o, in breve, capitale costante. Invece la parte del capitale convertita in forza-lavoro cambia il proprio valore nel processo di produzione. Riproduce il proprio equivalente e inoltre produce in eccedenza, il plusvalore, che a sua volta può variare, può essere più grande o più piccolo. […] Quindi la chiamo parte variabile del capitale, o in breve: capitale variabile. Le medesime parti costitutive del capitale che dal punto di vista del processo lavorativo si distinguono come fattori oggettivi e fattori soggettivi, mezzi di produzione e forza-lavoro, dal punto di vista del processo di valorizzazione si distinguono come capitale costante e capitale variabile” (C, I, p. 242).

Il lavoro umano invece è unico e bilaterale: unico processo in cui contemporaneamente si trasferisce e aggiunge valore. “Conservare valore aggiungendo valore è una dote della forza- lavoro in atto” (C, I, p. 240). Il lavoro concreto è processo qualitativo che, allo stesso tempo, muta la quantità di lavoro astratto presente nell’oggetto del lavoro. Il consumo della forza- lavoro è il principio vitale della valorizzazione. Il suo è “l’unico valore originale che sia nato entro questo processo, la unica parte di valore del prodotto che sia prodotta mediante il processo stesso” (C, I, p. 241). È la forza-lavoro a valorizzarsi e produrre plusvalore: il consumo della forza-lavoro – che è, al contempo, processo di produzione di merci – può rendere un prodotto di valore maggiore77 rispetto a quello dei fattori soggettivi ed oggettivi

immessi nel processo lavorativo. Il processo di valorizzazione non è che un processo di creazione del valore prolungato oltre il punto in cui il capitale prodotto equivale a quello anticipato. I calcoli, i tempi diventano fondamentali. Occorrono misure e controllori. Il

consumo della forza-lavoro diventa dunque un’attività centrale nel processo di valorizzazione; l’uso del corpo-al-lavoro viene ad essere un nodo centrale per il modo di produzione capitalistico e richiede lo sviluppo di una specifica disciplina. Si chiede Machery:

“che cos'è in effetti la famosa produttività attribuita alla forza-lavoro al fine di qualificarla, o meglio, di riqualificarla? È la “virtù” o la “potenza” che può esserle attribuita quando la si consideri e la si tratti materialmente come una “forza produttiva”, nel senso di una capacità da mettere in azione, che non solo è misurabile sulla carta, ma può anche essere modulata, modificata nella prospettiva di un suo incremento. […] è per questo che la forza lavoro impiegata gli interessa, nel senso forte del termine, in quanto essa è non produttrice ma produttiva, il che apre la possibilità di trattarla non come una forza in azione, come “è già”,

77 La forza lavoro infatti, come visto, contiene uno scarto fra lavoro necessario alla sua riproduzione e valore che essa può produrre. “Ma il lavoro trapassato, latente nella forza-lavoro, e il lavoro vivente che può fornire la forza-lavoro, cioè i costi giornalieri di mantenimento della forza-lavoro e il dispendio giornaliero di questa sono due grandezze del tutto distinte. La prima determina il suo valore di scambio, l’altra costituisce il suo valore d’uso. Che sia necessaria una mezza giornata lavorativa per tenerlo in vita per ventiquattro ore, non impedisce affatto all’operaio di lavorare per una giornata intera. Dunque il valore della forza-lavoro e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze differenti. A questa differenza di valore mirava il capitalista quando comprava la forza-lavoro. […] decisivo era invece il valore d’uso di questa merce, che è quello di essere fonte di valore, e di più valore di quanto ne abbia essa stessa. […] La circostanza che il mantenimento giornaliero della forza-lavoro costi soltanto mezza giornata lavorativa, benché la forza-lavoro possa operare, cioè lavorare, per tutta una giornata, e che quindi il valore creato durante una giornata dall’uso di essa superi del doppio il suo proprio valore giornaliero, è una fortuna particolare per il compratore, ma non è affatto un’ingiustizia verso il venditore” (C, I, p. 227-8).

ma come una forza in potenza, come “non è ancora” e, in quanto tale, portatrice di potenzialità sulle quali possono essere esercitati una pressione e un controllo atti a intensificarne le potenzialità” (Machery, Il soggetto produttivo, pp. 40-1). La qualità e la quantità del consumo della forza lavoro devono essere corrispondenti agli standard medi di produzione, al lavoro socialmente necessario. Il capitalista dunque deve vegliare tanto sull’intensità e la forma del lavoro quanto sul fatto che non venga derubato del prodotto finale. Al contempo, nel processo di valorizzazione – Marx fa l’esempio della produzione di refe – i diversi processi lavorativi che producono parti del prodotto finale diventano un solo processo sociale di produzione esteso nello spazio e nel tempo e quindi ogni singolo lavoro diventa parte di una rete diffusa all’interno della quale le regole e il controllo non si esercitano solamente nella forma del controllo individuale ma attraverso una gioco di condizionamenti reciproci. L'uso della forza-lavoro, ovviamente, non è casuale ma sociale, ossia regolato da norme e valutazioni comuni a tutti quelli che sono assoggettati in questa maglia di potere. In tal modo un corpo, per sua costituzione particolare, viene uniformato a criteri generali e utilizzato secondo norme che ne dispongono un uso irregimentato. Le capacità del soggetto- al-lavoro dunque vanno elencate, calibrate, formalizzate e riqualificate in base alle esigenze produttive.

La forze della qualificata sono dunque continuamente oggetto di un movimento di spossessamento e disciplinamento, estrazione di tempo di lavoro e fissazione in un sistema di produzione/potere. Il corpo-al-lavoro diventa campo di battaglia di un conflitto – fra vendita e uso della forza-lavoro, fra bisogni e desideri, fra espropriazione e ed espressione della sua potenza sociale – che è radicato in quello spazio di scambio, produzione, cooperazione che è la società civile.

Il rapporto di produzione è, parallelamente, anche una relazione di potere: l’accumulazione di valore va di pari passo con il comando del capitale sul lavoro vivo. Attraverso il lavoro