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Il colonialismo come pura Gewalt

La forza-lavoro fra disciplina e biopolitica

3.2 Il colonialismo come pura Gewalt

Torniamo ancora per un attimo alle quattro condizioni che i Grundrisse indicano come costitutive dei rapporti di produzione di tipo capitalistico. Abbiamo già visto come queste non vadano concepite come condizioni assolute, ma piuttosto come insieme di relazioni possibili che assumono combinazioni e gradazioni diverse a seconda dei contesti geografici e dei periodi storici. La stratificazione di tempi e forme di produzione – che trovano nel comando del capitale il punto di congiunzione che unifica senza uniformarle – comporta la possibile compresenza di diverse soggettività al lavoro all’interno dello stesso sistema produttivo. Il carattere disgiuntivo dell’accumulazione originaria, la quale rende liquida quella forza-lavoro che invece si presentava in solido con le forze produttive oggettive, fa sì che quello stesso lavoro liquido possa assumere forme diverse a seconda del contenitore giuridico e dei dispositivi disciplinari in cui viene nuovamente imbrigliato. Nel sistema produttivo inglese di metà ottocento schiavitù, lavoro salariato e servitù convivevano pienamente. Scrive Robert Castel (2002): “l’esclavage peut apparaître comme la forme primitive et absolue du travail dépendant par laquelle l’appropriation du travail par le maître passe par la propriété de la personne du travailleur. Cependant, on assiste aux débuts de l’époque moderne à une véritable

réinvention de l’esclavage fondé sur la traite des Noirs en direction des colonies d’Amérique.

Le travail esclavagiste organisé dans les grandes plantations représente la forme la plus adéquate et la plus rentable de l’organisation de la production intensive du sucre, du coton, du café. Ainsi l’économie de la plantation, telle qu’elle se développe surtout aux xvii-xviii siècles, et encore pour une part au xix, surtout en Amérique, réalise une unité de production

capitaliste et moderne à mettre en rapport avec les concentrations industrielles qui s’implantent en Europe occidentale à l’époque. L’une et l’autre font partie de l’économie- monde. La plantation de sucre ou de coton, comme la fabrique de textiles, alimente le grand commerce international, consolide l’accumulation du capital sur une base mondiale et conspire à imposer l’hégémonie du capitalisme le plus avancé. L’esclave noir dans l’économie de plantation et le prolétaire des premières concentrations industrielles apparaissent ainsi moins comme deux figures opposées, l’une archaïque et totalement asservie, l’autre moderne et libre, que comme deux types de travailleurs assujettis œuvrant en synergie dans la dynamique du développement du capitalisme moderne”. Questa osservazione ci costringe a problematizzare ulteriormente la condizione 4, quella che descrive l’incontro fra la forza- lavoro e il possessore di plusvalore come libero scambio ovvero come scambio di equivalenti fra liberi contraenti. È questo un punto su cui torneremo anche alla fine del capitolo. Qui ci soffermeremo ulteriormente sul lavoro schiavistico. Potrebbe risultare utile adottare uno sguardo post-coloniale come grimaldello per scardinare alcune letture di Marx che hanno fatto della storia dell’operaio salariato bianco occidentale lo standard di valutazione di ogni altra forma storica di emancipazione e produzione. Detto altrimenti, la messa in questione di una lettura eurocentrica del pensiero di Marx può essere proficua per rileggere anche la genesi e lo sviluppo della rivoluzione industriale in Inghilterra attraverso la storia di altri soggetti al lavoro come le donne e i bambini.

Black Marxism di Cedric J. Robinson ad esempio ricostruisce la genesi del capitale a partire

dalla storia delle colonie e dallo sfruttamento del lavoro schiavile. Nodi centrali per la comprensione di questa proposta interpretativa sono la Africa’s Transmutation e il commercio atlantico degli schiavi.

Altro testo che ha offerto un contributo importante al decentramento dell’Europa (e del regime del salario dell’operaio maschio adulto occidentale) all’interno dello sviluppo del modo di produzione capitalistico è Provincializzare l’Europa di Dipesh Chakrabarty. Commenta lo storico Marcel van der Linden: “il nazionalismo metodologico lega indissolubilmente la società e lo Stato e tratta di fatto nella ricerca storica i diversi Stati nazionali come delle monadi leibniziane. L’eurocentrismo può essere visto come il processo mentale in base al quale il mondo viene ordinato a partire dalla prospettiva della regione nord- atlantica: si ritiene che il periodo moderno abbia avuto origine in Europa e nel Nord America

e che da lì si sia esteso passo dopo passo al resto del mondo; la scansione temporale della regione nucleo determina così la periodizzazione degli accadimenti altrove. In questo modo gli storici hanno ricostruito la storia delle classi lavoratrici e dei movimenti dei lavoratori in Francia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti, ecc. come sviluppi separati, e quando hanno guardato alle classi sociali e ai movimenti in America Latina, Africa o Asia, li hanno interpretati secondo gli schemi nord-atlantici” (Van der Linden 2008, pp. 35-36).

In alcuni passi Marx considera altre forme del lavoro, ad esempio la schiavitù, come una anomalia (cfr. G, I, p. 442). Altrove parla di “schiavitù dei negri – una schiavitù puramente industriale – che comunque scompare con lo sviluppo della società borghese” (G, pp 185- 186). Se, da una parte, questo tipo di affermazioni sembrano suggerire una limitazione di queste forme di lavoro ad un ruolo residuale all’interno di nuovi rapporti di produzione, dall’altra ne mostrano la possibilità di coesistenza piena, la loro sussunzione in dinamiche di produzione capitalistica come prolungamento del sistema industriale.

Oltre al capitolo XXIV del Capitale, credo possa essere utile far riferimento anche al capitolo XXIII (La legge generale dell’accumulazione capitalistica) e al capitolo XXV (La teoria

moderna della colonizzazione), che appare come un corollario di quello sulla accumulazione

originaria, in quanto illustrano indirettamente il ruolo di soggettività diverse dal salariato all’interno della divisione internazionale del lavoro e il modo in cui queste sono prodotte e inglobate all’interno del comando del capitale.

Scrive Sandro Mezzadra (2011): “possiamo dire che cittadinanza e lavoro siano i nomi della soggettività sotto il dominio dello stato e del capitale. […] Lo status del lavoro (il “lavoro libero”, come fu immaginato e costruito dalla dottrina giuridica della libertà del contratto) fu legato fin dalle origini della Repubblica allo status della cittadinanza, al riconoscimento di un soggetto come cittadino a pieno titolo. Malgrado tutte le differenze nei dettagli, nella tempistica dei processi e nella violenza degli scontri che lo accompagnarono, lo stesso può dirsi anche dell’Europa occidentale. Così come la cittadinanza era presentata come un astratto quadro di riferimento giuridico e politico emerso da un processo di violento travolgimento di molteplici appartenenze “concrete”, il lavoro salariato “libero” fu immaginato come risultato della rescissione di tutti i legami tranne quello monetario tra il proprietario dei mezzi di produzione e il lavoratore”. Cosa succede in questi contesti dove la forza produttiva del lavoro

è scissa dal riconoscimento giuridico della cittadinanza che conferisce lo status di persona libera?

Necropolitica di Achille Mbembe propone una rilettura del concetto di sovranità

congiungendolo a quello di colonialismo. Abbiamo già visto come lo Stato sia uno degli attori principali delle pratiche governamentali di accumulazione originaria, di quei processi che aprono nuove frontiere al capitale e originano all’interno di nuovi territori (fisici o immateriali) dei rapporti di subalternità all’accumulazione. Per Mbembe la sovranità – in quanto potere di vita o morte sulla vita – è sia biopolitica come presa in custodia della vita del cittadino, sia necropolitica come distruzione di popolazioni nei territori che delimitano il fuori dal suo raggio d’azione sovrana, nelle colonie. L’azione civilizzatrice dell’occidente, l’apertura di nuovi mercati alla riproduzione allargata, corrisponde alla violenza contro alcuni corpi e soggetti. Alla ri-produzione biopolitica della vita – di una popolazione laboriosa – fa da contraltare la produzione necropolitica della violenza e della morte – di una popolazione in eccesso. Il colonialismo dunque può essere letto in prima battuta come forma di accumulazione originaria che innanzitutto spossessa e crea una massa di ricchezza privata a spese dell’esistenza stessa della forza-lavoro colonizzata. L’analisi marxiana del colonialismo nell’ultimo libro del capitale si limita ad evidenziarne gli elementi di spossessamento senza entrare nel merito di come altre forme storiche (ad esempio quella asiatica) vengano riconfigurate86. Al massimo Marx parla dell’installazione di coloni all’interno di nuovi

territori in cui si sono generato processi di accumulazione (ad esempio, i settlers americani) ma non prende molto in considerazione le sorti dei “locali”.

Se incrociamo queste osservazioni di Mbembe con una rilettura di Fanon possiamo vedere come, secondo Visentin, “la Verwandlung nelle colonie non mira dunque alla costruzione di un universalismo fittizio e di una libertà governata dai rapporti di produzione, bensì a una differenziazione radicale, prodotta da un lessico che utilizza termini zoologici per indicare il carattere del colonizzato, le sue abitudini, i suoi luoghi di residenza, cui si affianca una violenza “assoluta”, volta a confermare tale diversità. Il linguaggio del colono produce e sclerotizza l’alterità, chiudendo qualsiasi comunicazione: di fronte l’uno all’altro stanno un

86 Da qui si aprono una serie di problemi teorici, primo fra tutti quello di riesaminare il colonialismo a partire da uno sguardo non euro-centrico, cosa che hanno provato a fare i Subaltern Studies. Altro nodo importante è quello della transizione/traduzione (vedi Mezzadra 2008) ovvero della ricodificazione del subalterno all’interno dei linguaggi del dominante. Un lavoro che rilegge il tema del colonialismo e della differenza di genere a partire da questi problemi teorici è Mohanty 2012.

essere naturale, sempre uguale a se stesso, e un individuo che fa la storia” (Visentin 2013, pp. 82-83). Lisa Lowe in Immigrant Acts parla di “produzione sociale delle differenza” di razza e genere all’interno del processo di sussunzione del lavoro al capitale (lei fa riferimento agli Stati Uniti ma questo stesso discorso, mutatis mutandis, credo possa essere fatto valere anche per l’Inghilterra descritta da Marx). Il colonialismo dunque non è solamente accumulazione di ricchezza senza costruzione di una forza-lavoro libera; è anche pura Gewalt senza

Verwandlung, violenza senza mediazioni giuridiche, sociali, politiche. L’applicazione di

violenza senza mediazione giuridica, la costruzione di un soggetto al lavoro privo di cittadinanza è produzione di differenze: una sussunzione differenziale all’interno dei processi di accumulazione. In altre parole, come l’accumulazione originaria è punto di congiunzione fra diverse temporalità storiche così è gerarchizzazione fra diverse soggettività al lavoro. Sempre secondo Visentin (2013, p. 80) “Marx conclude la sua analisi saldando i corni geografici dello sfruttamento e collegando la schiavitù dei bambini in Inghilterra con quella degli africani in America. […] Tuttavia una differenza tra i due mondi persiste, ed è determinata dal fatto che nelle colonie manca il ruolo del diritto, che in Europa trasforma la violenza economica in legge dello Stato. […] La necessità della trasformazione appare così limitata al territorio europeo, laddove “il concetto della uguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare”; per gli altri popoli è sufficiente la frusta del sorvegliante”.