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Diritto di fuga e pratiche governamentali della mobilità

La forza-lavoro fra disciplina e biopolitica

3.4 Diritto di fuga e pratiche governamentali della mobilità

La colonizzazione di spazi extra-europei o del corpo della donna mostra chiaramente che la formazione di rapporti di produzione di stampo capitalistico (non semplicemente nella forma

salariale, ma considerati nell’accezione più generale di dipendenza economica) passa attraverso lo spossessamento delle fonti di sapere-potere dei colonizzati. Tra la distruzione creatrice dell’accumulazione originaria e l’assoggettamento a dispositivi disciplinari finalizzati alla messa a lavoro esiste però uno spazio di transizione connotato da una estrema ingovernabilità dei soggetti che si muovono al suo interno. Marx assegna una pluralità di funzioni allo Stato; il suo ruolo nella produzione di un soggetto al lavoro non sembra esaurirsi nell’esercizio della violenza espropriatrice. Piuttosto potremmo avanzare l’ipotesi teorica che Marx riconosca il carattere governamentale di alcune disposizioni di legge e pratiche amministrative messe in campo al fine di governare la transizione dalle condizioni pre- capitalistiche a quelle di dipendenza economica. Come scrive lo stesso Marx, i metodi dell’accumulazione originaria producono “una massa ridotta a trovare l’unica fonte di guadagno nella vendita della propria capacità di lavoro, o nella mendicità, nel vagabondaggio, nella rapina. È assodato storicamente che essi hanno tentato dapprima quest’ultima via, ma che da questa sono stati però spinti, mediante la forca, la gogna e la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del lavoro” (G, p. 489). Marx dunque riconosce alla forza-lavoro una profonda tensione resistenziale rispetto al suo assoggettamento al comando del capitale che si esprime ancora prima della sua entrata in fabbrica e che in questa assumerà la forma della rivendicazione e del sabotaggio. Se l’accumulazione originaria genera una condizione di subalternità, d’altra parte c’è uno spazio in cui i dominati non sono ancora catturati nel processo di salarizzazione. Prima di rendere abituale la prassi della compra vendita della forza-lavoro, ci sono stati innumerevoli tentativi diffusi di sfuggire ai recinti della proprietà, la quale ha impiegato anni, leggi e forche per affermare la sua supremazia rispetto alle attività improduttive.

Molte di queste pratiche di illegalità diffusa, come i furti di legna, non sono riducibili a semplici crimini contro la legge (cfr. Mezzadra 2008; Foucault 2013). Come già Thompson (1981) aveva messo in luce a proposito della permanenza di residui dell’economia morale all’interno delle nuove classi urbane, così queste pratiche sembrano poggiare sulla scontro fra diverse fonti normative che si erano venute a sovrapporre. È da notare come la consuetudine fosse spesso legata a una forma di uso comune della terra, mentre il diritto positivo si basava essenzialmente sul concetto di proprietà privata. Questo scontro fra codici normativi/forme della proprietà diventa molto chiaro a proposito dei furti di legna o della recinzione di terre

(cfr. Bensaïd 2007). A ciò va aggiunto che le proprietà comuni integravano i guadagni particolari ed erano fonti di approvvigionamento di materie prime (a riguardo rimando all’analisi dell’agricoltura nel xvii secolo in Inghilterra fatta nel capitolo 1). La distruzione delle proprietà comuni ad opera di processi di accumulazione spezza dunque le fondamenta di un’indipendenza economica e politica che però permane a lungo nelle pratiche che si rifacevano al diritto consuetudinario. È sotto questa lente interpretativa che possono essere rilette quelle figure sociali come il bandito, il ribelle oggetto di alcuni studi di Hobsbawm. A proposito credo sia possibile intrecciare queste suggestioni marxiane con ricerche più approfondite come, ad esempio, quelle sulla nascita di un sistema penale centrato attorno alla prigione fatte da Foucualt (1975) o quelle di Peter Linebaugh (1991) sull’uso della forca per imporre il rispetto della proprietà privata nell’Inghilterra del xviii secolo. Cito questi due autori perché mi sembra che dialoghino a distanza prendendo in esame gli stessi fenomeni da due punti di vista diversi: Foucault91 privilegia l’internamento di massa messo in atto nella

91 Foucualt mostra come il diritto penale a cavallo tra 700 e 800 abbia nascosto il corpo e fatto sparire i supplizi. Si sarebbe passati da un modello della violenza esemplare a uno del disciplinamento dei corpi attraverso l’internamento in particolari luoghi.

Il supplizio è un “operatore politico” (Foucault 1975, p. 58), “rivelatore di verità e operatore di potere” (ivi, p. 60) in quanto produce la verità del crimine del condannato e ristabilisce la superiorità del potere sovrano. Lo spettacolo della pena è rivolto al pubblico, al fine di disciplinarlo. Questa forma di spettacolo della punizione avrebbe finito per tramutarsi a volte in resistenza o ribellione laddove il popolo si fosse identificato con il condannato e l'atrocità del potere avesse risvegliato un senso di rifiuto della sottomissione quotidiana.

Per questo tra le fine del 700 e l'inizio dell'800 si sarebbe verificato un processo di trasformazione tanto del diritto penale quando delle pratiche. Alla base di questo cambiamento che ha portato ad un addolcimento delle pene e a una regolarizzazione del diritto ci sarebbero due fattori. Da una parte, la troppa discrezionalità del potere assoluto del sovrano che dava luogo a un'incertezza della pena e a una pluralità di fonti decisionali. Dall'altra c'è una modificazione nell'illegalità. Questa era generalmente tollerata per quanto riguardava alcune pratiche di certi strati sociali. A fine 700 gli strati popolari passano da un'illegalità dei diritti a quella dei beni, dall'appropriazione politico-giuridica all'espropriazione economica. La necessità di contrastare questi reati ampiamente diffusi è posta da Foucault in relazione a delle trasformazioni nel sistema di produzione (ivi, p. 93).

La nuova economia del potere deve ridurre i costi (politici ed economici) della pena ed aumentarne l'efficacia e la diffusione. Foucault parla di una doppia trasformazione tanto nel diritto quanto nei sistemi penali in rapida successione.

I riformatori proposero dapprima una concezione semiotica della pena: dallo spettacolo atroce al dramma di formazione. La condanna doveva richiamare l'abuso del reato e ricordarne a tutti la poca convenienza. La pena resta uno spettacolo da mostrare nel quale ricordare a tutti l'umanità dello stare in società, del rispetto dell'ordine. Punire per analogia in modo da stimolare una meccanica delle forze interiori avversa al reato. Da questa concezione moralistica si sarebbe passati ad una istituzionale che condivide con la prima l'idea che le pene debbano essere calibrate nel tempo e non puntare alla sofferenza ma a normalizzare gli individui in buoni soggetti sociali, ma che si distingue per la pratica punitiva: il carcere diventa l'unica istituzione penale. Si passò dalla città come teatro penale alla costituzione di istituti disciplinari chiusi.

Foucault infine sviluppa l'idea che nella modernità i dispositivi disciplinari siano usciti nuovamente dai luoghi chiusi, abbiano abbandonato lo spazio della marginalità per investire la società tutta. Una società disciplinata, è questo il modello teorico incarnato dal Panopticon di Bentham.

modernità, Linebaugh le condotte ribelli che resero la forca di Tyburn, a Londra, il palcoscenico della resistenza alla moralizzazione delle classi improduttive.

Oltre all’introduzione di un sistema penale per contrastare le condotte devianti, credo sia possibile individuare in Marx un’altra funzione di stampo statuale sorta in conseguenza degli effetti dei processi di accumulazione originaria e che poi ha assunto un ruolo più generale. Parlo della necessità di governare la mobilità della forza-lavoro. Alcuni metodi di spoliazione come il cleaning impongono infatti una mobilità forzata alla popolazione che abitava le terre comuni prima di essere cacciate via. Anche in questo caso, prima di accettare lo spazio angusto della fabbrica, molti provarono a sfuggire ai dispositivi di cattura tramite la mobilità permanente. Il controllo della mobilità diventa un nodo centrale per la produzione e gestione di una popolazione al lavoro; una necessità che si articolava fra l’esigenza da parte dei capitani d’industria di rompere con i vecchi limiti imposti allo spostamento della forza-lavoro dagli statuti medievali (pensiamo ai diversi Act of Settlement) e i tentativi di emigrazione da parte della forza-lavoro (ad esempio negli Stati Uniti, dove si poteva diventare coltivatori indipendenti) per sfuggire alla condizione di dipendenza. L’emigrazione dunque poteva essere considerata anche un’altra strategia di fuga dalla proletarizzazione.

Marx però ci suggerisce che le pratiche di govenamentalità non si limitarono alla transizione da forme pre-capitalistiche all’inquadramento in luoghi disciplinari come la fabbrica. Sempre nel Capitale troviamo tematizzata anche la questione malthusiana della popolazione in eccesso che Marx connota fin da subito come “esercito industriale di riserva”; l’impressione che si ha leggendo queste pagine è che la presenza di una forza lavoro non irreggimentata all’interno di lavori definiti sia il frutto di una pluralità di istanze: da una parte c’è l’incapacità da parte del modo di produzione capitalistico di funzionare in maniera stabile, Marx ne mostra l’andamento altalenante e quindi anche la fluttuazione repentina del tasso di occupazione; dall’altra delinea i contorni di un gioco strategico messo in campo per creare competizione fra i diversi soggetti al lavoro di cui l’eccedenza di popolazione è un effetto; infine mi sembra si possa individuare la presenza di una istanza resistenziale, ovvero l’esercizio di un diritto di fuga dalla subordinazione del lavoro salariato e dipendente. La gestione di una forza-lavoro non direttamente imbrigliata nei dispositivi di messa a lavoro e l’imposizione di una disciplina

passò anche attraverso una serie di istituti e pratiche di governamentalità (pensiamo alle

workhouse o al sistema di sussidi Speenhamland).

Una delle tesi principali del libro di Yann Moulier Boutang 1998, Dalla schiavitù al lavoro

salariato, è che molte delle lotte operaie dei primi tempi di formazione del proletariato si

siano concentrate più sull’esercizio di un diritto di fuga che sulla rivendicazione – exit piuttosto che voice secondo le categorie di Albert O. Hirschman (1970). Lo sviluppo di una legislazione e di una serie di istituti sul pauperismo è ricondotta non tanto all’esigenza di contrastare gli eccessi del mercato – come sostenne Polanyi (1944) – quanto invece alla necessità di gestire la mobilità della forza-lavoro e i suoi tentativi di fuga dalla cattura della disciplina del lavoro dipendente.

Sintetizza sul tema Castel (2002): “Ce que Moulier Boutang appelle le «continent de la fuite» c’est cette nébuleuse de tentatives souvent avortées et parfois tragiques pour échapper à l’emprise du travail dépendant: esclaves marrons, serfs en rupture, vagabonds condamnés à l’errance, prolétaires déracinés, immigrés en quête d’un éden lointain: la défection (l’exit de Hirschman) est l’envers de l’encastrement du travail contraint, et la mobilité de la main- d’œuvre constitue le fil rouge, le plus souvent occulté, qui rend compte de la naissance, de l’usure et du remplacement des différentes formes de structuration dominantes du travail”. Pericolosità sociale e mobilità dunque sembrano essere spesso collegate (cfr. Foucault 2013). Proprio nel capitolo XXIV Marx analizza brevemente alcune delle leggi contro il vagabondaggio che furono introdotte in Inghilterra e che prevedevano la messa a lavoro forzata dello spossessato. Anche qui, l’idea che se ne ricava è che anche in Inghilterra all’inizio si sia cercato di istituire questa forma di soggettività produttiva che tuttavia incontrò tanto delle resistenze soggettive quanto delle difficoltà oggettive alla sua applicazione.