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L’eterno ritorno dell’origine

La forza-lavoro fra disciplina e biopolitica

3.1 L’eterno ritorno dell’origine

Per provare a delineare una cartografia marxiana dei meccanismi di disciplinamento dei corpi a lavoro e di gestione della popolazione laboriosa vorrei scegliere come punto di avvio di questa ricognizione il nodo teorico concentrato nel capitolo XXIV del I° libro del Capitale, quello intitolato La cosiddetta accumulazione originaria. Sebbene costituisca la conclusione dell’analisi della produzione del capitale credo si tratti di una parte che fornisce una angolazione particolare a partire dalla quale poter rileggere tutta la trattazione svolta nei capitoli precedenti. D’improvviso il registro analitico si interrompe e lascia spazio ad una narrazione dell’origine storica dei rapporti di produzione di stampo capitalistico. Lo stesso avviene nei Grundrisse dove il tema dell’accumulazione originaria e quello delle forme di produzione pre-capitalistiche si interpongono fra la trattazione del capitale eccedente e quella della circolazione di denaro. Eppure nel capitolo XXIV troviamo sparsi tutti gli elementi oggetto dell’analisi marxiana fino a quel momento – dalla differenza fra modo di produzione capitalistico e altre forme produttive fino alla divisione del lavoro – presentati qui all’interno di una narrazione che ricostruisce le modalità in cui si generano i processi di accumulazione.

L’apparente oscurità di alcuni passi (ad esempio, quelli sulla teoria del valore-lavoro) del

Capitale acquista nitida chiarezza una volta riconsiderati alla luce di questo sviluppo

narrativo. Ciò non toglie che proprio il capitolo XXIV sia denso di questioni teoriche ed interpretative (prima fra tutte quella riguardante il significato dell’origine) che negli ultimi anni sono state oggetto di un rinnovato interesse da parte degli studiosi di Marx. Ed è così che altri punti di vista, come quello femminista o post-coloniale, hanno gettato nuova luce sul concetto di accumulazione originaria (Ursprung), detta anche formazione originaria (Urbildung) nei Grundrisse. Vedremo come proprio l’analisi del lavoro delle donne, dei bambini e degli schiavi si rivelerà essenziale non solo per comprendere le fasi primordiali della modernità, ma il suo stesso sviluppo avanzato. Proverò a fare di più: se nel capitolo II siamo partiti dalla centralità che Marx stesso conferisce alla condizione salariale, forzeremo questo tipo di lettura consolidata per criticare l’idea del salario come forma standard di riconoscimento della soggettività al lavoro nella modernità e dell’operaio maschio adulto come soggetto principale della storia a-venire.

Questa messa in scena dell’origine ci consente di evidenziare alcuni nodi alla luce dei quali, come detto, rileggere il Capitale a partire dalla fine79: il ruolo dello Stato, il colonialismo e la

persistenza della schiavitù, lo sviluppo di una storia globale, il rapporto fra fabbrica e società, la lenta e incerta formazione di un proletariato salariato in Inghilterra. Guardare allo sviluppo storico del modo di produzione capitalistico e alla funzione dei poteri statali ci permette di sfuggire a qualsiasi robinsonata, ovvero a qualsiasi modellizzazione astratta o naturalistica e, allo stesso tempo, ci consente di ricostruire la complessa trama di forme, ruoli e strategie del rapporto fra soggettività, produzione e potere.

Nell’origine del rapporto soggettivo fra possessore di denaro e possessore di forza-lavoro – come vedremo – Marx racchiude quelle condizioni di possibilità del modo di produzione capitalistico che quotidianamente si perpetuano nel suo funzionamento socialmente e giuridicamente consolidato e col tempo si trasformano e ricontrattano. L’origine dunque è primariamente un venire in primo piano di ciò che abitualmente invece resta sullo sfondo80.

79 Sul rapporto problematico fra ordine logico e ordine storico dell’esposizione nel Capitale ma anche più in generale nell’opera di Marx cfr. Janoska et al 1994.

80 “Il capitolo 24 del Capitale, concentrandosi sull’origine (Ursprung) del modo di produzione capitalistico, si propone dunque di studiare le condizioni in cui, “per la prima volta”, un insieme di «astrazioni reali» si “incarnano” nella storia, divengono potenze reali e finiscono, mi si consenta di giocare con il lessico kantiano, per determinare le condizioni a priori della stessa esperienza sociale” (Mezzadra 2008). Marx

Se “la produzione di capitalisti e operai salariati è dunque un prodotto fondamentale del processo di valorizzazione del capitale” (G, p. 496) il capitolo XXIV invece ci mostra come questa produzione di soggettività non sia solo prodotto ma, soprattutto, sia presupposto del processo di accumulazione.

Abbiamo già visto nel precedente capitolo che le logiche produttive di stampo capitalistico si fondano su alcune condizioni soggettive che si sono formate a partire dallo sviluppo di quello spazio di incontro/scontro chiamato società civile. Marx riassume queste condizioni in quattro punti fondamentali (G, pp. 441-442): 1) esistenza soggettiva del lavoro vivo separato dai mezzi di produzione e di sussistenza; 2) una soggettività votata alla valorizzazione e in possesso di un capitale del tipo al punto successivo; 3) una massa di valore che possa assorbire sia il lavoro necessario (ai mezzi di riproduzione e lavoro) che il pluslavoro; 4) l’imposizione di un rapporto di libero scambio fra soggetti 1 e 2.

Sul rapporto interno fra queste quattro condizioni ritorneremo più avanti. Prima occorre chiarirle singolarmente ma diciamo fin da subito che è il punto 4 a risultare quantomeno problematico alla luce di quanto lo stesso Marx afferma, ad esempio, sul ruolo dei bambini nella fabbrica.

È chiaro che nello schema marxiano della produzione capitalistica il possesso di un plusvalore viene prima della produzione di valore, l’accumulo di ricchezza e il suo carattere privato sono preliminari per l’acquisito di una forza-lavoro e di materie prime da impiegare al di là del tempo necessario alla riproduzione del valore di partenza (ovvero la somma spesa in capitale costante e capitale variabile). Come afferma anche Balibar, “il plusvalore è infatti la condizione del valore e non il contrario, dal momento che non c’è (nel modo di produzione

mostra il divenir concrete di una serie di categorie fondamentali per il modo di produzione capitalistico, il loro apparire laddove finora non erano ancora mature, prima fra tutte l’imposizione di un rapporto sociale mediato da cose, la distinzione fra possessore dei mezzi e possessore di forza-lavoro/spossessato, la produzione di una merce soggettiva. Questo rapporto non rappresenta una condizione originaria che si perde col tempo ma è costantemente riprodotto all’interno del processo di riproduzione del capitale. L’origine non è che il venir in primo piano di ciò che normalmente è nascosto fra le pieghe del processo di valorizzazione. “non appena il capitale è divenuto come tale, esso crea i propri presupposti, ossia il possesso delle condizioni reali per la creazione di nuovi valori senza scambio, attraverso il suo stesso processo di produzione. Questi presupposti, che in origine si presentavano come condizioni del suo divenire – e perciò non potevano ancora risultare dalla sua azione come capitale –, ora si presentano come risultati della sua stessa realizzazione, della sua realtà, come posti da esso – non come condizioni del suo sorgere, ma come risultati della sua esistenza” (G, pp. 437-438). L’accumulazione ordinaria (semplice o allargata) presenta come poste, come risultati quelle che in realtà sono condizioni di esistenza e che invece l’accumulazione originaria mette in scena in forma diretta.

capitalistico) riproduzione del valore dei mezzi di produzione attraverso il lavoro vivo se non nella condizione di una produzione di nuovo valore eccedente. In questo senso la smania di accumulazione è sempre già inscritta nel processo di consumo della forza lavoro” (Machery 2012, pp. 24-25). Ma da dove viene questo capitale iniziale se ancora non si danno condizioni di produzione capitalistica, se ancora non esiste – come nel caso dell’accumulazione originaria – un rapporto di assoggettamento fra soggetti proprietari di valori diversi (denaro e forza-lavoro)?

L’economia classica era ben conscia del problema81. Nel capitolo XXIV Marx infatti

implicitamente muove una feroce critica alla soluzione proposta da Adam Smith secondo il quale le ricchezze del capitalista abbiano origine con l’accumulazione di una certa quantità di merci frutto del proprio lavoro. Il lavoro individuale – nelle condizioni di produzione precedenti alla rivoluzione industriale e alla nascita del sistema di fabbrica – non è considerato capace di produrre un capitale, ovvero una ricchezza tale da potersi valorizzare tramite l’acquisto di forza-lavoro altrui. In Teorie sul plusvalore (TSP, III, p. 289) Marx rifiuta anche la visione di un altro economista del tempo, Thomas Hodgskin, che fa della divisione del lavoro un effetto dell’esistenza di un certo stock of commodities; per Marx invece vale il contrario, è la divisione del lavoro a rendere necessaria una concentrazione di mezzi di lavoro e sussistenza. Il possesso di un plusvalore iniziale dunque – nell’ipotesi di un contesto non- capitalista – non può essere ricondotto ad alcuna condizione di natura o merito individuale. Di più, Marx mostra non solo che quell’accumulo di valore è in realtà concentrazione privata tramite violenza di ricchezze prodotte da altri o possedute precedentemente in comune, ma anche che non basta avere a disposizione una certa quantità di beni o denaro per far sì che si possa valorizzare un capitale. Occorre trasformare una popolazione in forza produttiva sussunta all’interno di un rapporto di subalternità. Occorre quindi far in modo che questa forza venga sradicata dalle sue fonti di indipendenza economica e autonomia politica. Occorre costruire le condizioni del suo incontro con il capitalista. Occorre far sì che un equivalente generale come il denaro sia in grado di essere scambiato con valori d’uso, forze produttive e mezzi di sussistenza.

81 Per una ricostruzione dettagliata delle teorie economiche sull’accumulazione originaria elaborate prima di Marx si rimanda a Perelman 2000.

Marx identifica82 nel capitale mercantile e usuraio le forme primitive di capitalista (cfr. G, pp.

488-489). Questo tipo di capitale – prescindendo al momento dalla sua formazione – potrebbe anche essere ipotizzato di massa sufficiente per soddisfare il criterio 3. Tuttavia non fu “la ricchezza monetaria in quanto tale, ma il processo storico della separazione dei mezzi di produzione e dal lavoratore, a fare dei mercanti e possessori di denaro dei secoli XV-XVII dei capitalisti” (Rosdolsky 1968, I, p. 324). Un capitale senza forza-lavoro da poter acquistare non può nulla. La sua formazione dunque deve essere correlata alla separazione di una parte della popolazione dalle sue fonti materiali di autonomia in modo tale da renderla dipendente per quanto riguarda la sua capacità di riproduzione. “Il capitale ha un’unica proprietà, quella di unificare le masse di mani e strumenti che esso trova già. Esso le agglomera sotto il suo dominio [comando]. Questa è la sua reale accumulazione; l’accumulazione in determinati punti degli operai e dei loro strumenti” (G, p. 490). Al possessore di denaro è riconosciuto un solo potere, quello di poter assoggettare al suo comando la molteplicità di forze che si trovano sparse e farne un’unica potenza produttiva.

Quello determinante dunque è il punto 1, ovvero la costituzione di una forza lavoro separata dai mezzi di sussistenza e di produzione. Come già ampiamente visto, questa forza non esiste se non in quanto incarnata in un corpo, tutt’uno con la persona vivente. La produzione dunque di questa specifica tipologia di soggettività richiede per Marx due elementi. Il primo è il passaggio dall’unità dei fattori soggettivi e oggettivi della produzione alla loro separazione; il secondo è l’uso della violenza. Scrive a riguardo Stefano Visentin: “i due elementi portanti della genesi dell’accumulazione capitalistica: la trasformazione (Verwandlung) e la violenza (Gewalt). L’accumulazione originaria è innanzitutto trasformazione: trasformazione dell’ambiente, degli individui, dei rapporti sociali; soprattutto, trasformazione del proletariato europeo in una massa di operai salariati. Il suo fine è la produzione di una “coazione silenziosa”, ovvero di una normalizzazione dei rapporti di produzione capitalistici […]. tale processo tuttavia necessita anche di un secondo elemento, ovvero del sostegno di una violenza organizzata, orientata a disciplinare i processi sociali. Qui il potere statale gioca un ruolo

82 Questa identificazione marxiana del ceto mercantile e finanziario come gruppi sociali dai quali sarebbero venuti fuori i primi capitani d’industria sembra scontrarsi con la ricostruzione storica che ho fornito nel capitolo I dove invece si è evidenziato come le ricerche degli ultimi anni abbiano individuato nella piccola nobiltà di campagna e nell’artigianato urbano le componenti sociali da cui vennero fuori i primi capitalisti.

decisivo, poiché è attraverso un disciplinamento brutale (“leggi fra il grottesco e il terroristico”) che “si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione” (Visentin 2013, p. 77).

La prima considerazione da fare riguarda la rottura dell’unità delle forze produttive soggettive e oggettive. Questo separazione è esposta attraverso un esempio storico particolare, ovvero il passaggio dal feudalesimo alla modernità in Inghilterra. Commenta Rosdolsky: “il modo di produzione capitalistico ha come presupposto una serie di rivolgimenti storici in seguito ai quali le diverse forme in cui il produttore continuava ad essere legato ai mezzi di produzione sono state distrutte” (Rosdolsky 1968, I, pp. 321-322). Marx (G, pp. 486-488) identifica diversi punti di disarticolazione: il rapporto diretto di stampo comunitario con la terra, quello con gli strumenti di lavoro e con gli oggetti di consumo, l’identificazione delle capacità lavorative viventi con le condizioni oggettive di produzione. Questo, da una parte, vuol dire emancipazione da quelle figure produttive che non riconoscevano la specificità dei fattori soggettivi della produzione: non a caso nei Grundrisse (p. 443) si mostra come nel modo di produzione feudale il servo della gleba sia considerato parte della terra, quasi un suo prolungamento, mentre in quello antico lo schiavo è macchina da lavoro vivente. Dall’altra parte, comporta il venir meno di tutte quelle fonti di autonomia rispetto alla messa a disposizione della forza-lavoro nei confronti di un comando esterno: le coltivazioni in comune, i saperi specialistici delle corporazioni artigiane, i prodotti naturali dei terreni demaniali. La separazione dei fattori produttivi operata dall’accumulazione originaria dissolve alcuni elementi già presenti prima delle forme di potere di tipo capitalistico e successivamente li torna a riunire, sebbene in maniera diversa, all’interno di una sussunzione del lavoro al comando del capitale.

La transizione dal mondo feudale a quello moderno dunque vuol dire tanto rottura dei legami di subordinazione e dei limiti imposti dalle corporazioni o dai rapporti di servitù rispetto al signore feudale, quanto dei privilegi e dei benefici che questi rapporti sociali ed istituti comportavano. Lentamente l’emancipazione dai vincoli e legami feudali prende la forma della libertà di compravendita della forza-lavoro. Marx, dunque, ci mostra le trasformazioni del diritto consuetudinario in Inghilterra in direzione del sistema giuridico della proprietà e del

contratto tramite il passaggio dalla costituzione materiale del lavoro corporativo o servile a quella del lavoro salariale (cfr. Bensaïd 2007).

Uno (se non il principale) degli agenti che guidano questo processo è chiaramente lo Stato: “i governi, ad esempio quelli di Enrico VII, VIII, ecc., figurano come condizioni del processo storico di dissoluzione e come creatori delle condizioni di esistenza del capitale” (G, p. 489). Il capitolo XXIV del Capitale mostra chiaramente che Marx aveva ben chiaro il ruolo regolativo (nel rapporto fra popolazione e risorse) esercitato dallo Stato tramite una combinazione di diritto codificato e pratiche governamentali. Da una parte, infatti, Marx si sofferma sui diversi provvedimenti legislativi che sanciscono la mercificazione della forza- lavoro, l’entità del salario, la durata della giornata lavorativa. Dall’altra ricostruisce brevemente la lotta messa in campo nelle strade e nelle aule del parlamento inglese alle pratiche di sottrazione al regime salariale (vagabondaggio, furto, mendicità). L’affermazione di un nuovo sistema economico è posta da Marx in stratta connessione con la sua legittimazione da parte del potere statuale. È proprio l’istituto politico cardine della modernità, lo Stato, che produce alcune condizioni della società civile, ad esempio la rottura di vincoli collettivi o la costituzione di un soggetto proprietario (nel duplice senso possibile), e che gestisce la transizione e gli effetti della formazione originaria. “La genesi extraeconomica della proprietà non è altro che la genesi storica dell’economia borghese, delle forme di produzione che sono espresse teoreticamente o idealmente dalle categorie dell’economia politica” (G, I, p. 467). Rispetto a tutte le spiegazioni endogene della proprietà, Marx pone l’accento sulle cause esogene dell’accumulazione originaria. Se il fine è la rottura del potere di autonomia di una parte della popolazione, potere radicato nel possesso di saperi, abilità e mezzi di produzione; se il mezzo è spesso il potere statuale come agente regolatore dei processi di transizione che lentamente codifica i nuovi rapporti di produzione venutisi a creare; il vero attore, ciò da cui si genera l’avvio e lo sviluppo dell’accumulazione originaria, è la violenza83.

Questo carattere del processo di accumulazione è ad esempio messo in risalto da David Harvey (2003; 2005) nella sua definizione di accumulation by dispossession, laddove

dispossession indica non tanto l’espropriazione come sottrazione di proprietà altrui, quanto il

carattere violento della spoliazione di qualcosa che non è necessariamente proprietà. La

proposta di Harvey è che questo carattere extra-economico dell’economia basato non sulla coazione economica ma sulla violenza (spesso di stampo statuale) non sia semplicemente elemento primitivo del capitale ma modalità specifica di una tipologia di accumulazione che diventa preponderante in alcuni contesti spaziali e temporali. Per questo Harvey preferisce alla locuzione “accumulazione originaria” quella di “accumulazione per spoliazione”, considerando la prima troppo determinata storicamente come fattore primitivo della nascente società capitalistica84.

Quello che resta occultato dal formalismo dei rapporti di scambio, dalla circolazione delle merci, dalla forma superficiale del salario e che invece viene in primo piano laddove si generino rapporti di produzione di stampo capitalistico è proprio il carattere violento e predatorio di tale rapporto. D’altra parte, se seguiamo fino in fondo la chiave interpretativa che fa dell’origine uno sfondo che costantemente si ripete con la riproduzione ordinaria del capitale, allora potremmo dire che la violenza non si esaurisce nel momento originario di costruzione di subalternità ma che perdura ogniqualvolta quel rapporto di dominio è messo all’opera nella produzione di plusvalore. Marx insiste costantemente sul carattere dispotico del comando del capitale sul lavoro e sulla violenza del sistema di fabbrica. La Gewalt dunque è presentata come la pratica costante e diffusa che connette la sfera economica con la statualità, la società civile con il potere politico (che ha il monopolio della violenza stessa): la produzione delle soggettività moderne, quelle del possessore di denaro e del possessore di forza-lavoro, avviene secondo modalità extra-economiche basate prevalentemente sull’uso

84 Inoltre, mentre in Marx l’accumulazione originaria estende il campo di azione della riproduzione allargata del capitale, opera una sussunzione del fuori all’interno di rapporti di stampo capitalistico, l’accumulazione per spoliazione invece – così come è tratteggiata da Harvey – escludere dei soggetti dall’inclusione all’interno del modo di produzione. Per certi versi si tratta di una categoria che si avvicina al concetto di distruzione creatrice di Schumpeter. L’accumulazione per spoliazione infatti costruisce un altro dal capitale tramite la devastazione di forme di vita. L’eccessiva enfasi posta da Harvey talvolta sull’elemento dell’alterità rischia tuttavia di non dare conto del ruolo integrato di questo processo in una divisione internazionale del lavoro. Come proposto da Miguel Mellino, sarebbe più indicato parlare di sussunzione differenziale piuttosto che di altro dal capitale: il rapporto salariale infatti non è l’unica forma di subordinazione all’interno del capitale; ritenere che le zone spoliate producano un soggetto al di fuori delle relazioni di stampo capitalistico vuol dire fare del regime del salario la norma – convinzione che invece proverò a mettere parzialmente in questione proprio in questo capitolo. In particolare, Harvey fa dell’accumulazione per spoliazione una modalità neoliberale per ristabilire il comando del capitale sulle conquiste ottenute dai movimento sociali negli anni settanta e per affrontare la crisi del paradigma fordista. Il passaggio dall’accumulazione allargata a quella per spoliazione segnerebbe quindi la transizione dal dominio mediante egemonia al dominio mediante coercizione. Una simile lettura del presente forse rischia di marcare una distinzione storica troppo netta fra le due modalità di accumulazione, perdendo di vista il fatto che l’accumulazione originaria bastata sulla violenza possa convivere tranquillamente con pratiche di governamentalità come quelle illustrare da Pierre Dardot e Christian Laval a proposito del neo-liberismo.