• Non ci sono risultati.

La forza-lavoro fra disciplina e biopolitica

4.1 Fare classe

Iniziamo dalla prima questione, la produzione di un corpo collettivo a partire dai processi di assoggettamento e resistenza che si sviluppano continuamente nella società moderna. Marx parte da quella che considera un’acquisizione storica a partire dal 1789: la politica è l’ambito del corpo collettivo. Come nota Federico Tomasello (2012), “la cesura del 1789 ha imposto un mutamento di paradigma in cui l’azione di un corpo collettivo diviene condizione di pensabilità della politica”. Per Marx questo corpo collettivo però non è il popolo – del quale abbiamo visto alcuni aspetti della critica marxiana nel precedente capitolo a proposito del concetto di società civile – ma la classe. Continua Tomasello (2012): “il rapporto fra teoria, pratica e soggettività rivoluzionarie deve ora passare attraverso il filtro materiale dei bisogni ed è qui che all’ambiguo concetto di popolo Marx preferisce una figura più nettamente parziale: la classe”. Sebbene Marx109 faccia del concetto di classe uno dei capisaldi del suo

pensiero, ha dedicato poche pagine specifiche a questo tema. L’ultimo capitolo del III° libro del Capitale, quello intitolato Le classi, è significativamente incompleto. Marx riprende quando già detto nel capitolo XLVIII in cui riassume la natura trinitaria110 del capitale, ovvero

la tripartizione in cui si scinde il soggetto moderno. “I proprietari della semplice forza lavoro, i proprietari del capitale e i proprietari fondiari, le cui rispettive fonti di reddito sono salario, profitto e rendita fondiaria, in altre parole gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari

109 Per una rapida rassegna sulle concezioni pre-marxiane del concetto di classe si rimanda a Tronti 2008. 110 Qua occorre fare una importante precisazione. “È noto che Marx ha spietatamente scarnificata la «formula

trinitaria» dell’economia volgare, quella dottrina dei «tre fattori della produzione» – capitale, terra e lavoro – che vede in essi non soltanto tre diverse fonti di reddito ma anche fonti indipendenti e armonicamente cooperanti della creazione del valore […] Egli ha mostrato che appunto in questa formula – in quanto non esita a fare un fascio solo delle forme sociali storicamente determinate della produzione e degli elementi materiali del processo lavorativo reale – si compie «la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la reificazione dei rapporti sociali»” (Rosdolsky 1968, I, p. 51-52). Marx quindi critica la tripartizione dell’economia volgare fra profitto, rendita e salario dal punto di vista della loro oggettivazione; non si tratta di tre modi di produzione diversi e tra di loro indipendenti ma di tre forme diverse di distribuire il valore complessivamente prodotto di un unico processo di valorizzazione complessivo. “Si tratta quindi di rapporti o forme della distribuzione, poiché esprimono i rapporti in cui il valore complessivo prodotto ex novo è ripartito fra i possessori dei diversi fattori della produzione” (C, III, p. 995). Tuttavia questa tripartizione del prodotto si basa sulla specifica posizione occupata da ognuno all’interno del processo produttivo. Tale posizione, a sua volta, è determinata dalla tipologia di possesso esercitato. Le forme della distribuzione su cui si basa l’economia volgare quindi a Marx da punto di partenza per presentare le tre grandi classi di capitalisti, proprietari fondiari e forza-lavoro salariata.

fondiari, costituiscono le tre grandi classi della società moderna fondata sul modo di produzione capitalistico” (C, I, p. 1003). Questa formula trinitaria (cfr. C, III, capitolo XLVIII) è spesso – ma non sempre, come appunto mostrano gli scritti storici sulla Francia – ridotta al binomio profitto/salario, con la rendita ricondotta111 all’estrazione di lavoro

produttivo (come già teorizzato dai fisiocratici e ripreso da Marx fin dai Manoscritti). È interessante vedere come nella descrizione marxiana dei moti del 1848 in Francia il panorama delle forze in campo sia, da una parte, molto più variegato rispetto a logiche binarie o tripartitiche e, dall’altra, letto a partire dai rapporti di produzione incarnati dalle diverse soggettività: l’aristocrazia finanziaria e terriera, la borghesia industriale, la piccola borghesia cittadina, il proletariato industriale, i contadini, il sottoproletariato. Anche la forza dei corpi collettivi112 e l’esito113 dello scontro sono collegati allo sviluppo dei rapporti di produzione.

È lo stesso Marx a precisare che anche in Inghilterra questa astrazione di classi definite non si trova concretamente determinata nella forma pura. Si tratta di una tendenza, della propensione della società a dividersi in queste tre grandi classi. Anzi, ne Le lotte di classe in Francia, potremmo dire che Marx mostra come quel processo di generazione soggettiva messo in campo dai metodi di accumulazione originaria – quello che divide la società in due, capitalisti e salariati – proceda incessantemente nel divenire storico e si ripresenti in alcune occasione sotto la forma dell’antagonismo diretto fra l’alleanza dei capitalisti da una parte e il proletariato dall’altra. La repressione della rivolta di giugno è appunto l’evento storico che produce una netta divisione della società in due blocchi.

111 Questo non vuol dire che la proprietà fondiaria, o più in generale la rendita, non abbia una sua differenza specifica rispetto al profitto. Per Marx il capitalista è colui che interviene direttamente ad estorcere lavoro- vivo mentre il proprietario di una rendita si aggiudica parte della distribuzione del prodotto in base al possesso della terra. Inoltre senza la proprietà privata della terra la forza-lavoro non sarebbe costretta a mettersi a disposizione del comando del capitalista (cfr Rosdolsky 1968, I, pp. 54-58).

112 Marx sostiene che nella Francia del tempo i rentiers (in una convergenza fra finanza e proprietà fondiaria come già in Inghilterra, cfr LC, p. 141) prevalessero ancora sul profitto degli industriali; rispetto a questi ultimi, “il loro interesse consiste indubbiamente nella diminuzione dei costi di produzione, dunque nella diminuzione delle imposte che entrano nei costi di produzione; cioè nella diminuzione dei debiti dello Stato […]. Il loro interesse consiste dunque nell’abbattimento dell’aristocrazia finanziaria. […] L’industria francese non domina la produzione francese; perciò gli industriali francesi non dominano la borghesia francese” (LC, p. 142).

113 La rivoluzione del ‘48 fallisce, secondo Marx, per il mancato sviluppo del proletariato; questo deficit, a sua volta, è ricondotto al mancato sviluppo dell’industria. Solo Parigi e altri pochi centri avevano un tessuto industriale. Questa immaturità dei rapporti di produzione si riflette anche nei programmi politici delle diverse fazioni in lotta: come il capitale industriale era dominato dalla rendita, così le rivendicazioni del proletariato francese erano vicine a quelle dei free traders inglesi (LC, p. 154), tratto tipico di una società che deve ancora liberare il mercato da vincoli protezionistici.

Abbiamo già visto come questa tendenza, inoltre, vada riformulata all’interno di una visione storica della forma salariale come prodotto (e non presupposto) di una serie di istanze. Il salario dunque come risultato di una stratificazione di interessi, dalla liberazione dei vincoli politici medievali che finisce per costituire un soggetto libero (di vendere, comprare, produrre), alla centralità dell’estrazione efficiente di forza-lavoro, passando per le resistenze alla messa a disposizione. A partire da questa moltiplicazione delle forme del lavoro dipendente – indotto tramite coercizione economica o fisica – è già chiaro che diventa difficile concepire il concetto di classe come puramente descrittivo. A prima vista le classi si identificano per la comunanza delle fonti di reddito fra diversi individui. Come abbiamo già visto con l’analisi dei metodi di accumulazione originaria, la formazione di capitalisti si dà rispetto a quella di una forza-lavoro dipendente. E ognuno di questi due poli si dà rispetto al capitale e al lavoro così come sono strutturati in questa relazione. La forza-lavoro, in altre parole, si costituisce all’interno dei modi in cui è articolato il lavoro, così come il capitalista si forma all’interno delle logiche di accumulazione. Questo “darsi all’interno” equivale ad uno spazio di soggettivazione che può essere agito in una pluralità di direzioni.

Tuttavia questa descrizione, per ammissione dello stesso Marx, non è sufficiente a rispondere alla domanda “che cosa costituisce una classe?” (C, III, p. 1003). Secondo Tronti (2008, pp. 53-54), “Marx non è molto incline a definire le classi o la differenza tra le classi in base alla differenza tra i redditi. Questo è un aspetto molto importante: qui troviamo quel tratto anti- economicista di Marx. La classe, la classe sociale, non è definibile direttamente in base ad una sua collocazione economica. C’è qualcosa che interviene nel concetto di classe sociale che va oltre questa determinazione economica:[…] la classe come concetto politico. Quindi la classe non come categoria economica o determinazione sociologica, ma come concetto politico fondato su un dato economico. Ma questo concetto politico è continuamente in uscita e in esodo dalla prigione economica”. C’è dunque uno scarto, un margine di differenziazione fra critica dell’economia politica e formazione delle classi come soggettività. A partire dalla definizione di questo margine di soggettivazione vorrei evidenziare quattro nodi fondamentali del farsi classe, ovvero della produzione di un corpo collettivo. Si tratti di nodi perché – considerata anche la frammentarietà delle riflessioni marxiane sul tema – costituiscono più dei punti da sviluppare (come hanno fatto i vari marxismi storici) che delle posizioni da assumere o criticare.

Primo nodo: soggettività e storia.

Questo margine fra rapporti di produzione e forze soggettive è quello dello sviluppo storico, il movimento temporale nel quale è possibile produrre un corpo collettivo a partire dal corpo individuale. In conseguenza di ciò, per Marx la storia non può essere compresa se non nella produzione e nel confronto fra diversi interessi, condizioni di vita e aspettative di differenti soggettività. La storia è il processo all’interno del quale le soggettività si producono e si esprimono. “Tutte le lotte della storia [...] in realtà non sono che l’espressione più o meno chiara della lotta fra le classi sociali; […] l’esistenza e quindi anche le collisioni di queste classi sono a loro volta condizionate dal grado di sviluppo della loro situazione economica” (18B, p. 24). Le classi dunque sono soggetti che si producono nella loro relazione storica, processuale, contingente sulla base delle rispettive condizioni materiali. La teoria marxiana assume come proprio punto di vista quella di un soggetto storico, ossia di un soggetto che fa la storia perché è nel movimento storico che si definisce come soggetto. Secondo Lenin “Marx considerava la storia dal punto di vista di coloro che la fanno, anche se in precedenza non possono calcolare, senza sbagliare, le prospettive” (1907, p. 129). Lenin sottolinea l’importanza dell’esperienza storica del proletariato: anche se molto spesso i moti insurrezionali, le rivolte, i tumulti non culminano in una presa del potere o in un cambiamento dei rapporti di produzione essi costituiscono un accumulo di pratiche, idee, organizzazione che definiscono la classe operaia nel suo agire. Su questo carattere aleatorio del divenire storico ritorneremo nel corso del capitolo.

Tuttavia non si può ridurre l’interpretazione storica marxiana del ‘48 francese all’evoluzione ed esecuzione di semplici direttive economiche: la ricostruzione delle cause, degli obiettivi e delle scelte compiute dalle diverse fazioni intreccia i bisogni “materiali” dei diversi gruppi (preservare il proprio status economico, la tutela della proprietà, il rifiuto delle tasse, etc) con le aspirazioni (e le illusioni) politiche, le relazioni sociali, le contingenze storiche. Marx si concentra sul farsi soggetto politico delle classi, o meglio delle diverse frazioni di classe; non tanto sul modo in cui hanno ottenuto lo status sociale che ricoprono (proletari, industriali, etc) ma su come a partire dalla propria condizione economica le diverse classi lottino per il potere politico, per conquistare il governo (ossia una delle forme del potere) e come usino e possano usare questo potere.

Il salario, le condizioni di lavoro e vita in un dato momento e in un dato luogo sono aspetti della classe in sé. La classe per sé è invece lo svolgimento della classe, il suo dipanarsi all’interno di certe condizioni storiche, politiche, morali, ideologiche, il modo di attraversarle e ridefinirsi attraverso di esse. La classe per sé si costituisce a partire dalla classe in sé, le condizioni materiali sono la base su cui si sviluppano le prospettive politiche, le concezioni morali, gli stili di vita con cui la classe esprime la propria condizione. Quest’ultima, a sua volta, non è che il prodotto di un precedente movimento che ha trasformato e ridefinito i rapporti di produzione. Detto altrimenti, la soggettività è una produzione storica, ovvero produzione di un soggetto nel movimento storico, il quale “sa che per realizzare la propria emancipazione […] dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini” (GC p. 75).

Dalla forza-lavoro alla classe operaia: è nei processi storici che si costituiscono gli orizzonti politici. La soggettività non si produce solo nei luoghi dell’assoggettamento, dello sfruttamento, ma anche nei processi collettivi di rivendicazione ed emancipazione. Farsi classe vuol dire riconoscersi in quanto tale, costruire il proprio ruolo all’interno del movimento storico, il proprio spazio di agibilità all’interno di meccanismi di potere.

Secondo nodo: soggettività e relazione.

Quello di classe è un concetto di relazione, ovvero si diventa classe rispetto ad un’altra classe da cui ci si differenza sulla base di bisogni ed interessi. Tronti (2008) cita la Propositio XLVI dell’Etica di Spinoza per mostrare come la definizione di una classe passi attraverso il riconoscimento reciproco secondo odio o amore: il corpo collettivo non è una totalità chiusa, né elimina la dimensione individuale. Quello di classe è il movimento di soggettivazione del carattere sociale dell’individuo, la sua produzione all’interno di processi collettivi.

L’analisi marxiana è strettamente collegata con l’interpretazione storica di alcuni degli avvenimenti più importanti del tempo. Se la rivoluzione del 1789 è descritta da Marx come una trasformazione sociale che aveva liberato le forze produttive della modernità, nelle rivolte del ‘48 queste forze – quelle della neo-nata borghesia industriale – sono ricondotte ad una lotta per il monopolio del potere politico, per adeguare la forma politica ai rapporti di produzione. Allo tesso tempo, i tumulti del febbraio ‘48 sono descritti come un colpo a sorpresa, un evento di rottura che pose sulla scena per la prima volta il proletariato e così

facendo “apriva un’epoca nuova” (18B, p. 29) – il cui sviluppo è intimamente legato con quello del capitale industriale: “Lo sviluppo del proletariato industriale è condizionato, in generale, dallo sviluppo della borghesia industriale” (LC, p. 64). È così che l’affermazione della borghesia apre spazi di rivendicazione al proletariato.

Proprio a riguardo del ‘48, è interessante riprendere la categoria marxiana di interregno114

(anonymes Zwischenreich) come interstizio fra due regni, il cui carattere anonimo è dato dal fatto che nessuna delle forze in campo possa intestarsi la gestione del potere: “un periodo in cui la borghesia aveva già perduto la facoltà di governare la nazione e il proletariato non l’aveva ancora acquistata” (GC p. 70). Marx sottolinea come in quel periodo di vuoto di potere – fra crisi115 e rivoluzione116 – ci fosse un pieno di lotte politiche, un turbinio di

alleanze, prospettive, azioni messe in campo dalle diverse fazioni in lotta nel ‘48; la piccola borghesia ne è l’emblema perché oscilla sempre tra la borghesia e il proletariato, a seconda del momento e delle possibilità che le si paventano: “il conflitto ininterrotto tra la repubblica

114 “Quel periodo di anonimo interregno in cui le fazioni rivali della classe dominante cospiravano tutte assieme allo scopo di schiacciare il popolo, e cospirano l’una contro l’altra per restaurare ognuna la propria monarchia” (GC p. 53).

115 Qui occorre ribadire un pnto centrale del pensiero marxiano: le lotte politiche trovano particolare spazio di agibilità nei momenti di crisi economica, laddove il sistema di produzione non è più in grado di funzionare normalmente. Le lotte di classe apertesi con il ‘48 trovano una via d’uscita solo quando ripartono la produzione e il commercio estero grazie all’apertura di nuovi mercati (Spagna, Messico) e alla scoperta di giacimenti di metalli preziosi (oro della California). È dapprima in Inghilterra in quanto centro del mercato mondiale che nel 1847 scoppia la crisi commerciale che dà il là all’instabilità sociale sfociata nel ‘48. Mentre però quest’ultima, dato il suo maggior sviluppo, è più in grado di compensare le difficoltà economiche, negli altri paesi la crisi economica lascia meno spazi di mediazione e apre quindi il campo al conflitto politico (LC, p. 166).

Per Bensaïd (2014) “Marx non si accontenta pertanto di interpretare la successione cronologica come una relazione causale. Svela la logica intima delle crisi economiche e finanziarie. Ma la crisi economica non è […] la causa meccanica delle crisi politiche, ma solo la loro condizione di possibilità. La trasformazione di una crisi in crisi rivoluzionaria dipende dall’attitudine degli attori a cogliere l’occasione strategica decisiva del momento”. La categoria di crisi è interpretata come una faglia nella normalità, un crinale tra diverse possibilità che il lato oscuro del progresso ovvero la possibilità di deviare dalla linea. La crisi, dunque, trasforma il campo di possibilità; chiarifica gli antagonismi in campo; gerarchizza le contraddizioni; moltiplica e unisce.

116 Sul concetto di rivoluzione si rimanda a Bensaïd 2014. L’autore evidenzia come si tratti di una categoria centrale per il pensiero politico e la storia moderna. Il 1789 è considerato il modello storico delle speranze d’emancipazione. “Si può dire, a grandi linee, che la rivoluzione (a partire dalla Rivoluzione francese) è diventata la formula algebrica del cambiamento sociale e politico nelle società contemporanee”. Marx, sempre secondo Bensaïd, ne fa slittare il senso: se il 1789 rappresentava il modello del rivolgimento della forma politico, il 1848 invece esemplificava il rovesciamento dei rapporti sociali. La descrive come incontro fra durata ed evento, condizioni storiche oggettive e incertezza dell’azione oggettiva. Il movimento rivoluzionario richiede quindi uno sforzo soggettivo delle forze coinvolte. Questo sforzo consiste nell’organizzazione della volontà (di cambiamento) e produzione di un’orizzonte d’attesa (di una alternativa). Potremmo dire in Marx questi elemento corrispondono alle categorie, rispettivamente, di classe e comunismo, intese quindi non come concetti descrittivi ma come dispositivi per la prassi.

costituita e la Costituente, che ad ogni istante respingeva la rivoluzione al suo punto di partenza, che ad ogni istante trasformava il vincitore in vinto, il vinto in vincitore, e in un attimo rovesciava le posizioni dei partiti e delle classi, le loro divisioni e le loro unioni; […] in questo turbine di movimento, in questa tormentosa inquietudine storica, in questo drammatico flusso e riflusso di passioni, speranze e delusioni rivoluzionarie, le diverse classi della società francese erano costrette a misurare le epoche del loro sviluppo a settimane, come prima le avevano contate a mezzi secoli” (LC, p. 119). L’accelerazione del tempo storico è parallela all’evoluzione dei soggetti sociali attraverso i processi politici. L’interregno è dunque il periodo delle alleanze fluide, il momento in cui il carattere aperto del farsi classe si sviluppa vorticosamente senza sedimentarsi a lungo, mette a nudo l’aspetto relazione del farsi classe.

Terza nodo: soggettività e conflitto.

La classe è per definizione lotta di classe: “i singoli individui formano una classe solo in quanto devono condurre una lotta (Kampf) comune contro un’altra classe” (MPC, p. 54). Questa lotta è contrasto (Gegensatz) fra bisogni e aspirazioni differenti, ognuna legittima. Ad esempio, rispetto alla regolazione della giornata lavorativa – in cui il capitalista vorrebbe utilizzare la forza-lavoro il più a lungo possibile e l’operaio invece vorrebbe preservare il suo tempo di vita – “ha dunque luogo un’antinomia: diritto contro diritto […]. Tra diritti uguali decide la forza (Gewalt)” (C, I, p. 294). Sostiene Basso (2009) che “l’idea secondo cui la classe esiste, in prima istanza, nella dimensione della pratica, e in particolare nella lotta, può mettere in discussione il riconoscimento di un’omologia nel rapporto fra borghesia e proletariato, visto che, nel Kampf, si costituiscono e si trasformano costantemente le relazioni fra gli individui e le classi”.

In Storia e coscienza di classe Lukàcs afferma che in ogni epoca storica le classi hanno una inconsapevole consapevolezza della propria condizione. Questa inconsapevolezza si tramuta in coscienza quando il tratto antagonistico del rapporto di classe si fa evidente. Come scrive Trontia riguardo: “la differenza fra la classe operaia e le classi oppresse, il salto che fa fare la classe operaia alla storia delle classi oppresse è l’assunzione della propria classe in maniera cosciente, consapevole” (Tronti 2008, p. 57). Per Lukàcs lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ha permesso a questo antagonismo di diventare intellegibile poiché spogliato di

altri fattori. Lukàcs quindi interpreta la lotta di classe come lotta per il disvelamento di questo rapporto. Un divenir chiaro che implica il passaggio da classe sociale a soggettività politica e che pone il problema di cosa fa un soggetto. Abbiamo provato a mostrare fin dal precedente