• Non ci sono risultati.

Aureolo e Pérez sulla la natura dell’ente di ragione

3. La logica e il suo oggetto formale

3.3. Aureolo e Pérez sulla la natura dell’ente di ragione

Nelle Disputationes de sacrosancta Trinitate, corso tenuto nella prima metà degli anni ’30 del XVII secolo, Pérez torna sui temi della generazione del Verbo divino come intellezione passiva e obiettiva e, quindi, anche su questioni riguardanti la natura e le operazioni dell’intelletto umano. Si era detto in precedenza che in Dio bisogna distinguere un’intellezione formale e attiva, identificata con lo stesso intelletto divino, e un’intellezione passiva e oggettiva – distinta virtualmente dalla prima intellezione – che rappresenta lo stesso Verbo divino.

Pérez non manca di ribadire questa dottrina, rispondendo a un argomento contrario a qualunque distinzione interna all’atto di intellezione: argomento con il quale, come vedremo tra poco, anche Pietro Aureolo si era misurato. L’argomento è il seguente:

40 Ibi, p. 221a, n. 10: «Deinde differt hic modus considerandi, quia naturaliter debet praemitti aliis, logicus enim modus considerandi est directivus aliarum scientiarum».

61

negli intelletti creati non si distingue un’intellezione obiettiva da un’intellezione formale e attiva, nemmeno virtualmente; quindi questo non può avvenire nemmeno in Dio41.

Un tale argomento, però, trova Pérez in profondo disaccordo, perché per salvare la semplicità di Dio, esso mette a rischio il dogma trinitario. “Intendere”, spiega il gesuita navarrino, significa possedere virtualmente una forma per la quale l’oggetto è reso inteso. Inoltre, “rendere inteso l’oggetto” non significa altro che produrre qualcosa nell’“essere rappresentato”, attraverso la produzione della forma rappresentante o, per lo meno, attraverso la produzione reale di un predicato identificato con la forma rappresentante. Ora, ciò che produce qualcosa nell’essere rappresentato non può che identificarsi con la stessa natura intelligente42. Inoltre, “costituire l’oggetto nell’essere inteso” significa “farlo presente”, “porlo nell’essere visibile” (conspicuum), “veduto” (prospectum), ovvero “produrlo nell’essere intelligibile”. Per questa produzione l’oggetto è posto di fronte all’intelligente, grazie a un’azione realmente produttiva, svolta realmente o virtualmente dalla natura intelligente43. Se non che, già sappiamo che “intendere” non è altro che “formare un verbo”. Per questo, “produrre l’oggetto nell’essere inteso” significa “dire l’oggetto”; dove questo “dire” è una denominazione estrinseca dovuta al verbo mentale prodotto dall’intellezione44.

A partire da questa dottrina, che in qualche modo già avevamo introdotto, Pérez precisa che per intendere l’“essere prodotto” – cioè il lato passivo dell’atto di intendere – è necessaria una forma reppresentante (il lato attivo dell’intendere), detta anche “intellezione formale”; o per lo meno è necessario un “predicato identificato con la stessa forma rappresentante”45. Se non che, questo predicato, che sta in identità con il lato attivo dell’intellezione, sarà riconosciuto da Pérez come lo stesso lato passivo

41 ANTONIO PÉREZ S.J., Disputationes de sacrosancta Trinitate (d’ora in poi, De Trinitate), disp. 3, cap. 3, OP I, p. 488b, n. 44: «Obijcitur orimo in creatis non distingui intellectionem obiectivam ab activa et formali, ne virtualiter quidem. Ergo nec in divinis».

42 Ibi, p. 488b, n. 45: «Respondeo intelligere esse habere virtualiter formam qua obiectum reddatur intellectum. Obiectum autem reddi intellectum est produci in esse repraesentato per productionem formae repraesentantis aut saltem per productionem reale praedicati identificati cum ipsa forma repraesentante». 43 Ibi, p. 488b, n. 45: «Si autem me quaeras a quo debeat tale obiectum produci in esse intellecti et repraesentato, respondeo realiter produci debere ab aliquo identificato cum natura intelligente. […] Hoc igitur constituamus obiectum intelligi esse fieri praesens, poni in esse conspicuo et prospecto et produci in esse intelligibili, qua productione ponatur in conspectu et coram intelligente, idque per actionem realiter productivam, perfectam realiter aut virtualiter a natura intelligente.».

44 Ibi, p. 488b, n. 45: «Est etiam obiectum intelligi idem quod dici obiectum ab aliquo identificato cum natura intelligente. Dici autem est produci obiectum per denominationem a verbo producto et dicto, quod nemo negat. Quid enim est dicere, nisi proferre et facere verbum seu loqui?».

45 Ibi, p. 488b, n. 46: «Quia ergo debet ad intelligendum produci aut forma repraesentans, quae intellectio formalis dicitur, aut praedicatum identificatum cum forma repraesentante».

62

dell’intellezione, cioè come lo stesso “essere prodotto nell’essere rappresentato”46; a riprova del fatto che lato attivo (forma rappresentante o atto dell’intendere) e lato passivo dell’intellezione (predicato o essere prodotto dell’oggetto nell’essere rappresentato) sono indisgiungibili e indistinguibili tra loro nell’atto del conoscere. Lo stesso accadrà, come vedremo in seguito, tra intellezione e specie impressa.

Il procedere nello studio dell’atto di intellezione attraverso l’analisi di significati correlativi porta Pérez a sostenere, almeno per l’intelletto umano, che attività e passività dell’intelletto sono punti di vista astratti – se così possiamo esprimerci – sullo stesso atto: il “produrre il verbo” e l’“essere prodotto del verbo” sono lo stesso. Non si fatica a riconoscere, qui, una ripresa radicale del principio aristotelico per il quale il conosciuto in atto e il conoscente in atto sono lo stesso47. Ma questa medesimezza deve essere precisata, e su questo punto Pérez marca una certa distanza da una delle sue fonti privilegiate: il francescano Pietro Aureolo.

Ora, mentre nell’intelletto divino l’intellezione è identica all’Essenza divina ed è, dunque, formalmente a se e non prodotta, l’intelletto umano produce realmente l’intellezione48. Tuttavia, non è sufficiente, per spiegare l’intellezione divina, il

riferimento all’aseità dell’intellezione formale e all’identità di quest’ultima con l’Essenza divina. Infatti, l’intellezione è sempre produttiva di qualcosa e, nel caso di Dio, è produttiva del Verbo divino. Quest’ultimo, poi, è generato dall’intellezione formale divina nell’essere rappresentato. Da qui viene la necessità di salvaguardare l’identità reale in Dio tra l’essenza e il Verbo, ma anche la necessità di introdurre una distinzione virtuale tra il Verbo divino e l’Essenza divina, che è poi la distinzione tra il formale e l’oggettivo dell’intellezione divina, la quale coincide pienamente con Dio49.

Riassumendo, possiamo dire che nel caso dell’intellezione umana il formale (il produrre il verbo) e l’oggettivo (il verbo prodotto) – corrispondenti rispettivamente

46 Ibi, p. 488b, n. 46: «Quid enim aliud est intellectio passiva iuxta dicta, nisi illud praedicatum identificatum cum formali intellectione a cuius praedicati productione dicitur obiectum productum in esse repraesentato et intelligibili?».

47 Cfr. ARISTOTELES, De anima, III, 4, 430a3-4; ibi, III, 5, 430a20.

48 ANTONIO PÉREZ S.J., De Trinitate, op. cit., OP II, p. 488b, n. 46: «Adde intellectionem creatam non posse vitaliter haberi quin realiter a principio intrinseca producatur. At in divinis intellectio formalis non est producta, sed omnino est a se».

49 Ibi, pp. 488b-489a, n. 46: «Non tamen sufficit, ut ratione ipsius dicatur obiectum productum aliquo modo. Constat enim nihil denominari productum nisi ratione alicuius producti. Quaerendum ergo fuit aliquod aliud praedicatum identificatum cum natura a cuius productione dicatur obiectum illius intellectionis productum in esse repraesentato. Hoc dicimus esse verbum Dei et ipsam filiationem, quea identitificata est realiter cum intellectione et natura divina et ab illis virtualiter intrinsece distincta».

63

all’attivo e al passivo dell’intellezione – si identificano realmente, sebbene l’atto di intellezione non sia a se, ma prodotto dalla natura intelligente. Nel caso dell’intellezione divina, invece, l’intellezione formale è la stessa natura intelligente, dunque è a se e non prodotta. Infine, l’intellezione oggettiva – il Verbo divino –, pur identificandosi realmente con l’intellezione formale, si distingue da essa “in modo virtualmente intrinseco”.

Sebbene la dottrina di Pérez abbia molti punti in comune con la riflessione di Pietro Aureolo sulla natura degli atti intenzionali e la produzione del verbo da parte dell’intelletto divino e umano, il gesuita navarrino ricorda che il francescano francesce, in diversi passi del suo Commento alle Sentenze, fu tra coloro i quali teorizzarono la presenza, anche nell’intelletto creato, di una distinzione a parte rei tra intellezione formale e intellezione oggettiva, dovuta alla natura stessa delle due intellezioni50. Aureolo, spiega Pérez, indicò nell’intellezione passiva (l’essere prodotto o l’essere inteso) ciò che i filosofi chiamano “ente di ragione” (ens rationis), ritenendo che una tale intellezione stesse dalla parte dell’oggetto. Ciò non è da intendere nel senso che, per Aureolo, l’ente di ragione sia da porre assurdamente fuori dall’intelletto, ma piuttosto nel senso che esso può apparire ed è conosciuto sempre insieme all’oggetto. Infine, il francescano fu chiaro nell’indicare che tale oggetto, quando conosciuto, può essere identificato con l’ens rationis per una identità di tipo intenzionale (identitas intentionaliter) e per una qualche identità di indistinzione (identitas indistinctionis), non certo per una identità somma e perfetta51.

Questa identità di indistinzione o intenzionale è dovuta al fatto che l’ente di ragione non è altro che l’intellezione passiva in senso generico, ossia il semplice “essere prodotto nell’esse apparens”. Essa necessita, però, di essere accompagnata da un contenuto determinato, ossia dall’oggetto, non in quanto appare, ma in quanto è quel tale oggetto determinato. Senza l’oggetto, infatti, l’ens rationis non potrebbe apparire e, allo stesso modo, senza ens rationis non vi sarebbe oggetto inteso52. Da quanto si

50 Ibi, p. 489a, n. 47: «Moneo esse qui huic argumento respondeant etiam in creatis intellectionem formalem distingui a parte rei ab intellectione obiectiva et passiva. Ita passim Aureolus in I Sent.». 51 Ibi, p. 489a, n. 47: «[Aureolo] placuit hanc intellectionem passivam esse quam philosophi ens rationis appellant existimatque illam se tenere ex parte obiecti, non quidem quia intrinsece in intellectu non sit, sed quia cognoscitur et apparet simul cum obiecto, quod dixit esse idem cum ente rationis, non quidem identitate summa et perfecta, sed intentionaliter et quadam identitate indistinctionis».

52 Ibi, p. 489a, n. 47: «Quia videlicet nec hoc ens rationis sine obiecto intelligi potest, neque obiectum universim ab ente rationis praescindi et sine illo cognosci».

64

capisce, dunque, nella dottrina di Aureolo sarebbero in gioco tre elementi: 1) il produrre l’oggetto nell’esse apparens (o intellezione attiva e formale), 2) l’essere prodotto dell’oggetto nell’esse apparens, ossia l’intellezione passiva e oggettiva, che è l’ente di ragione; 3) infine, l’oggetto come contenuto dell’intellezione passiva.

Il dettato piuttosto contratto di Pérez consente, tuttavia, di risalire a uno dei luoghi testuali a cui il gesuita fa riferimento. In effetti, nel Commento alle Sentenze, Lib. I, d. 9, q. 1, Aureolo aveva spiegato che

il concetto della rosa, sebbene non sia un puro “essere concepito” – o, meglio, è con questo [ossia con l’essere concepito] la rosa –, tuttavia, non può essere suddiviso (resolvi) nella realtà della rosa e nello stesso “essere concepito”, come in due [elementi]. Al contrario, il concetto della rosa si offre come qualcosa di semplicissimo e impossibile ad essere separato in due [elementi]. E allo stesso modo, il Verbo in

divinis – che include l’“essere concepito” o l’“essere generato” passivamente e, con

questo, l’Essenza divina – non può essere suddiviso (resolvi) per un qualche pensiero (intellectum) nell’“essere generato” e nell’essenza [divina]. Al contrario, [esso] è qualcosa di semplicissimo a causa dell’unità di indistinzione sotto tutti gli aspetti (unitatem indistinctionis omnimodae), che è tanto realmente nel concetto divino, quanto lo è intenzionalmente nel concetto della rosa formato dal nostro intelletto53.

Secondo Aureolo, saebbe possibile progettare – almeno ipoteticamente – di scomporre il concetto di qualcosa secondo due aspetti diversi: “l’essere concepito” e il suo contenuto. Se non che, il concetto si offre sempre all’intelletto secondo una certa unità che, nel caso della conoscenza divina, è un’unità reale sotto tutti i punti di vista, mentre nel caso del concetto umano, è un’unità intenzionale o di indistinzione. Ora, l’“essere concepito”, che poi equivale all’apparire del contenuto, distinto analiticamente

53 PETRUS AUREOLUS, Scriptum super primum Sententiarum, I, d. 9, pars 1, http://www.peterauriol.net/auriol-pdf/SCR-9-1.pdf, ed. provisoria Russell L. Friedman-O. Nielsen-C. Schabel, Vb 169ra: «Conceptus rosae, licet non sit purum concipi, immo cum hoc est rosa, resolvi tamen non potest in realitatem rosae et ipsum concipi tamquam in duo, immo conceptus rosae obiicitur tamquam quid simplicissimum, et impossibile separari in duo. Et eodem modo Verbum in divinis, quod includit concipi seu generari passive et cum hoc divinam essentiam, resolvi non potest per aliquem intellectum in generari et essentiam, immo est quid simplicissimum propter unitatem /Br 146ra/ indistinctionis omnimodae, quae tanta est realiter in conceptu divino, quanta est intentionaliter in conceptu rosae ab intellectu nostro formato». Si può considerare anche il seguente testo: PETER AUREOLUS, Commentaria in

primum librum Sententiarum. Pars prima <-secunda>, I, d. 33, a. 3, Constanzo Boccadifuocco da

Sarnano, Typographia Vaticana, Roma 1596, p. 739: «Quod obiicitur intellectui est res vera, nec solum res, ut concepta, ita, quod ad sui constitutionem incurrit passiva conceptio et rosarum realitas, quae sunt extra. Nihilominus resultat unus simplex conceptus, in quo sunt constituentia indistinguibilia penitus, quae non sunt idem in recto. Nam intellectus aliquando dicit rosam sic acceptam non esse nisi rem, nec tamen tunc excludit concipi esse conceptum, aliquando vero dicit, quos est sola apparentia vel conceptus, nec tamen excludit, quin sint res apparentes et ita realitas et apparentia adunatur in eis de quibus constat, quod sunt indistinguibiles invicem secundum quamcumque apprehensionem». Riguardo alla discussione del concetto di esse apparens e alla dottrina dell’intenzionalità di Aureolo, si veda: O. GRASSI,

65

dal contenuto che appare, è un certo essere. Aureolo paragona questo essere a quello dell’ente di ragione, a cui Averroè e Aristotele avevano rispettivamente dato il nome di “ente nell’anima cogitativa” (ens in anima cogitativa) e di “ente in senso logico” (entia

modo logico)54.

È chiaro, allora, perché Pérez precisi che, secondo Aureolo, l’ente di ragione prodotto dall’intelletto umano, con l’atto mediante il quale conosce l’oggetto, dovrebbe costituire l’oggetto proprio della logica. Se non che, Pérez rifiuta la dottrina dell’identità – o unità, secondo il vocabolario di Aureolo – di indistinzione tra oggetto ed ente di ragione; non perché non riconosca la presenza nell’intellezione di qualcosa di oggettivo, ma perché – per il gesuita navarrino – il lato oggettivo dell’intendere in atto, non è altro che lo stesso atto di intendere che, essendo intrinsecamente riflessivo, inevitabilmente si fa oggetto a se stesso, secondo una dottrina remotamente suareziana55 sulla quale torneremo nel prosieguo. Si tratta comunque di quella capacità, evocata precedentemente da Pérez, che ogni atto conoscitivo possiede, di rappresentare indirettamente (in actu exercito) se stesso.

Pérez rivede la dottrina dell’ente di ragione di Aureolo attraverso la dottrina dell’intrinseca riflessività degli atti intenzionali. L’interpretazione pereziana della dottrina di Aureolo insiste nel vedere nel concetto della cosa il rischio di uno sdoppiamento o ripetizione tra la cosa che appare e il suo apparire passivo, sebbene il francescano utilizzi più volte l’espressione “identità di indistinzione”, piuttosto che “identità di ripetizione”: intenzionato a scongiurare qualunque equivoco56.

Il senso della critica pereziana ad Aureolo sembra essere il seguente. L’introduzione della riflessività dell’atto intellettivo, da cui deriva il particolare modo pereziano di intendere l’ente di ragione, sembra consentire una vera identità di

54 PETRUS AUREOLUS, Scriptum super primum Sententiarum, I, d. 9, pars 1, op. cit., Vb 169rb: «Res in esse apparenti nihil est in se nisi deminute et metaphorice, eo modo quo entia rationis dicuntur esse; et ea quae non sunt simpliciter, sunt in anima, ut dicit Commentator IX Metaphysicae, commento 7; ait enim quod entia quae non sunt extra animam, non dicuntur esse simpliciter, sed dicuntur esse in anima cogitativa; et VII Metaphysicae dicit Philosophus quod negationes dicuntur entia modo logico; et similiter in XII».

55 ANTONIO PÉREZ, De Trinitate, disp. 3, cap. 3, op. cit., OP I, p. 489a, n. 47: «Circa tale ens rationis ab humano intellectu fabricatum existimat etiam ille logicam versari. Nobis tamen nostra sententia magis placet. Nec tamen Aureolo negamus aliquid obiectivum ab intellectu nostro produci cum intelligimus. […] Sed illud ego non distinguo ab intellectione nostra quae, ut ibi ex Suario probavi […] semper supra se reflectitur, ac proinde locum obiectivuum habet».

56 Ibi, p. 489a, n. 47: «Solet autem Aureolous, ut supra vidimus, hanc inseparabilitatem appellare identitatem non repetitionis, sed indistinctionis».

66

indistinzione, che in Aureolo sarebbe piuttosto un’identità di ripetizione, al di là delle intenzioni dello stesso autore. Il motivo della polemica pereziana non riguarda l’identità di indistinzione o l’identità intenzionale in sé, ma il modo di intendere una delle due componenti dell’identità – ossia, l’ente di ragione – e in generale il rapporto tra la dimensione attiva e la dimensione passiva dell’intellezione.

Secondo Pérez, nella gnoseologia di Aureolo l’“essere concepito”, ovvero l’“apparire di ciò che appare” – l’ente di ragione – e il “ciò che appare” rischiano di essere intesi come due enti giustapposti, dei quali si potrebbe affermare soltanto in un secondo momento l’identità. Al contrario, per il gesuita navarrino, l’ente di ragione non è altro che il riferimento indiretto verso se stesso che l’atto intellettivo – e, in generale, ogni atto intenzionale – implica per propria natura. Si tratta, dunque, di partire dall’unità o dall’identità dell’apparire e del contenuto dell’apparire, per analizzare successivamente i due lati in modo distinto. Quella di Aureolo non sarebbe, dunque, una vera identità di indistinzione, ma piuttosto un’identità di ripetizione.

La distinzione tra identità di ripetizione e identità di indistinzione si trova proprio negli scritti di Aureolo all’interno di un contesto riguardante la teologia trinitaria. Nel Commento alle Sentenze, Aureolo distingue i due tipi di identità nel modo seguente. Si parla di “identità di ripetizione” quando la stessa cosa è ripetuta o 1) mediante lo stesso termine (ad esempio, “Socrate, Socrate”); o 2) mediante lo stesso concetto, ma con un altro termine (ad esempio, “Marco Tullio”); oppure 3) mediante un altro termine e un altro concetto (ad esempio “Socrate, uomo, animale”)57. La regola fondamentale dell’identità di ripetizione dice che ovunque vi sia una tale identità ciò in cui consiste la ripetizione è di necessità un ente di ragione e include qualcosa che è prodotto dall’intelletto. Ad esempio, il concetto di “uomo” che ripete “Socrate” dice lo stesso Socrate, non in quanto costituisce qualcosa di esterno ad esso, ma piuttosto in quanto appartiene alla cosa per il fatto che è concepita58. A ben vedere, Pérez ha ragione nel

57 PETRUS AUREOLUS, Scriptum super primum Sententiarum, I, dist. 1, a. 4, sec. 6, Scriptum in primum

librum Sententiarum. Prooemium-dist. 8, ed. Eligius Buytaert, The Franciscan Institute (Franciscan

Institute Publications, Text Series, 3), St. Bonaventure (N.Y.), 1952-1956, [2 voll.], vol I, p. 365, n. 99: «Primo quidem, ut sit identitas repetitionis. Contingit autem idem repeti, aliquando quidem sub eadem voce, ut cum dicimus Sortes Sortes; aliquando autem sub alia voce et eodem conceptu, ut cum dicitur Marcus Tullius; aliquando vero sub alio conceptu et alia voce ut cum dicitur Sortes, homo, animal; homo namque non aliam rem dicit a Sorte, sed eadem rem repetit, sub alio tamen conceptu».

58 Ibi, pp. 364-365, p. 99: «Est autem regula generalis quod, ubicumque est identits repetitionis, videlicet quod intellectus repetit eandem rem sub alio tamen conceptu, ibi per necessitatem alterum est ens rationis

67

dire che l’identità posta da Aureolo tra apparire o essere concepito e il contenuto dell’apparire è un’identità di ripetizione, poiché il contenuto è un ente reale (ad esempio, la rosa), mentre il suo essere concepito è un ente di ragione. Aureolo, invece, parla di un’identità di indistinzione tra apparire e contenuto che appare contravvenendo alla sua stessa dottrina.

Si parla, infatti, di “identità di indistinzione” o di “unità di indistinzione” quando due cose sono indistinte l’una dall’altra, pur non essendo la stessa cosa. Ad esempio, la dolcezza o l’asprezza di una superficie sono diverse dalla superficie stessa, ma sono indistinguibili da essa. Per questo, l’intelletto non le può concepire separatamente. La superficie, infatti, si dà sempre secondo una particolare conformazione59. La regola generale che riguarda l’identità di indistinzione dice che ovunque vi sia una tale identità, i due estremi dell’identità sono essenzialmente distinti e nessuno dei due è un ente di ragione, né ad essi si mescola qualcosa di prodotto dall’intelletto60. Quindi: nella misura

in cui l’apparire di ciò che appare, ovvero l’essere concepito, è un ente di ragione, non è possibile, come vuole Aureolo, che tra contenuto dell’apparire e apparire vi sia identità di indistinzione.

Nella dottrina di Aureolo i due tipi di identità appena presentati sono il corrispettivo dei primi due modi dicendi per se. Infatti, ogni predicazione per se – nota Aureolo – comporta un qualche tipo di identità tra soggetto e predicato61. Come è noto, nel primo

modo dicendi per se, A si predica di B, poiché A appartiene all’essenza di B. A questo primo modo è legata l’identità di ripetizione, per la quale si ripete la medesima cosa per mezzo di un altro concetto che non è estrinseco, ma intrinseco alla cosa stessa. Ciò

Documenti correlati