• Non ci sono risultati.

L’enunciare: logica dell’intelletto e logica affettiva

3. La logica e il suo oggetto formale

3.4. L’enunciare: logica dell’intelletto e logica affettiva

Restringendo la considerazione degli atti intenzionali all’intelletto e alla volontà, è possibile – secondo Pérez – formulare una precisa definizione logica e non fisica di queste due facoltà. Tale definizione è desunta dagli oggetti formalissimi che sono noti di per sé, ma anche grazie all’esperienza73. Pertanto, la definizione logica di intelletto è formulata da Pérez nei seguenti termini:

Dico […] che l’intelletto è la facoltà il cui oggetto formalissimo è il vero o il vero e il falso (infatti, la riprovazione del falso si riduce all’approvazione del vero). […] Ora, il vero o il falso è lo stesso enunciabile (enuntiabile) o il conoscibile in modo complesso (cognoscibile complexe), cioè l’affermabile o il negabile – accompagnato dall’è o dal non è – per la quale definizione nulla è più noto all’intelletto umano74.

Dal punto di vista logico, quindi, l’oggetto formalissimo dell’intelletto è il vero che si esprime nel giudizio affermativo o negativo. Pérez aggiunge che anche il falso, insieme al vero, potrebbe essere oggetto dell’intelletto, ma solo in quanto la riprovazione del falso si riduce all’approvazione del vero. Tuttavia, non ogni conoscenza è un giudizio. Su questo Aristotele era stato chiaro: vi è una conoscenza degli indivisibili nella quale non è possibile il falso e una conoscenza che procede per sintesi di nozioni nella quale è possibile il vero o il falso75. È questo secondo tipo di conoscenza che Pérez ha in mente quando parla dell’oggetto formalissimo dell’intelletto, ricordando che, se è vero che non ogni atto dell’intelletto è un’enunciazione, tuttavia la falcoltà intellettiva è enunciativa e ogni suo atto o è un’enunciazione o è una parte che compone formalmente o virtualmente l’enunciazione76.

73 ANTONIO PÉREZ S.J., De virtutibus theologicis, disp. 7, cap. 1, op. cit., OP II, p. 284a, n. 19: «Ex his sensibilibus ad intellectum et voluntatem et eorum actus ascendamus iam distinguendaque sunt in praesenti voluntas et intellectus non physicis definitionibus, sed logicis, sumptis ex obiectis formalissimis nobis experimento et per se notis».

74 Ibi, p. 284a-b, n. 19: «Dico ergo intellectum esse potentiam cuius obiectum formalissimum est verum seu verum aut falsum (nam reprobatio falsi ad approbationem veri reducitur). […] est autem verum aut falsum enuntiabile ipsum seu cognoscibile complexe, id est affirmabile aut negabile, apposito est aut non

est, qua diffinitione nil est notius menti humanae».

75 ARISTOTELES, De anima, III, 6, 430a26-28: «L’intellezione degli indivisibili riguarda le cose circa le quali non è possibile il falso. Nelle cose, invece, riguardo a cui sono possibili il falso e il vero, c’è già una sintesi di nozioni, le quali formano come un’unità».

76 ANTONIO PÉREZ S.J., De virtutibus theologicis, disp. 7, cap. 1, OP II, p. 284b, n. 19: «Licet vero non omnis actus intellectus sit enunciatio, at potentia ipsa est enunciativa et quilibet actus aut est enunciatio aut pars enunciationis, eam formaliter aut virtualiter componens».

74

Nel corso De providentia Dei, tenuto a Salamanca nell’anno 1635-1636, Pérez era stato ancora più chiaro riguardo al tema della verità.

È chiaro che il vero in senso primario è ciò che è da affermare, il falso è ciò che è da negare. La verità trascendentale della cosa (veritatem transcendentalem rei) per la quale cioè l’ente è un vero ente, è l’intelligibilità (intelligibilitatem) o l’affermabilità per mezzo del giudizio (affirmabilitatem per iudicium), per il quale asseriamo correttamente che “l’ente è l’ente”. E la stessa è la ragione riguardo a qualsiasi predicato che si dice veramente di qualcosa in senso reale77.

Il testo mostra chiaramente che la verità trascendentale è la stessa intelligibilità o affermabilità della cosa attraverso il giudizio. Intendere secondo verità è giudicare o enunciare. Il vero in senso proprio, in senso trascendentale, è ciò che ha la forma del giudizio o dell’enunciazione.

Per enunciazione in senso proprio bisogna intendere tutti i giudizi umani naturali che constano di soggetto e predicato come termini distinti, mediante i quali si afferma o si nega qualcosa di qualcos’altro. Pérez precisa anche che, in senso largo ed eminente, tali enunciazioni imitano le conoscenze angelica e divina, sebbene queste siano indivisibili78. Si tratta, dunque, di comprendere che anche Dio e gli angeli hanno un loro linguaggio – una locutio –, che pure si distingue materialmente e formalmente da quello umano. A proposito della locuzione, Pérez scrive:

dico che la locuzione interna è la conoscenza giudicante [cognitio iudicativa] della cosa da manifestare e della volontà per la quale colui che parla [loquens] vuole che colui che ascolta conosca quella sua conoscenza, in virtù della stessa conoscenza ordinata per sua natura alla manifestazione volontaria, dipendente dalla libertà di colui che parla. E così la locuzione è conoscenza giudicante della cosa, conoscenza anche della volontà manifestativa, conoscenza riflessa di sé e conoscenza riflessa della capacità che la stessa conoscenza possiede di inferire la conoscenza di sé e del proprio oggetto in altro. Tuttavia, essendo questa conoscenza diversa dalle altre conoscenze, non è strano se questa è per sé visibile da altri, le altre non essendoci, a meno che non

77 ANTONIO PÉREZ S.J., Disputationes de providentia Dei (d’ora in poi, De providentia Dei), disp. 3, cap. 2, OP I, p. 323b, n. 33: «Patet primo verum esse quod est affirmandum, falsum quod est negandum: veritatem transcendentalem rei, qua scilicet ens est verum ens, esse intelligibilitatem seu affirmalitatem per iudicium, quo recte asserimus ens est ens: et eadem est ratio de quolibet praedicato, quod dicitur alicui esse vere a parte rei».

78 ANTONIO PÉREZ S.J., De virtutibus theologicis, disp. 7, cap. 1, op. cit., OP II, p. 284b, n. 19: «Voco autem enunciationem proprissime quales sunt omnes humanae naturales, eam quae constat praedicato et subiecto tanquam terminis distinctis et, ut aiunt, quippiam de quopiam affirmat aut negat. Late vero et eminenter quae licet sit indivisibilis aequivale enunciationi compositae ut aequivalet divina et angelica cognitio».

75

intervenga questa [conoscenza]. […] Le altre conoscenze, infatti, non sono veramente una locuzione, ma materia della locuzione.79

La locuzione è un altro nome del giudizio, il quale per propria natura, non solo manifesta la cosa, ma giudica anche del proprio carattere volontario, e quindi libero. Non è solo l’intelletto a manifestare. Anche la volontà concorre alla manifestazione. Inoltre, nella locuzione o giudizio emerge la riflessività del soggetto su di sé e insieme la stessa capacità riflessiva. Le altre conoscenze sono soltanto materia della locuzione: non ci sono fintanto che la locuzione non è prodotta. Le conoscenze non giudicanti sono l’astratto di un concreto, ovvero materia che attende di essere informata dal giudizio. Sono temi sui quali dovremo tornare nel prosieguo, ma intanto questo testo, appena riportato, ci aiuta a sintetizzare temi già affrontati e ad aprire ulteriori campi di approfondimento.

Nel De virtutibus theologicis Pérez ha fornito anche una definizione logica di volontà, in analogia con la definizione logica di intelletto, esprimendosi nei seguenti termini:

Dico che la volontà è la facoltà il cui oggetto formalissimo è il bene – ovvero il bene o (aut) il male –; infatti, l’odio del male si riduce all’amore del bene e il non essere del male è un qualche bene80.

Si tratta di una definizione piuttosto classica, nella quale, tuttavia, viene introdotto anche il male, ma in quanto negazione del bene e, quindi, come oggetto di odio da parte della volontà. Allo stesso modo, nella definizione logica di intelletto era introdotto il falso, ma come negazione del vero, ossia come oggetto di rifiuto da parte dell’intelletto.

Giunti a questo punto possiamo richiamare alcuni elementi fondamentali della riflessione pereziana sugli atti intenzionali. In primo luogo, intelligere significa “produrre o formare un verbum”, cioè “dire” o “parlare”; ma il verbo è lo stesso oggetto

79 ANTONIO PÉREZ S.J., De providentia Dei, disp. 3, op. cit., p. 312b, n. 36: «Dico enim locutionem internam esse cognitionem iudicativam rei manifestandae et voluntatis qua vult loquens, ut audiens cognoscat illam suam cognitionem virtute ipsius cognitionis ex sua natura ordinatae ad manifestationem voluntariam dependentem a libertate loquentis. Itaque locutio est cognitio iudicativa rei, cognitio etiam voluntatis manifestativae, cognitio reflexa sui et cognitio reflexa virtutis, quam ipsa cognitio habet inferendi cognitionem sui et sui obiecti in altero. Cum autem haec cognitio sit diversae naturae ab aliis visibilis, aliae non sint, nisi interveniente hac. […] Aliae vero cognitiones non sunt vere locutio, sed materia locutionis».

80 ANTONIO PÉREZ S.J., De virtutibus theologicis, disp. 1, cap. 1, op. cit., OP II, p. 284b, n. 19: «Dico voluntatem esse potentiam cuius obiectum formalissimum est bonum, seu bonum aut malum, nam odium mali ad amorem boni reducitur et non esse mali quoddam bonum est».

76

prodotto nell’“essere inteso” o “essere apparente”, mediante quella forma rappresentante o predicato identificato con la forma rappresentante che è lo stesso atto dell’intendere. Del resto, se intendere vuol dire principalmente giudicare la forma rappresentante prodotta nell’atto del conoscere non potrà che avere natura di predicato.

In secondo luogo, bisogna ricordare che, nel caso dell’uomo, l’intellezione attiva, cioè l’atto dell’intendere, e l’intellezione passiva, cioè l’essere inteso proprio dell’oggetto, si identificano intenzionalmente.

In terzo luogo, è utile richiamare la nozione di ragione oggettiva o ente di ragione come oggetto proprio della logica. L’ente di ragione, ovvero la ragione oggettiva è l’atto stesso che, mentre intende l’oggetto, oggettiva indirettamente se stesso per riflessione virtuale, ossia rappresenta se stesso in actu exercito. Dynque, quando Pérez approfondisce la natura dell’intelletto e della volontà dal punto di vista logico, fornisce due definizioni che si situano a livello delle ragioni oggettive e, quindi, riguardano direttamente la capacità riflessiva dell’intelletto e della volontà. Tali definizioni saranno certamente diverse da quelle che darà lo psicologo (animasticum), il quale studia gli atti intenzionali da una prospettiva diversa.

Se le cose stanno così, è lecito chiedersi in che rapporto stiano il verbo, l’enunciabile in quanto oggetto formalissimo dell’intelletto, e la riflessività dell’intelletto. A questo proposito, Pérez richiama ciò che ha già insegnato nel suo corso manoscritto sul De anima, del quale si sono perse le tracce. È bene dare risalto a questo testo – riportandolo di seguito – per la sua importanza nell’economia del discorso che stiamo conducendo:

Come dissi nei libri sull’anima, l’affermazione e la negazione, ad esempio questa:

Dio è sapiente, si possono reperire tutte le volte che l’anima compara lo stesso oggetto

enunciabile con se stessa, quasi dicendo e quasi pronunciando come un giudice: Dio è

sapiente come a me sembra o Io pronuncio e giudico che Dio è sapiente; cosa che non

può avvenire senza la conoscenza della sostanza dell’anima che conosce. E in questo differisce massimamente l’enunciare dal sentire, poiché il senso non attinge la sostanza del conoscente conoscendo la consonanza o la dissonanza dell’oggetto, in quanto è sentito, dalla sostanza senziente; ma l’enunciazione attinge la sostanza dell’enunciante percependo la consonanza o la dissonanza dell’oggetto, in quanto enunciato, con la stessa sostanza dell’enunciante81.

81 Ibi, 284b, n. 19: «Dixi vero in libris de anima affirmationem aut negationem, v.g. hanc, Deus est

sapiens, reperiri quoties anima comparat ipsum obiectum enuntiabile secum, quasi dicendo et tanquam

iudex pronuntiando, Deus est sapiens ut mihi videtur seu ego pronuntio et iudico Deum esse sapientem, quod sine cognitione substantiae animae cognoscentis fieri non potest. Et hoc maxime differt enuntiare a

77

Il discrimine tra il sentire e l’intendere o enunciare è la capacità, che manca al senso, di attingere l’io che pone l’atto. Nell’atto dell’intendere, che si risolve sempre in un’affermazione o in una negazione, l’anima mette a confronto l’oggetto enunciabile con se stessa. Ogni affermazione o negazione può, dunque, essere generalizzata nella forma “io pronuncio/mi sembra/io giudico che x è y”. Il giudizio è sempre riflessivo. Più precisamente, l’intelletto in quanto facoltà enunciativa, è sempre riflettente, cioè pone sempre un giudizio, non potendo fare a meno di percepire insieme la consonanza o la dissonanza del contenuto enunciato con lo stesso Io che enuncia. Questo sviluppo ulteriore della gnoseologia pereziana è dovuto alla psicologia e non alla logica. Quest’ultima, infatti, si occupa dell’oggetto sotto l’aspetto dell’“essere conosciuto”. La psicologia, invece, sviluppa ulteriormente la ricerca verso il soggetto che enuncia o giudica qualcosa sull’oggetto.

Ciò che si verifica per l’intelletto, accade anche per la volontà. Il bene e il male sono ciò che può essere rispettivamente voluto (volitum) o non voluto (nolitum). Ciò che è voluto corrisponde a ciò che è affermato dall’intelletto, mentre ciò che non è voluto corrisponde a ciò che è negato dall’intelletto. Questo avviene perché, nella volizione, è come se l’io che vuole si esprimesse nel modo seguente: “voglio che le cose stiano in un certo modo” (ad esempio, “voglio che Dio sia sapiente”). Tale enunciazione è simile a quella dell’intelletto quando dice “affermo o pronuncio che Dio è sapiente”. Al contrario, nella “nolizione”82 l’io si esprime affermando “non voglio che Dio sia sapiente”: affermazione che è simile a quella dell’intelletto: “Dio non è sapiente, come a me sembra”.83

L’affetto umano naturale, quindi, è qualcosa di complesso (habet suam complexionem): vi è, infatti, qualcosa che fa da predicato, qualcosa che fa da soggetto e qualcosa che fa da unione enunciativa. Nell’esempio proposto in precedenza, “Dio” è il soggetto, “sapiente” è il predicato e l’“essere” o il “non-essere” sono l’unione

sentire, quod sensio non attingat substantiam cognoscentis cognoscendo consonantiam aut dissonantiam sentientis, at enunciatio attingit substantiam enunciantis, percipiendo consonantiam aut dissonantiam obiecti ut enunciati ad ipsam enunciantis substantiam».

82 Uso questo neologismo che un calco del termine latino nolitio.

83 ANTONIO PÉREZ S.J., De virtutibus theologicis, disp. 7, cap. 1, op. cit., OP II, p. 248b, n. 20: «Bonum et malum est ipsum quod potest esse volitum aut nolitum. Volitum autem respondet affirmato per intellectum et volitio affirmationi, nolitum negato per intellectum et nolitio negationi. Ratio est manifesta, quia volitionem ita exprimimus: Volo ut hoc ita se habeat: volo, v.g., dominum esse sapientem, quod simile est illi: affirmo et pronuntio Deum esse sapientem. Nolitionem ita exprimimus: Nolo Deum esse

sapientem, quod respondet huic negationi: Nego Deum esse sapientem seu Deus non est sapiens, ut mihi

78

enunciativa. Ma questo non basta. Vi è, infatti, da considerare la riflessività dell’io per la quale ogni atto di volizione, nolizione, affermazione o negazione confronta il contenuto voluto, non voluto, affermato o negato, rispettivamente, con l’io volente, non volente, affermante o negante. La riflessività è indicata dalle espressioni “io voglio”, “io non voglio”, “io affermo”, “io nego”. Nella volizione (o nolizione) e nell’affermazione (o negazione), dunque, avviene una comparazione tra il soggetto volente, nolente, affermante o negante e l’oggetto voluto, non voluto, affermato o negato84.

Il significato della dottrina pereziana sembra essere il seguente. L’atto dell’intellezione è dato da due concreti: uno oggettivo, l’altro soggettivo. Riguardo al primo, si dice che gli atti dell’intelletto o della volontà non possono stare senza i loro oggetti, con i quali costituiscono un concreto, cioè un’unità formata dall’astratta “intellezione” o “volizione” e dal suo contenuto, che senza intellezione e volizione non potrebbe apparire. Riguardo al secondo concreto, invece, si deve notare che esso è dato dall’astratta intellezione o volizione, e dal soggetto che intende o che vuole. Soggetto e oggetto sono, dunque, propriamente o concretamente tali soltanto se informati dall’atto intenzionale che è l’elemento comune ai due concreti.

D’altra parte, però, l’atto dell’intellezione e della volizione rimarrebbero un puro nulla senza un soggetto e un oggetto dell’atto. Dunque, se si vogliono pensare gli atti intenzionali nella loro concretezza, è necessario intenderli come costituiti a loro volta dal soggetto e dall’oggetto quali lati indisgiungibili e reciprocamente correlati.

Ciò significa che l’atto intenzionale, da un lato, e soggetto e oggetto dell’atto, dall’altro lato, si costituiscono a vicenda e possono essere intesi, di volta in volta, concretamente o astrattamente a seconda che li si pensi rispettivamente uniti o disgiunti.

Pérez trova sostegno alla dottrina che vede nell’attività della volontà un certo enunciare – simile all’enunciare intellettivo – nei Moralia del filosofo e teologo francesce Jérôme de Hangest (Hyeronimus de Angesto)85, il quale, nella prima metà del

84 Ibi, p. 248b, n. 20: «Habet ergo affectus humanus naturalis suam complexionem […] et quid respondens praedicato et quid respondens subiecto et quid respondens unioni enunciativae. Nam in proposito exemplo Deus est quasi subiectum, sapiens quasi praedicato, esse aut non esse quasi unio. Praeteres cum affectus voluntatis seu affirmativos se negativos exprimamus per voces Ego volo aut Ego

nolo et haec pronomina substantiam volentis aut nolentis demonstrent. Patet sicut affirmatio intellectiva

aut negatio comparat seipsam cum substantiam affirmantis aut negantisi ita volitionem aut nolitionem complexam comparare obiectum volitum aut nolitum cum substantia volentis aut nolentis».

85 Ibi, p. 285a, n. 21: «Infertur ex dictis cum Hyeronimo Angesto in Magnis moralibus, cap. … omnes differentias affirmationis et negationis intellectivae posse accomodari affectibus voluntatis complexis». Jérôme de Hangest (1480- 8 settembre 1538) fu una delle figura più importanti dell’Università di Parigi

79

XVI secolo, aveva approfondito il parallelismo e la stretta vicinanza tra gli atti dell’intelletto e gli atti della volontà, all’interno del suo studio sulla natura del libero arbitrio. L’approfondimento di Jerôme de Hangest è, in fondo, un corollario della convertibilità dei trascendentali verum, ens e bonum.

Il teologo francese, infatti, aveva spiegato che l’oggetto adeguato – che Pérez chiama “formalissimo” – della facoltà conoscitiva e della facoltà appetitiva è lo stesso; e, così, è la stessa anche la forma (ratio), tanto degli oggetti della facoltà quanto degli immutativa, ossia di quegli oggetti meno formali che sono in grado di muovere all’atto le facoltà. Se non che, l’oggetto della conoscenza appartiene alla forma dell’essere conosciuto (esse cognitum), mentre l’oggetto della volizione appartiene alla forma dell’essere voluto (esse volitum). Da questo scaturisce la conseguenza per cui vi è una duplice identità tra intelletto e volontà che riguarda rispettivamente l’oggetto e la forma (ratio). La prima identità consiste nel fatto che tutto ciò che è conosciuto dall’intelletto può essere voluto o non voluto dalla facoltà appetitiva. Per la seconda identità, invece, si può affermare che sotto la medesima forma (ratio connotativa), per la quale l’oggetto è conosciuto, può essere anche voluto o non voluto. Inoltre, sotto la stessa forma mediante la quale oggetti meno formali muovono la facoltà intellettiva a conoscere – secondo i vari modi dell’affermazione e della negazione, del comune e del singolare, della proposizione ipotetica e categorica – l’oggetto può essere anche voluto o non voluto86.

nella prima metà del XVI secolo. Ebbe per maestro alla facoltà delle Arti di Reims lo scotista Jean Tartaret, del quale fu uno dei pupilli. Studia teologia alla Sorbona e fa parte del gruppo di teologi che censurarono l’opera dell’umanista Joannes Reuchlin (14555-1522). Pubblicò importanti scritti di logica e morale, un De causis, molti trattati antiprotestanti, oltre a un trattato De usuris rimasto manoscritto come anche il suo Commento alle Sentenze. Erasmo da Rotterdam fece un grande utilizzo del De libero arbitrio di de Hangest senza citare la fonte. Per ulteriori informazioni biografiche, si veda P.G.BIETENHOLZ-T.B. DEUTSCHER (edd.), Contemporaries of Erasmus. A Biographical Register of the Renaissance and

Reformation, 3 voll., University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 1985, vol. I, pp. 163b-164;

310.

86 Il passaggio cui Pérez fa riferimento è probabilmente il seguente: JERONYMUS DE ANGESTO, Moralia, cap. 1, apud Iohannem parvum in via Iacobea sub signo Floris lilii, Parisiis 1539, ff. 8vb-9ra: «cognitivae et suae appetitivae est idem obiectum adaequatum et sub eadem tam obiecta quam immutativa ratione. Esse quidem cognitionis obiectum, est ipsum esse cognitum, volitionis autem est esse volitum. […] Primum notabile, duplex est hic identitas, videlicet obiecti et rationis. Quo ad primam, omne cognitum a potentia cognitiva potest esse a sua appetitiva volitum aut nolitum. Quo ad secundam pariter sub ea ratione connotativa qua obiectum est cognitum potest esse volitum vel nolitum, quin nimmo et sub ea ratione immutativa, videlicet communi, singulari, affirmativa, negativa, cathegorica, hypothetica, disiunctam, copulata, disiunctiva, copulativa et aliis modis immutativis quibus obiectum est cognitum, potest esse volitum vel nolitum».

80

La dottrina di Jerome de Hangest è riassunta da Pérez nel modo seguente. Tutti i diversi modi dell’affermazione e della negazione intellettiva possono essere resi idonei agli affetti complessi della volontà. Infatti, come l’atto dell’intelletto può essere complesso o non complesso, così l’atto della volontà può essere suddiviso allo stesso modo. Vi sarà, allora un affetto affermativo o negativo, particolare o universale, condizionato o assoluto. Tutti questi atti avranno come analogato principale e come fondamento l’affermazione e la negazione dell’intelletto87. Del resto – fa notare Pérez –, lo stesso Aristotele nel De anima aveva sottolineato il parallelismo tra l’attività

Documenti correlati