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2.2 Il laboratorio della parola

2.2.1 La polifonia linguistica

2.2.1.3 L'aut aut della parola persuasa

«Non si diviene eloquente per la forza di parole altrui se il proprio spirito non è incline all'onestà»293

Riprendendo il punto di partenza relativo al “caos linguistico” e alla pluralità di tradizioni che influenzano il pensiero del goriziano, esse risultano cardinali nella formazione di Michelstaedter poiché soffrono tutte della stessa caducità. Infatti, non è moltiplicando le incognite e le forme linguistiche che si provoca quell'ambivalenza del linguaggio, quella parola che sospetta che poi denuncia l'equivoco di se stessa. L'unica via è quella della persuasione che ognuno deve tracciar da sé, in quanto «ognuno è il primo e l'ultimo»294; il

persuaso «deve creare sé ed il mondo, che prima di lui non esiste: deve esser padrone e non schiavo della sua casa»295; poco più avanti, Michelstaedter

conclude: «convien pensare meno alle equazioni e tanto più all'equità»296. La via

alla persuasione non ammette “scorciatoie” lungo le linee convenzionali segnate

292C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 96.

293In tedesco e in versi nel testo: «Berdt wird einer nicht / durch fremder Reden Macht, / ist nicht sein eigen Geist / zur Redlichkeit gebracht» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 88).

294C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 73 295Ibidem.

dalla rettorica: nessuna economia di linguaggio che possa lasciar residui, nessun diritto297 ad affermare la propria sufficienza per giustificarla. La via della

persuasione, infine, tace per non confondersi con tutte le altre parole. La sua parola consiste nell'unica possibilità d'abitar il mondo, unicità che comporta un imperativo, un dovere; un mondo che in ogni attimo, però, tentiamo di disabitare dietro le maschere in cui sono dipinte le ovvietà del nostro linguaggio, incrostato di convenzione e comportamenti recitati.

Vivendo “momento per momento” o addirittura “solo per il momento”, per l'attimo eternamente presente, la persuasione è stata variamente interpretata e studiata in questo suo valere in assoluto, che si annuncia nel silenzio e al silenzio ritorna. La conseguente destrutturazione dell'apertura spaziale e temporale, in nome di uno spazio e un tempo assoluti, conducono la parola e ogni sua forma linguistica ad essere incapace di trattenersi presso di noi, in quanto la presenza della persuasione nel linguaggio lo fa implodere. Il presente si dilata a tal punto da non concedere spazio al passato e al futuro e la via non è tanto “soluzione”, ma “scioglimento” dei vincoli del linguaggio. In un tale orizzonte, le scelte non si presentano più nell'armonia ingenua di un et et, ma nell'alternativa escludente dell'aut aut.

La riflessione michelstaedteriana riconosce due possibilità di vita, tante quante sono gli asintoti verso cui tende l'iperbole. L'uomo può infatti scegliere, in un caso, di adattarsi alla servitù della philosopsychìa298, ovvero la brama di vivere, 297«Quanti sono schiavi del “bisogna vivere” che attendono tutto dal futuro e si protendono verso le cose, - pretendono da queste le consuete relazioni come con persona sufficiente che avendo in sé la ragione avesse diritto di chiedere. Tutti dicono: “ma infine ho diritto anch'io....”» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 76).

298Commenta Nicola Cinquetti: «La philosopsychìa si regge […] su un'illusione: è questo il terreno nel quale fiorisce la “rettorica”, la parola che “copre l'insufficienza dei miseri”, attribuendo loro la consistenza che non hanno. L'insufficienza è ontologica, in quanto l'uomo rettorico, dissolvendosi nel divenire, manca dell'essere; gnoseologica, perché la sua coscienza, preoccupata di dirsi sicura, può nutrirsi soltanto di illusione; etica, perché la sua volontà di vivere, essendo assoluta, è negazione della volontà altrui ed è pertanto radicalmente violenta» (N. Cinquetti, Michelstaedter. Il nulla e la folle speranza, op. cit., pp. 20-21).

sottomettendosi al principio della continuazione per il quale si vive la vita fuggendola e cercando invano, nell'attimo futuro, l'attimo presente mosso dal bisogno insoddisfatto e dalla «fame del più basso». Nell'altro caso, d'incamminarsi verso l'«ἂβιος βίος»299, la «vita che non è vita» nel senso

precisato da Campailla300. Riprendere nuovamente il filo tessuto dalle parole e

dalla loro rettorica è, dal punto di vista michelstaedteriano, un tradimento di quel dovere, di quell'aut aut che segna tutto il suo pensiero.

Ma il rischio supremo di questo scelta dicotomica ed escludente è il fatto, fuorviante, che la persuasione viene posta, per volontà di Michelstaedter, come “onniabracciante”, dimensione di pienezza; ma essa stessa, come specifico ambito di esperienza marcato dal timbro dell'autenticità, si pone inautentica poiché separato dagli altri: apparentemente contrapposto, non preserva la sua più intima peculiarità e capacità di tenere insieme ragione e vita.

Nella mia lettura di Michelstaedter, ritengo che questa possibilità sia conservata nel linguaggio o, meglio, nel fatto stesso che il filosofo parli: per dire l'ineffabile, egli si pronuncia. Se ciò è apparentemente una contra-dizione, allo stesso tempo, in essa e grazie ad essa si mette a punto la possibilità di render la persuasione come quell'esperienza totale che comprende, superando, la rettorica. Parlando, la ragione della persuasione va incontro a una crisi di dimensioni colossali e arriva a far naufragare ogni codice perché la «voce inaudita» che dice l'infinito non può essere intesa e ripetuta che nel giro di parole finite, ma proprio grazie e attraverso questo, senza nessun processo di redenzione, la persuasione dice ciò che è in- autentico, comprendendo in sé il totalmente altro da sé301. Nel linguaggio dunque,

299C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 44.

300Scrive Campailla: «non nel senso in genere dispregiativo che è proprio dell'aggettivo greco, ma in quello di “vita che è fuori della vita”, “vita impossibile”: la vita, insomma, della Persuasione» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 195 nota di p. 44). 301Osserva Nicola Cinquetti: «“Con le parole guerra alle parole”: questo il suo programma.

L'attività filosofica consiste, per usare l'espressione di Wittgenstein, nell'“avventarsi contro i limiti del linguaggio”, perché l'urto possa mostrare qualcosa. La lingua del divenire, che separa “prima e dopo”, non può parlare di ciò che non diviene. Il filosofo tuttavia ne parla e la sua energia è interamente tesa a dire la parola dell'essere, a combattere l'insignificanza

si conserva quel momento negativo che determina, sterminandolo, l'Intero: lo stermina in quanto intero e, allo stesso tempo, lo s-termina (annulla ogni suo termine) affermandolo, per converso, nella sua infinità. In fondo, la stessa esperienza di vita del goriziano rispecchia questa singolarissima dialettica: affamato d'assoluto, Michelstaedter tenta di ri-trattare ogni esperienza che lo limita e che determina una frattura nella sua singolarità, digerendola in una forma compiuta, totale e vitale che aiuti a comprendere la propria appartenenza alla dimensione dell'Intero. La parola della persuasione in Michelstaedter non vuole la rivoluzione, ma è rivoluzionaria di per sé in quanto interrompe l'ordinata circolazione dei segni regolata dall'equivalente generale, il linguaggio.

Dunque, ammetto che l'idea di una iniziale “diarchia” tra linguaggio e parola persuasa risulti compromissoria e stenti a fissarsi in equilibrio credibile rispetto all'insegnamento del goriziano; ma, l'alternativa a questa, è quella forma di necessità che investe il linguaggio con quel radicalismo filosofico ed esistenziale il quale, come si è già detto nell'Introduzione a questo studio, conduce dritto allo scacco e alla paralisi. Ecco come e perché credo che non sia impossibile immaginare uno sviluppo filosofico ulteriore del linguaggio a partire proprio da quest'ultimo, con una vigile attenzione al campo dell’etica dove, infine è custodita la possibilità del suo riscatto. Vorrei dunque che l'analisi del linguaggio fosse letta tenendo conta la, almeno, non insensatezza di questo interrogativo.

delle parole mediante le stesse parole, perché dalla lotta possano scaturire nuovi significati. Di qui il ricorso a un linguaggio negativo, che mostri dall'interno il limite del logos». Continua la sua argomentazione affermando: «Come il domandare socratico, che non è una prima richiesta, di definizione concettuale, ma un movimento atto a evidenziare l'impossibilità di tradurre nelle parole del sapere la domanda assoluta, la filosofia di Michelstaedter ruota attorno agli interrogativi etici fondamentali: “Che cos'è la giustizia? Che cos'è la virtù?”. “La virtù dell'anima – risponde Michelstaedter – è la giustizia, l'anima è giusta quando è virtuosa”. Questo è quanto si può portar fuori dal logos. Si tratta di una definizione evidentemente scorretta, secondo le regole della logica aristotelica perché tautologica. Ma l'errore logico è intenzionale» fa notare Cinquetti «il logos non è dimora di ciò che si colloca oltre il circolo della vita e della morte. La tautologia ha la funzione di segnalare l'insufficienza del linguaggio» (N. Cinquetti, Michelstaedter. Il nulla e la folle speranza, op. cit., p. 36).

Dunque, per mettersi nella postura che esige e ordina la parola della persuasione, la possibilità del linguaggio è negata e non consente di controbilanciare il destino in cui tale dire è radicato. Parlare del linguaggio come riscatto è certamente violare l'ineluttabilità di quella parola per la quale «pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che eran suonate quelle parole»302. La natura della persuasione è una scelta data all'uomo,

la quale però antecede le differenze che il linguaggio guadagna faticosamente, distinguendo “oggettivamente” gli enti e garantendo agli uomini una comunicazione univoca e forme prevedibili di convivenza.

La requisitoria nei confronti del linguaggio rivela, dunque, una critica nei confronti di un certo atteggiamento conoscitivo e del sapere; dunque, non si rivolge superficialmente verso gli esponenti di una specifica branca dello scibile, ma apostrofa tutti coloro che si ergono a ministri del sapere: «la dignitosa schiera degli scienziati»303 come li definisce Michelstaedter i cui occhi sono «preoccupati

dal guadare»304, quando in realtà «non vedono»305. La loro vera e somma

preoccupazione è quella di «parlare indefinitamente, di bearsi del loro gergo tecnico di cui si scambiano i termini come strizzate d'occhio credendo così di consolidare le loro “personalità sufficienti”, e da nulla si difendono più accuratamente che dall'eventualità di un effettivo incontro con la realtà»306. La

via del linguaggio scientifico, in tal senso, cela quel travalicamento del limite, determinato da una falsa visualizzazione di sé nell’ordine del tutto, quella infelicità che si produce quando la misura è abolita dal desiderio smisurato. Michelstaedter afferma che la persuasione risiede non nel raggiungimento dell'oggetto del desiderio, ma nella realizzazione di sé. Il linguaggio va dunque dominato perché trascina passivamente e, in questo trascinamento, più non

302C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 35. 303Ivi, p. 124.

304Ibidem. 305Ibidem.

consente il governo di sé in cui consiste la via della persuasione.

Nella recensione che Giovanni Gentile scrisse nel 1922 all'edizione Vallecchi della Persuasione, il filosofo siciliano critica duramente l'acerbità, a suo dire, del pensiero michelstaedteriano riassumibile nella massima che afferma: «la persuasione è il possesso presente della propria vita»307; a queste

parole Gentile risponde: «Che cos'è questo presente? E questa vita? E questo se stesso, a cui conviene afferrarsi, per redimersi dal tempo e resistere alle voci allettatrici del futuro? E in che modo questo presente, che par tempo anch'esso, e della stessa natura perciò del futuro, gli è così direttamente antitetico? E se il vivere è continuare a morire, che cosa è la vita senza continuazione? Domande a cui Michelstaedter non dà risposta»308.

Ciò che ne risulta non è una considerazione della persuasione come concetto “impossibile” o utopico. Come spiega La Rocca: «questo carattere di apparente incomunicabilità – in realtà “insignificabilità”, dovremmo dire – dell'esperienza della Persuasione porta ad individuare piuttosto un'aporia nella precettistica del non volere schopenhaueriana»309. Ovvero: «Michelstaedter ha tentato di rendere

plausibile l'idea che l'assoluto non è una cosa, e che di esso si possono dire soltanto le condizioni, non i contenuti. La chiarezza su queste condizioni – nel momento in cui e nella misura in cui queste condizioni si fanno anche esperienza – può tradursi in linguaggio persuasivo, che propriamente non indica e non dice nulla, ma rivela un mondo»310.

Domande, quelle di Gentile che, per certi versi, colgono nel segno denunciando una contraddizione: quella di un presente della persuasione che è negazione del futuro, e quindi del tempo che, in quanto dimensione temporale, nella negazione del tempo nega se stesso. Ma è proprio attraverso questo scacco contraddittorio

307C. Michelstaedter, Scritti vari, p. 728.

308G. Gentile, Recensione a Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, La Critica XX (1922), 4, pp. 332-336.

309C. La Rocca et al., Carlo Michelstaedter: l'essere come azione, op. cit., p. 26. 310Ivi, p. 27.

s u l piano logico e semantico che Michelstaedter esprime l'impossibilità di significare definitivamente l'essere con il linguaggio del tempo. Scrive Roberta De Monticelli che siamo di fronte a «un pensiero che l'analisi logica e linguistica […] riduce a un'incontestabile ovvietà, oppure a un non-senso. Eppure l'analisi logica non riesce a zittirlo, questo pensiero: è come provare ad attaccare con un solvente logico una piccola frase musicale, il frammento iniziale di una melodia per il resto dimenticata»311. D'altra parte, per Michelstaedter ogni tentativo di

fondazione dimostrativa di ciò che è essenziale rimanda all'analisi dei bisogni vitali, origine della stessa volontà di sapere; ogni ricerca che garantisca la vita di fronte al nulla o l'essere al non-essere deriva da quel bisogno di sicurezza, di una botte di ferro312. Appiattire la verità parmenidea alla categoria della

dimostrazione significa condurla alla rettorica313.

«Così invero le cose sorsero secondo l'opinione e ancora sussistono, e di qui in poi crescendo perseveranno alla fine;

a ciascuna d'esse gli uomini assegnarono un nome convenzionale»314

311R. De Monticelli, Il richiamo alla persuasione: lettere a Carlo Michelstaedter, op. cit., p. 13.

312A tal proposito si veda il capitolo La pluralità del linguaggio. La parola assicurata del presente studio.

313Emanuele Severino segnala «la completa assenza, nelle pagine di Michelstaedter, della ragione in base alla quale Parmenide ha enunciato la sua tesi di fondo: che l'essere è immutabile e che il divenire del mondo è soltanto illusione» (E. Severino, Il caso Michelstaedter fra pensiero e poesia, Il Corriere della Sera, 16 maggio 1982; ripubblicato in Id., La strada, Rizzoli, Milano, 1983, pp. 244, 247). La ragione che risulta fondatrice del discorso parmenideo ma che Michelstaedter non coglie è proprio la dimostrazione che conferisce all'immutabilità dell'essere lo status di verità inconfutabile: «Anche in Michelstaedter [come in Nietzsche] manca ogni dimostrazione dell'immutabilità dell'essere di Parmenide, perché anche lui vuole che l'essere sia immutabile, eterno, uno, compiuto, perfetto, dio. E l'“essere”, qui, è lui stesso, e ognuno che riesca a volere e a produrre l'“eternità raccolta e intera”. In questa operazione, che trasforma in un voluto l'eternità dell'essere, Parmenide è completamente messo da parte» (Ibidem). Michelstaedter dunque non avrebbe compreso che l'eternità dell'essere pronunciata dal filosofo di Elea è una verità dimostrata e incontrovertibile, indipendente dalle disposizioni e dai sommovimenti della volontà personale.

314Mullach 151-153; cfr. Diels, 19.

Versi parmenidei riportati, in greco, in C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 164.

Se esiste allora un elemento utopico della parola, esso consiste proprio nella sua impossibilità a dirsi fino in fondo; in altri termini, la parola persuasa è quella che si libera dalla maschera grammaticale della contingenza che è la relazione sintattica ad altro; spogliandosi del bisogno di esser detta, non ha più per contenuto un rapporto, quindi non suppone un uditorio. Santi di Bella s'interroga a questo punto, chiedendosi: «Ma siccome la parola per costituzione è “rivolta a”, e ogni uditorio è ascolto, quindi correlazione e in senso metafisico contingenza e tempo, è “umana” questa parola di Michelstaedter?»315.

Accedere alla dimensione persuasa del linguaggio significa allora passare dalla visualizzazione che il linguaggio fa “rettoricamente” della persuasione all’esposizione della parola all’abisso del suo silenzio. In questo modo, non si adotta il punto di vista della coscienza rettorica, ma nemmeno si rimane congelati dallo sguardo della persuasione. Si apre piuttosto quella possibilità di cogliere un modo d'abitare il mondo nell'istante della sua lacerazione, nel punto in cui rettorica e persuasione si dipartono. Questo perché, alla fine, il linguaggio è dell'io, nel duplice senso del genitivo: costituito dall’Io e costituente l’Io. Dunque, la condizione più importante che indica La Rocca affinché la parola divenga esperienza è che «ci si riesca a porre e a muovere (a permanere) in una dimensione in cui ogni commisurazione mezzi-fini, ogni teleologia strumentale venga sospesa, e in cui allo stesso tempo si risponda – per così dire – al dolore muto e cieco di tutte le cose: si continui in altri termini o si cominci a fare i conti con lo sfuggire di ogni senso finito, senza rifugiarsi nella noluntas o in un senso assoluto»316. In questa via, diverse sono le formule che lo stesso filosofo ha

lasciato come importanti indicazioni di questa prospettiva a-finale, ovvero di una continua tensione a non confondere la forma finita con l'incarnazione dell'assoluto: «vedere ogni presente come l'ultimo»317, «impossessarsi del

315S. Di Bella, Aporia e onestà della parola, p. 163 in D. Calabrò - R. Faraone, Carlo Michelstaedter e il Novecento filosofico italiano, op. cit. , pp. 154-169.

316C. La Rocca et. al., Carlo Michelstaedter: l'essere come azione, op. cit., p. 27. 317C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 69-70.

presente»318 e «nell'oscurità crearsi da sé la vita»319.

All'interno di questo conflitto violentissimo tra rettorica e persuasione, il linguaggio è sospeso al filo dell'io che narra di sé, se è vero ciò che afferma Colasanti: «Il libro di Michelstaedter […] è e resta un libro barocco, ma ai limiti del cattolicesimo goriziano. È infatti un libro “autobiografico” che reputa la necessità, prima che un processo logico, il peso di una realtà fisica deflagrata – un dato, insomma, gravitazionale (inerte quanto più invasivo) della materia»320.

Questa narrazione è terribile perché assedia l'invulnerabilità del sapere e del suo stesso dire; la parola del goriziano assume il modo del discorso per trasferirlo al limite del discorso. È questo limite che si deve, di volta in volta, indagare e interpretare321.

318Ivi, p. 69. 319Ivi, p. 70.

320A. Colasanti et. Al., Un'altra società. Carlo Michelstaedter e la cultura contemporanea, op. cit., p. 35.

321Ci si riferisce, nuovamente, alla considerazione fatta nell'Introduzione e che è espressa, in altra forma e sinteticamente, da La Rocca quando scrive: «Michelstaedter merita di essere ancora interpretato, non solo glossato: altrimenti sentiremo ancora la sua voce ironica dirci “quando hai messo insieme il tuo libro […] - allora puoi andar a giuocare (PR 131)». (C. La Rocca et. al., Carlo Michelstaedter: l'essere come azione, op. cit., p. 28).

PARTE SECONDA 3 Il tramonto della parola

Si è osservato che vita e filosofia sono in Michelstaedter in un mutuo relazionarsi e condizionarsi; ma la modalità del loro condizionarsi rivela che la vita “rettorica” attua un possesso conoscitivo ordinato a compiersi in un “voler sempre” la vita, un movimento sollecitato costantemente dalla volontà; questa suppone la vita e la intenziona in ogni sua direzione, in ogni approccio di conoscenza. Per Michelstaedter non rimane, dunque, altra via che quella della persuasione la quale sfida quella volontà che la insidia, ma rischia di ridurre quest'ultima a sua momento strumentale; in altri termini, la pone, senza volerlo, come principio unico ed esclusivo perché la volontà stessa non lascia nulla fuori dal suo raggio d'azione. Si è altresì analizzato come la pluralità e il “caos linguistico” del contesto goriziano siano forme di sperimentazione del linguaggio fondamentali nella filosofia di Michelstaedter; esse, però, non riscattano la precarietà di ogni dire, la cui matrice e matrigna è la garanzia del vivere nel mondo. Infine, si è ipotizzato la possibilità di un contraccolpo dalla condizione d'incondizionatezza del volere a partire dall'elemento più reietto nella prospettiva michelstaedteriana, quello della parola rettorica; questo perché è all'uomo che è data la possibilità o il dovere di riscattare la parola, e non esiste un linguaggio sublimato di per sé.

A questo punto si vuole introdurre un ulteriore momento d'analisi, che è quello in cui queste varie osservazioni vengono a convergere e segnano l'inizio della maturità del pensiero michelstaedteriano, manifestandosi nel momento della scelta universitaria e negli anni fiorentini: tempi e luoghi d'incubazione della La

in precedenza, esempi e stimoli per mostrare alcuni aspetti del linguaggio nel goriziano, senza per questo esser principi di causalità che fondino e risolvano il