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Giustizia e giustezza della parola

2.2 Il laboratorio della parola

2.2.1 La polifonia linguistica

2.2.1.2 Giustizia e giustezza della parola

«Nel caso di limite la costante è una linea infinita, non più una superficie […]: l'uomo giusto non vive più; non si continua ma si sazia nel presente. Ma il limite è in matematica il punto a cui ci s'avvicina infinitamente, e che non si tocca mai. Certo gli uomini hanno un criterio più comodo: misurano i lati della loro vita e dicono: “tanto per tanto – ecco la giustizia”. Ma s'ingannano poiché di quanto chiedono non hanno niente e quello che danno è niente»263

Dopo aver indagato la peculiarità e la varietà dell'operazione linguistica compiuta dal goriziano, l'indagine sul linguaggio di Michelstaedter deve ora tener in considerazione le presenti osservazioni sui fenomeni di influsso e sui modelli

261H.-G. Gadamer, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, pp. 535- 536.

262«In questa vita ottusa e frammentaria l'educazione socratica […] è creatrice d'uomini. Tutto il suo insegnamento è in questo: “non fate ciò di cui non avete in voi la ragione; non vi fingete una sufficienza […] della vostra qualunque fatica per la paura della morte: impossessarsi del bene della propria anima, essere uguali a sé stessi (esser persuasi) è necessario, vivere non è necessario!» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 150).

culturali “stranieri” nello sviluppo della coscienza e, quindi, dell'opera dello stesso. La valorizzazione della qualità “mitteleuropea” e della realtà regionale dell'autore comportano un'attenzione al rapporto con la lingua e al plurilinguismo che le caratterizza, come si è avuto modo di osservare. Ma, in seconda analisi, tali considerazioni divengono elementi fondativi di un ulteriore indagine; comprendere Michelstaedter significherà anche intercettare il valore originale del suo messaggio264 sia nel ruolo dell'alterità nella sua formazione identitaria sia

nella capacità di muoversi, in forza di questa alterità, su diversi piani linguistici. Un continuo attingimento che non riguarda solo lingue diverse, ma tipologie linguistiche differenti o, meglio, diversi mezzi espressivi quali quelli simbolico- scientifici, poetici ed epistolari. Ciò che li accomuna è la costante tensione alla coerenza dell'impegno intellettuale e, d'altro canto, un continuo sentore d'estraneità che diviene pungolo nel giovane goriziano a ricercarsi continuamente. «Agisce nella filosofia di Michelstaedter» afferma Piero Pieri «una ricerca negativa al fin del suo superamento, vincolata agli orientamenti di un metodo che privilegia il soggetto scisso dall'oggetto, dunque l'autochiarificazione dell'io al di fuori del suo spazio storico […] a favore di un'utopica idea di persona che privilegia l'essere puramente anziché l'essere nel mondo»265.

Definito quest'aspetto che attingendo dall'ineludibilità del rapporto vita e filosofia ne scopre una “polifonia linguistica” e di tipologie espressive, il presente studio vuole anche mostrare la costante ambivalenza del linguaggio, ovvero il dissolversi metamorfico dei limiti che intercorrono sia all'interno della stessa tipologia linguistica che all'esterno. Questa evanescenza dei limiti che la parola michelstaedteriana istituisce, per la quale si mescolano tanto il greco e il dialetto quanto la rappresentazione del cerchio e l'uso dell'inglese, non rinuncia a

264Per originale ci si riferisce, ancora una volta, all'espressione “davvero caratterizzante” di Fabrizio Meroi commentata in precedenza.

265P. Pieri, Modelli culturali alle origini della “Persuasione” di Michelstaedter, in: Il lettore di provincia, n.8 (1977), n. 29-30, p. 24.

una distinzione più profonda, giocata su un livello non più linguistico, ma oserei dire etico. In altre parole, come già si è osservato nel caso del linguaggio “scientifico”, la condizione d'inquietudine e ambivalenza non riguarda tanto l'uso di un linguaggio piuttosto di un altro (dal simbolo matematico alla “pia bestemmia”266), quanto il suo valore e il suo uso realmente persuasivo. La

presente interpretazione vorrebbe mostrare come la varietà dei linguaggi utilizzati dal giovane goriziano sia indice di come il loro valore “rettorico” o “persuasivo” non si possa dire una volta per tutte o per definizione, ma si fondi nell'intenzione e nella volontà che li anima, al punto che può risultare più rettorica l'intimità del verbo poetico piuttosto che la seriosità del simbolo dell'iperbole. La veridicità del linguaggio michelstaedteriano, dunque, è affidato al suo valore etico. Conoscere la parola persuasa significa non tanto ricercare una corrispondenza descrittiva, quanto interiorizzarne la giustizia; essa diviene misura della vita, il cui movimento è orientato a un compimento che è a un tempo il suo fine, la sua fine (in quanto parola) e la sua forma. Scrive Michelstaedter:

«Socrate, Cristo, tutti gli apostoli hanno parlato d'un' άγαθή ψνχή [anima buona] e d'un άγαθόν τήψνχή οίχείον [bene affine all'anima]. Ma in loro la cosa era concreta e reale al punto ch'essi

consumarono la vita in quest'amore trascinando gli altri verso quel punto luminoso ch'essi credevano assoluto soltanto per la fede potente che sentivano in sé. E questo facevano

annientando negli altri i valori della vita, reagendo volta a volta alla relatività»267

Si tratta di una giustizia che non si riduce a “giustezza” della parola, quindi alla somma quantitativa dell'ordine veritativo delle sue parti e alla correttezza dei suoi

266«Questa deficienza c'è in tutte le cose e in tutti gli uomini sotto i vari aspetti del fuggir la morte determinata […]. Se io incespico nel camminare, se un bicchiere che mi cade di mano si spezza, se un moschino mi entra nell'occhio, la pia bestemmia ch'io lancio a dio, è la voce di questa deficienza fatta più distinta nelle note dell'insufficienza, dell'impotenza del dolore» (C. Michelstaedter, Il prediletto punto d'appoggio della dialettica socratica: l'analogia del corpo, FCM III 4 in C. Michelstaedter, L'anima ignuda nell'isola dei beati. Scritti su Platone, op. cit., p. 30).

267Ampia nota a piè di pagina di C. Michelstaedter a Sulla giustizia. FCM III 5b cc.35-37 in C. Michelstaedter, L'anima ignuda nell'isola dei beati. Scritti su Platone, op. cit., p. 65.

riferimenti. Piuttosto, il suo valore proviene da una nota qualitativa, quella del “giusto”, che arresterebbe la volontà inesausta dell'uomo di attribuire significati a tutte le cose, cercandole di dominare. L'ordine e l'esito dell'universo del linguaggio michelstaedteriano, dunque, è quello per il quale la parola della persuasione ha la precedenza sul linguaggio, l'intenzione su ciò a cui si rivolge. «Se infatti la precedente, pragmatica, razionalista “positiva” stagione pretendeva di cacciare la metafisica riducendo la questione della verità a una proposizione che asserisce il vero e il falso» osserva Rosaria Peluso «Michelstaedter si inserisce immediatamente nella genìa di coloro che chiedono per la verità un destino e un riconoscimento più complesso. Pongono la questione della verità nella carne della vita […]. La singolare critica michelstaedteriana al linguaggio è stata al centro di importanti interpretazioni e non è il caso di ripeterle. Quel che fugacemente va ricordato è che Michelstaedter denuncia il terribile “errore di logica” che riduce la verità alla corretta dizione. La verità non si dice, si fa. La verità è pratica e inerisce in primo luogo ai modi in cui il bios, l'esistenza umana, si costruisce, si crea, si fa da sé»268. La persuasione sarebbe ciò che permette il

dispiegarsi dei vari linguaggi, cioè ciò in cui hanno non solo la causa del loro essere, ma anche il significato della loro esistenza. Dico sarebbe perché tanto causa che esistenza sono rimesse, in ultima analisi, proprio alla volontà dell'uomo; di questo circolo vizioso tra intenzione e volontà, ritengo che Michelstaedter sia stato tanto testimone che protagonista, tanto critico quanto vittima.

In questo senso, sento di concordare non solo a livello ontologico, ma anche sul piano linguistico, con l'interpretazione di Giorgio Brianese. Silvano Lantier commenta l'interpretazione di quest'ultimo affermando: «è pur sempre la volontà di potenza il loro [riferito a Persuasione e Rettorica] denominatore comune»269. In seguito aggiunge «Tale «sostanziale fraintendimento» circa la

268R. Peluso, Michelstaedter al futuro, La scuola di Pitagora, Napoli, 2012, pp. 25-26.

dottrina dell'essere che il Goriziano condivide con l'intero corso della filosofia occidentale se da un lato conferma radicalmente come sia la volontà il fondamento del suo pensiero, dall'altro fa sì che proprio per questo lo scacco finale della persuasione sia teoreticamente inevitabile»270. Severino riassume in

questa maniera il pensiero di fondo di Brianese: «“Persuasione” e “rettorica” indicano rispettivamente l'esistenza autentica e l'esistenza inautentica. Ma Brianese mostra come questa contrapposizione […] si costituisca all'interno di una fondamentale solidarietà: “persuasione” e “rettorica” sono due forme della volontà di dominio. Brianese giustifica questa tesi, mostrando che il motivo essenziale della critica rivolta da Michelstaedter alla “rettorica” è che quest'ultima è impotente – una impotente volontà di potenza – rispetto alla “persuasione” e che il significato costitutivo della “persuasione” è la volontà di dominare la totalità dell'essere»271. Infine, lo stesso Brianese all'inizio del suo

saggio avverte: «È opportuno rilevare […] che tanto quello di persuasione quanto quello di rettorica sono, nella filosofia di Michelstaedter, due concetti che trascendono la valenza strettamente linguistica per tramutarsi, in forza di un radicale slittamento semantico che impronta di sé l'intera costruzione teoretica michelstaedteriana, in due concetti connotati in modo fortemente esistenziale: persuasione e rettorica sono due vere e proprie modalità dell'esistenza, due

possibilità concesse all'esistenza, la quale può decidersi o per il vivere autentico

o per il vivere inautentico»272. Dunque, risulta esistere un'apparente incongruità

tra la mia analisi e quella di Brianese, in quanto la prima insiste sul piano linguistico dei due “concetti”. In realtà, la considero adeguata e in consonanza a ciò che viene espresso da Brianese in quanto parlare di parola della persuasione non significa arrestarsi e ridurre le due categorie al piano linguistico, ma partire

di Carlo Michelstaedter, in Studi Goriziani, vol. LXIV, luglio-dicembre 1986, pp. 71-86, p. 72.

270Ivi, p. 73.

271G. Brianese, L'arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter, op. cit., p. 11. 272Ivi, pp. 26-27.

dalla rettorica della parola per scorgervi la sua radice profonda nella volontà. La parola rettorica, indagata dal punto di vista linguistico, rimanda a un più profondo attingimento: quello, appunto, di una “possibilità” data all'essere umano, in contrapposizione all'imperativo del “dovere” della persuasione; questo perché essa si manifesta come una mancanza d'interiorizzazione della produzione di un dire che diviene impersonale e separato, che resta in qualche modo straniero. L'afasia comunicativa e di significato della rettorica, paradossalmente, può indicare per negazione ciò che sono l'autenticità e l'inautenticità delle parola persuasiva ovvero, appunto, “due modalità dell'esistenza”. Nel linguaggio, dunque, risiede la possibilità di riscatto perché esso è sia la regione dove il pensiero cresce, sia lo spazio in cui il filosofo goriziano inizia a parlare, inevitabilmente, rompendo il silenzio. Sta all'interprete la fatica, sopportata dallo stesso Michelstaedter, di avvertire il limite non-limite della contraddizione irrisolta del dire. Il filosofo goriziano, in questo senso, è scrittore travolgente che scarnifica e angelica la parola immettendo l'interprete in un continuo esercizio di esplorazione ed esposizione nel terreno in cui la parola della persuasione af- fonda ogni dire, sradicandolo dalla sua pretesa di definitività. Persiste irrisolto (e irrisolvibile) questo iato tra tra la rettorica del linguaggio e la necessità della parola di “dirsi”, affermarsi273.

L'interprete non può far a meno di apprezzarne la coerenza del contrasto, senza però dimenticare che essa elude il nucleo ineludibile di ogni senso, prima fra tutti quello di esistere nel tempo. La parola a cui Michelstaedter tende non può che rigettare ogni discorso sulle procedure di fondazione del proprio metodo274. La persuasione immaginata da Michelstaedter indica in sé un

273«O in altre parole “è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi”» C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 35.

274In riferimento a ciò, emerge la problematica nel definire, o meno, Michelstaedter un esistenzialista. Da un certo punto di vista ciò appare scontato e non del tutto inesatto perché intercetta sia un certo atteggiamento di fondo sia alcuni contenuti determinati che possono suggerire alcuni paralleli con gli esistenzialisti più noti (si pensi all'essere per la morte di Heidegger o il coraggio dell'impossibile in Jaspers). Da un altro punto di vista, però, non rende conto di alcune incongruità come, ad esempio, la riduzione dell'individualità a

problema di “legalità” ultima, non iscrivibile nella struttura degli enti o inquadrata entro schemi formali di rappresentabilità, per cui resta precluso il controllo della veridicità – ma non per questo di verità - dei suoi contenuti. Questo perché, ammesso e non concesso che esista una validità del linguaggio, essa risiede nel mondo dell'etica della vita presente, nel pieno possesso di sé. Infatti, il filosofo di Gorizia si chiede:

«Ma chi, chi χαλεί [chiama]? Chi dice vita? Chi ha coscienza? Come, se la vita si raccogliesse in porto contenta in sé, e in sé consistesse ferma immutabile, cesserebbe la deficienza né ci sarebbe coscienza dell'essere assoluto – così nell'infinito infinitesimale fluttuare di variazioni

non v'è cosa che di questo fluttuare possa aver coscienza»275

Ovvero, il linguaggio può divenire via della persuasione se diviene cosciente in sé e “saggio” da potersi negare, o meglio da riconoscere la vacuità del nome e del suo lavorio, di ciò che lo istituisce e costituisce. Ma, a quel punto, non sarebbe più linguaggio, non sarebbe più volontà di dire “vita”, ma sarebbe proprio “vita” che possiede se stessa, priva di quella dilatazione nel tempo e nello spazio, vita assoluta. «L'assoluto» sottolinea Gianni Carchia «non è qui il privilegio che la tradizione filosofica ha da sempre assegnato alla theoria, contemplazione imperturbabile e distaccata del cosmo […]. L'assoluto non è una visione, ma la realizzazione del beneficio nella pratica. Realizzazione, però, che deve essere essa stessa immediata»276. Lo stesso Michelstaedter insiste più volte sul fatto che

la persuasione non è l'incarnazione di una teoria, ad esempio quando riporta sarcasticamente le parole dell'uomo di scienza in conclusione alla Persuasione:

«“Altro è la teoria, altro la pratica”»277

illusione.

275C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 44 (Corsivi miei).

276G. Carchia, Beneficio e persuasione in Carlo Michelstaedter, p. 111 in S. Cumpeta – A. Michelis, Eredità di Carlo Michelstaedter, op. cit., pp. 107-113.

277C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 189.

«Dopo “Altro è la teoria, altro la pratica” si legge in A la frase, di suggestione omerica, “questo è il πτερόεν έπος (“questa è l'alata parola”) ricopiata in C ma poi cancellata» ( C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., nota 189 p. 212).

Nota circa la dicitura A e C. «Esistono due manoscritti della Persuasione, conservati in questi decenni dalla sorella dello scrittore, Paula Michelstaedter Winteler, e, dopo la morte di

O, altro indizio per comprendere come il linguaggio e la sapienza che da esso ne deriva non scende a patti con una certa metodica che scinde vita e parola, è quello suggerito dal giovane filosofo che, in un corpo a corpo con l'opera platonica, arriva a concludere: «Egli [Platone] non sente che, se la saggezza non è abbastanza saggia da poter permanere anche disarmata di fronte agli armati, non è saggezza»278.

Ciò che però urge sottolineare è che quest'affermazione della persuasione è un atto, non un processo. Se da un punto di vista biografico e nelle prime composizioni del goriziano l'idea della persuasione si definisce mano a mano in contrapposizione alla “rettorica”, nella teoretica matura di Michelstaedter essa non si presenta semplicemente come il rovescio della Rettorica ovvero, come afferma Carchia, come «qualcosa che, quasi un residuo, ci affiori fra le mani dopo la critica di quest'ultima»279. Essa non si presenta con il carattere di una

realtà risarcita. Alcune manifestazioni di una “dialettica negativa” si possono ravvisare nella tramatura della poesia La notte280, scritta nel giugno del 1905 che

è raffrontabile al testo coevo Una messa281; quest'ultima, in particolar modo,

rivela una «vera e propria antinomia tra un polo negativo – la “rettorica, impersonata dal borghese […] - e un polo positivo […], antinomia rappresentata anche dall'opposizione tra il linguaggio “ipocrita” da un lato e la musica dall'altro […] e che evidenzia un dualismo dal quale si sviluppa una sorta di ontologia

questa, custoditi nel “Fondo Carlo Michelstaedter” presso la Biblioteca Civica di Gorizia: il primo, composto di pp. II-182, più un foglietto inserito tra le pp. 66 e 67, e un frammento tra le pp. 134 e 135, è completamente autografo (lo chiameremo d'ora in poi A) […]. Il secondo manoscritto composto di pp. 152 e mutilo di un foglio […] è la copia di A (lo chiameremo C), non autografa. Michelstaedter ha revisionato questa copia, introducendo in tempi diversi correzioni e aggiunte, tra cui tutte le epigrafi in greco ai singoli capitoli» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 27-28).

278C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 192.

279G. Carchia, Beneficio e persuasione in Carlo Michelstaedter, p. 108 in S. Cumpeta – A. Michelis, Eredità di Carlo Michelstaedter, op. cit., pp. 107-112.

280C. Michelstaedter, Poesie, op. cit., p. 39.

281Testo citato in A. Perli, Oltre il deserto: poetica e teoretica di Michelstaedter, op. cit., pp. 11-12.

negativa e di fenomenologia dell'inautentico»282.

Ma, se esiste una forma di dipendenza reciproca tra le due forme opposte d'autenticità dell'esistenza essa consiste nell'insuperabilità della loro stessa differenza e il “beneficio”283 che sgorga dalla persuasione è per sovrabbondanza,

involontario. Diversamente, l'individuo non persuaso vede l'altro come materia a cui dare una forma, sia essa la natura o un altro individuo; tentativo che rimane sempre un atto di violenza. Afferma Carchia: «La Persuasione non è il rovescio della Rettorica […]. Altrimenti, essa sarebbe ancor sempre un risultato della mediazione dialettica […]. essa non è quell'utopia senza immagine né volto che potrebbe sgorgare da una dialettica compiutamente “negatica” e radicalmente critica del mondo esistente […]. Essa è invece quel plenum originario […]. La Persuasione è l'atto puro dell'essere nel suo stato di perfezione […]. Essa non è, dunque un itinerario all'emancipazione»284.

Prigioniero della propria simulazione, il linguaggio “rettorico” in Michelstaedter sembra non conoscere altra forma espressiva che non sia quella della mutua coercizione. Egli è costretto a recitare una parte per promuovere il proprio stesso riconoscimento da parte degli altri, al punto che esso diviene non più espressione del proprio essere, ma oggetto fra i tanti oggetti del mondo; uno strumento oggettivato atto a regolare e promuovere i valori riconosciuti dalla società come veri. Poiché l'uomo è incapace di vivere le proprie parole come espressioni di sé, queste ultime acquistano quell'autonomia pericolosa che assicura il quotidiano ricambio col mondo sociale, risultato inestricabile di parole

282Ivi, p. 13.

283«Dare non è per aver dato ma per dare […]. La munificenza che aspetta il nome, il beneficio che aspetta la gratitudine, il sacrificio che aspetta il premio, sono come ogni altra faccenda che non ha in sé il fine ma è mezzo ad aver qualche cosa, e come dal bisogno di questa è necessitata, da questa pel futuro dipende […]. Non può fare chi non è, non può dare chi non ha, non può beneficare chi non sa il bene […]. Dare è fare l'impossibile: dare è avere» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., pp. 80- 82).

284G. Carchia, Beneficio e persuasione in Carlo Michelstaedter, p. 108 in S. Cumpeta – A. Michelis, Eredità di Carlo Michelstaedter, op. cit., pp. 107-112.

vuote, di individui che dirigono tutto il loro sforzo nella difesa della loro soggettività.

«Quanti sono schiavi del «bisogna vivere» che attendono tutto dal futuro e si protendono verso le cose, - pretendono da queste le consuete relazioni […]. Tutti hanno ragione di vivere.... che

hanno avuto il torto di nascere»285

A questo panorama di conflitti etici a regolamentazione sociale si può ribattere solo con la via etica, quella dell'autenticità, afferma Michelstaedter. Nella sfera del linguaggio, all'equivalenza con se stessi fondata sulla logica bivalente, Michelstaedter ribatte con l'ambivalenza del linguaggio: mostra che la fondazione tra vero e falso, giusto e ingiusto è giocata all'interno del giudizio286;

essi non sono, dunque, vere forme d'autenticità, ma modelli di simulazione, compromissioni. La rettorica non analizza mai questo mondo, ma solo l'oggetto- mondo che s'è data dissociandosi dal primo e assumendo per vere le norme e i comportamenti del secondo. Il linguaggio rettorico, dunque, non può raggiungere la persuasione semplicemente perché ciò di cui parla e ciò che vuole conoscere è il prodotto dei suoi modelli di riferimento. Sconfinare in quel non luogo e non