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2.1 Vita e parola

2.1.1 La pluralità del linguaggio La parola assicurata

2.1.1.2 Il “grosso signore”

«Se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario d'un'indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta borghese e sufficiente e sapiente»44

Alla luce di quanto osservato, ritengo opportuno riprendere l'analisi del brano in cui si ravvede questa distonia con il padre, con il proprio nucleo famigliare e, almeno in parte, con se stesso. Mio interesse sarà quello di scorgere in alcuni passi del dialogo con il «grosso signore» sia quella relazione tra opera e vita sia quel riferimento al ruolo che la parola e il linguaggio svolgono nel

43 C. Michelstaedter, Epistolario, op. cit., p. 227.

giovane goriziano.

Afferma il “grosso signore”: «Credo che sono un artista; non che io scriva o dipinga ma – lei m'intende: artista, artista nell'anima”. Questo «minuscolo uomo d'affari e di cultura marginale»45 continua dicendo: «Io ho buon cuore,

pieno di sentimenti gentili coi quali mi rendo poetica ogni situazione e mi faccio bella la vita, mi creo i piaceri»46. Si noti il contrasto «Io ho buon cuore» con le

parole della lettera di Carlo poc'anzi citata: «Io non sono solido, non sono buono». Il signore prosegue: «Ma... bisogna aver la coscienza d'aver dato il proprio dovere. Oh questo sì, sul dovere non si transige. Altro è compiacersi di letteratura, di scienza, d'arte, di filosofia nelle piacevoli conversazioni – altro è la vita seria […]. Quando indosso l'uniforme vesto anche un'altra persona. Io credo che nell'esercizio delle sue funzioni l'uomo debba esser assolutamente libero. Libero di mente e spirito. Nell'anticamera del mio ufficio io depongo tutte le mio opinioni personali, i sentimenti, le debolezze umane. Ed entro nel tempio della civiltà a compiere la mia opera col cuore temprato all'oggettività! Allora io sento di portare il mio contributo alla grande opera di civiltà in pro dell'umanità. E in me parlano le sante istituzioni»47. Questo signore mantiene quell'atteggiamento

ordinato da una raccomandazione del Talmud, sicuramente non estranea ad Alberto: «Se sei entrato in una città, uniformati alle sue leggi»48. Nella società del

45 Parole di Ferrucio Fölkel per descrivere il padre Alberto, ma che potrebbero esser adatte anche per ritrarre il “grosso signore”. «Progenie di importanti rabbini, questo minuscolo uomo d'affari e di cultura marginale, procedeva nella vita come un assilato o come un marrano; era un po' il Feodor Feodorovich della storiella yiddish». (S. Cumpeta – A. Michelis, Eredità di Carlo Michelstaedter, op. cit., p. 221).

La figlia Paula così tratteggia il padre: «Papà era conservativo per le usanze tradizionali ebraiche, ma non era osservante dei riti né possedeva uno spirito religioso. Anzi era il tipco rappresentante della mentalità dell'Ottocento» (FCM IX E 6 citato in G. A. Franchi, Una disperata speranza: profilo biografico di Carlo Michelstaedter, op. cit., p. 27).

46 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 137 (Corsivi miei). 47 Ivi, pp. 138-139.

48 Gen. R. R. XLVIII, 14.

Da sottolineare, a tal proposito, la precisazione di Gian Andrea Franchi: «Questa raccomandazione, veramente, è rivolta agli ebrei ortodossi, per cui anche l'esilio è frutto della volontà divina, mentre Alberto Michelstaedter si può considerare al massimo un “ebreo dei quattro giorni”: uno di quegli ebrei austriaci che avevano conservato solo il rituale

padre o del “grasso signore”, parlare non significa comunicare. Farlo in prima persona diventa superfluo, se non un fattore di disturbo nel regime della funzionalità. La parola rettorica elimina le differenze, in modo che il dire di ciascuno, già coestensivo al mondo di tutti, diventa coestensivo e al limite sovrapponibile al dire di chiunque. Diventa egemone il linguaggio dell'adattamento il cui implicito invito è quello di esser sempre più congruenti all'apparato che lo stesso vuole armonizzare49. Si vieni a creare una situazione

paradossale per cui, per salvare se stessi dal tempo e dal pericolo del non riconoscimento, l'“autenticità” e il “conoscere se stesso”, che indicavano la via della salute dell'anima, diventano qualcosa di patologico nella società del “grosso signore”. In altri termini, sia nel campo linguistico che, di rimando, in quello della biografia di Carlo, la denuncia del goriziano è scagliata contro quel pensiero che considera inferiore chi non si è ancor adattato, per il quale non rinunciare alla specificità della propria identità è una patologia. Sul franoso terreno dell'identità, della parola e dell'ebraismo michelstaedteriani, Alberto Cavaglion, confrontando la figura di Gershom Scholem50 con quella del

goriziano, giunge ad affermare: «In Scholem, come in Michelstaedter, eguale era il rifiuto delle astratte, verbose teorie, l'idiosincrasia era semplicemente la capacità di ammettere che la natura del proprio disagio, l'origine della propria “malattia”, fosse connessa con le lacerazioni insolute del proprio io ebraico. Di tali lacerazioni Scholem era consapevole, Michelstaedter no»51.

estrinseco delle tre gradi feste religiose, aggiungendovi l'anniversario di Francesco Giuseppe» ( G. A. Franchi, Una disperata speranza: profilo biografico di Carlo Michelstaedter, op. cit., p. 28).

49 Una raccomandazione come quella del Talmud diventa bersaglio privilegiato della radicale critica filosofica e sociale di Michelstaedter: «Non siamo né i primi né gli ultimi a questo mondo, e, poiché bisogna vivere, conviene adattarsi a quello che si trova, che d'altronde non potremmo cambiare» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 73); al contrario, «la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato» (Ivi, p. 104).

50 «Gershom Scholem, lo storico del messianismo, l'amico prediletto (e il corrispondente fedele) di Walter Benjamin». (A. Cavaglion, I sentieri della rettorica i n S. Cumpeta – A. Michelis, Eredità di Carlo Michelstaedter, op. cit., p. 65).

In risposta a tali affermazioni, anche in riferimento alle dinamiche già analizzate di “ira” e “tristezza”, risultano di particolar rilievo le parole della sorella di Michelstaedter. Paula, unica della famiglia sfuggita all'orrore di Auschwitz52, era poco più giovane del fratello; i due erano particolarmente legati,

basti ricordare la nota conclusione della poesia del 2 agosto 1910 a lei dedicata dal filosofo:

«Paula, non ti so dir dolci parole, / cose non so che possan esser care, / poiché il muto dolore a me ha parlato / e m'ha narrato quello che ogni cuore / soffre e non sa – ché a sé non confessa. /

Ed oltre il vetro della chiara stanza / che le consuete immagini riflette / vedo l'oscurità pur minacciosa / - e sostare non posso nel deserto. / Lasciami andare, Paula, nella notte / a crearmi

da me stesso, / lasciami andar oltre il deserto, al mare / perch'io ti porti il dono luminoso / …. molto più che non credi mi sei cara»53

Marco Cerutti, professore di Letteratura italiana nell'Università di Torino54,

incontra Paula nel 1966, prima epistolarmente e poi di persona. Durante un carteggio durato fino al 1969, Paula scrive una lettera che può aiutare a precisare i contorni, e quindi ad eliminare i torti, del carattere e personalità del fratello. In data 14 febbraio 1968, rivolgendosi a Cerruti, scrive: «Lei, parlando di Carlo, usa parecchie volte il termine “nevrosi”. Forse gli dà un altro significato. È certo che negli ultimi mesi d'intenso lavoro, prima di consegnare la tesi, in cui si concedeva poche ore di sonno e si nutriva male il suo organismo ne sofferse e i nervi ne risentirono. Ma non si può dire che fosse stato un nevrotico. Era d'un

Michelstaedter, op. cit., p. 67.

52 A tal proposito merita menzionare le parole di Chiavacci che afferma come la madre Emma Luzzato, durante il trasporto ad Auschwitz, fosse «di esempio e di conforto ai compagni di sventura col suo comportamento forte e sereno» (G. A. Franchi, Una disperata speranza: profilo biografico di Carlo Michelstaedter, op. cit., p. 44).

53 C. Michelstaedter, Poesie, op. cit., p. 72.

54 Singolare è l'osservazione di Cerruti quando afferma: «Consapevole della pericolosità di Michelstaedter ho sempre evitato di assegnare tesi che in qualche modo lo riguardassero». Poi aggiunge: «Ho solo derogato da questa linea, qualche anno fa, assegnando un lavoro a un giovane molto vitale e insieme equilibrato […]. Piuttosto negativo è invece un ultimo “ricordo” legato a un'altra tesi […]. Il giovane italianista, da poco laureato, scelse di suicidarsi […] nel settembre del 1990, a breve distanza dal giorno di ottobre in cui Carlo si era sparato alla tempia». (M. Cerrutti et. al., Carlo Michelstaedter: l'essere come azione, op. cit., pp. 16-17).

perfetto equilibrio mentale. Lo confermano anche quelle poche righe di Nino Paternolli, scritte pochi giorni dopo la sua morte […], dove parla delle ultimi notte di lavoro»55. E ancora: «Di questo sono sicura: s'è formato e maturato

proprio da sé, liberandosi, come diceva anche lui stesso, da tutti i resti atavici. Forse le uniche due persone che hanno lasciato traccia nel suo pensiero furono Enrico Mreule e Nadia, l'amica russa che conobbe a Firenze, di cui il suicidio gli fece una profonda impressione»56.

Considerando assieme le differenti posizioni presentate fino ad ora circa la presunta “malattia” del giovane goriziano, espresse da Cavaglion, da Cerruti e della sorella Paula, si può abbozzare una diversa manifestazione di questa sia nell'uomo rettorico sia nel persuaso. Nel primo caso, il “grosso signore” - e, almeno in parte, Alberto – in quanto uomini rettorici sono affetti da “schizofrenia della parola”. Per il persuaso Carlo Michelstaedter rimane aperto l'interrogativo circa la sua possibile “schizofrenia del tempo”. Di seguito proverò ad analizzare entrambi i fronti per enucleare le ragioni di tale distinzione.

Nell'uomo rettorico, priva com'è dell'autenticità di sé, la parola è presenza vuota che si alimenta di sé. La parola non è più espressione di sé ma è accesso ad un linguaggio la cui dinamica, come si vedrà nel dettaglio, tende ad abolire o “modificare”57 quella della persuasione. D'altra parte però, si può ritenere che

anche Carlo Michelstaedter non sia affetto, almeno in parte, da una forma di tale malattia. Se la schizofrenia dell'uomo rettorico è sul versante del linguaggio, quella del giovane goriziano potrebbe esser rintracciata sul fronte del tempo. Diviso negli infiniti attimi, il persuaso comprende che «la vita sarebbe una,

immobile, informe, se potesse consistere in un punto»58; lo comprende sul piano

55 M. Cerrutti et. al., Carlo Michelstaedter: l'essere come azione, op. cit., p. 15. 56 Ibidem.

57 Si vedrà infatti nel capitolo La vergogna del “grosso signore” che Alberto Michelstaedter insisterà per modificare e, infine, omettere il brano del dialogo tra il “grosso signore” e l'autore.

ontologico, ed pervaso da questa illuminazione, inevitabilmente, sul piano esistenziale. La verità per cui «la vita sarebbe se il tempo non le allontanasse l'essere costantemente nel prossimo istante»59, condurrebbe ad una esperienza

schizofrenica di questa verità del tempo, caratterizzata dall'incenerirsi di ogni possibilità per la fissazione di quella vessazione della volontà. Ogni atto del giovane goriziano diverrebbe unico, tendendo a sfuggire al proprio fondamento temporale al prezzo di trovarsi nell'abisso senza fondo. Uso il condizionale perché risulta difficile dire se quella della “schizofrenia del tempo” sia stato realmente una malattia che ha segnato il giovane o sia, al contrario, quella distanza che lo distinse dall'uomo rettorico. Bisognerebbe comprendere se l'a- storicità del suo pensiero e della presenza del giovane intellettuale, se la sua stessa possibilità di un suo divenire e maturarsi, abbiano condotto il suo arrestarsi in un'eternità come intensità dell'attimo vissuto o come il vuoto di una temporalità caduta a pezzi nelle singolarità delle sue e-stasi. Capitolazione della presenza da non interpretarsi tanto nel suicidio, quanto negli ultimi mesi di vita del giovane goriziano, periodo intenso e rocambolesco che analizzerò in seguito60.

Il dialogo tra il “grosso signore” della “botte di ferro”61 e l'autore si

59 Ibidem.

60 Più precisamente, nel capitolo titolato La scelta fiorentina e i tre momenti di una dinamica geografico-esistenziale.

61 Si veda il disegno a pastelli colorati, intitolato da Sergio Campailla La botte di ferro. Appendici. Immagine 2.

La botte di ferro.

Commenta Alessandro Carrera: «Questo “ritratto di borghese” pingue, gli occhi appesantiti da una palpabile incapacità di comprendere ciò che si svolge più in là del proprio naso, ha richiamato a Campailla il dialogo con il quale si apre il capitolo III della seconda parte de La persuasione e la rettorica, la scena del dopopranzo con il “grosso signore” perfettamente sicuro di essere “assicurato”, immune, contro ogni imprevisto della vita, morte compresa, e di vivere perciò in una botte di ferro […]. Ma non ci si faccia ingannare. Il grosso signore trasuda anche forza, determinazione, capacità ferina di resistenza al contagio dell'esistenza. È il borghese nella botte di ferro che sopravvive alla vita, non l'acuto filosofo e critico dei costumi. Quest'ultimo non arriverà nemmeno a vedere lo scoppio della Prima guerra mondiale. Il grosso signore la cavalcherà invece benissimo […]. E comunque nessun borghese, per Michelstaedter, è più eterno di suo padre» (A. Carrera et. al., Carlo Michelstaedter. Un'introduzione, op. cit., pp. 157-158).

conclude con un rapido e crescente botta risposta il cui filo rosso è il tema dell'assicurazione: assicurarsi lo stipendio62, assicurarsi il sostentamento quando

«questa sua mirabile fibra sarà affievolita»63 o in caso di malattia64, assicurarsi

contro il furto, l'incendio e gli accidenti65. Al punto che persino di fronte

all'inevitabilità della condizione umana: «“Ma infine morire – moriamo tutti!”»66,

l'assicuratore serenamente afferma: «“Fa niente, son assicurato pel caso di morte»67.

Quella che sottosta all'assicurazione è la falsa verità della rettorica; essa ha soppresso ogni differenza e l'ha sostituita con l'equivalenza esistenziale, logica e linguistica, invariante che percorre tutte le variazioni. Ogni cosa, ogni parola si carica di un'astrazione per cui essa è il riflesso di se stessa, ma rimane, al fondo, inconsistente. «Gli occhi finiranno per non vedere ciò che invano vedrebbero, le orecchie di sentire ciò che invano sentirebbero – il corpo dell'uomo si disgregherà... si verserà»68. L'equivalenza generale, attuata dalla società, sottrae

ogni cosa e accadimento della vita dall'imprevisto attraverso l'assicurazione che le normalizza, ponendole sullo stesso livello: quello della sicurezza. L'unico valore consiste in questo equivalente generale che si incarica di esprimerle; afferma Michelstaedter:

«- Ma la società elimina ogni πόνος [fatica] – ogni pericolo che esiga tutta la fatica intelligente e tenace per esser superato: l'impegno di tutta la persona per non esser mortale, e vi sostituisce: o

62 «“[...] Lei non pensa ai suoi interessi?”. “Lo stipendio... corre ed è sicuro» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 139).

63 «C'è la pensione: - lo Stato non abbandona i suoi fedeli» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 139).

64 «Niente, niente – appartengo a una cassa per ammalati, come tutti i miei colleghi» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 139).

65 «“[...] capisco che siamo difesi dalle leggi – pure – i furti sono all'ordine del giorno”. “Sono assicurato contro il furto”. “Ah! ma... e.... metta il caso d'un incendio”. “Assicurato contro il fuoco” […]. “Assicurato contro gli accidenti”» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 139).

66 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 140. 67 Cfr. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 140. 68 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 159.

la sicurezza o άμηχάνονς σνμφοράς [irreparabili sciagure]»69