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AUTISMO

Nel documento Verso una psicologia genere specifica (pagine 52-65)

6. SEX RATIO IN PSICOPATOLOGIA

6.5 AUTISMO

Secondo la “extreme male brain theory of autism” (Baron-Cohen, 2002), vi sono delle differenze nella capacità di empatizzare e sistematizzare tra maschi e femmine, come già è stato esposto nel precedente capitolo.

Queste differenze, secondo l’autore, starebbero alla base del sex ratio che si osserva riguardo l’autismo: all’interno dello spettro autistico, i maschi sono presenti molto di più delle femmine, fino a 10 volte di più per le forme ad alto funzionamento.

Baron-Cohen (2002) ha ripreso un’ipotesi che risale al 1944, avanzata da Han Asperger, e ha tentato di dimostrarla attraverso test che misurano le dimensioni correlate all’empatizzazione e alla sistematizzazione, trovando valide evidenze. Inoltre, tra i sintomi chiave facenti parte dello spettro autistico, è da evidenziare che i fenomeni imprevedibili e non controllabili, come i comportamenti delle altre persone, mettono in difficoltà gli individui autistici, che sono, invece, attratti da fenomeni più prevedibili. Inoltre, questi individui, contrariamente a quanto afferma la teoria della scarsa coerenza centrale, riescono a comprendere un sistema come globale e a individuare le relazioni che vi sono tra i pattern del sistema. Dal punto di vista della sistematizzazione, afferma sempre Baron-Cohen, il miglior punto di partenza sono i dettagli per comprendere un sistema: queste persone sembrano isolarli per comprenderne i legami all’interno del sistema.

Perciò, il cervello autistico sarebbe un “estremo” del cervello maschile, motivo per cui questo disturbo colpirebbe molti più soggetti maschi.

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6.5.1 AUTISMO ED EPIGENETICA

Il disturbo dello spettro autistico (ASD) colpisce circa l'1% della popolazione ed è caratterizzato da problemi nell'interazione sociale, deficit di comunicazione e modelli di comportamento limitati. Diversi fattori, tra cui quelli genetici, epigenetici e ambientali, sono ritenuti fondamentali nello sviluppo di questo disturbo (Yu et al., 2015).

Sono stati identificati centinaia di geni associati allo spettro autistico. Tuttavia, una grande parte dell'ereditarietà rimane difficilmente spiegabile: vi sono, difatti, gemelli monozigoti discordanti per l'ASD. È stato, quindi, a lungo sospettato che le influenze epigenetiche possano contribuire alla patogenesi dello spetto autistico (Yu et al., 2015).

Meccanismi epigenetici tra cui la metilazione del DNA e il rimodellamento della cromatina da modificazioni istoniche, come discusso nei precedenti capitoli, possono influire sulla quantità e qualità dei prodotti genici a diversi livelli. Si è visto che i promotori di vari geni collegati all’ASD si trovato in uno stato di ipermetilazione nei pazienti con autismo (Nagarajan et al., 2008; LaSalle & Yasui, 2009). Ciò suggerisce che la metilazione alterata del DNA possa giocare un ruolo importante nella patogenesi dell’ASD, nonostante il meccanismo con cui essa agirebbe su questo disturbo non sia ancora stato chiarito. Due studi (Ladd-Acosta et al., 2014; Wong et al., 2014) hanno individuato numerosi loci ipermetilati, analizzando il profilo di metilazione del DNA in tutto il genoma di alcuni soggetti con ASD, ma soltanto alcuni di questi loci si sovrappongono a noti geni associati all'ASD identificati dagli studi di sequenziamento (Yu et al., 2015).

È stato, inoltre, ampiamente riconosciuto il ruolo che rivestono le esposizioni ambientali nell'eziologia dell'autismo. Secondo alcuni studi condotti su ratti, le esposizioni materne durante la gravidanza a differenti sostanze (acido valproico, piombo e manganese) sarebbero correlate ad alterazioni nel comportamento della prole che ricordano il comportamento difettuale dei soggetti appartenenti allo spettro autistico (Hill et al., 2015). Per quanto riguarda l’uomo, alcuni studi hanno suggerito che l’esposizione al piombo, anche in minima quantità, potrebbe avere effetti avversi anche gravi sullo sviluppo del cervello (Lanphear et al., 2005). L’esposizione a basse dosi di manganese, in bambini suscettibili, potrebbe portare a neurotossicità subclinica (Grandjean & Landrigan, 2006). Altri studi riportano che i livelli di manganese sono significativamente associati allo sviluppo mentale e psicomotorio nei

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bambini (Takser et al., 2003; Su et al., 2007; Henn et al., 2010).

6.6 DEPRESSIONE

La depressione è uno dei disturbi maggiormente studiati per quanto riguarda la differenza tra maschi e femmine: lungo l’arco di vita, le femmine hanno un rischio doppio, rispetto ai maschi, di andare incontro a un disturbo dell’umore. Questo dato è riportato come presente in diversi contesti e in diverse società, indipendentemente dall’etichettatura diagnostica e dall’età dei soggetti (Hodes et al., 2017).

I sintomi si presentano, tra le donne, generalmente come più severi e gli episodi depressivi femminili sono tipicamente più prolungati e si presentano in maniera più ricorrente che nei maschi depressi. Le donne depresse, generalmente, sperimentano aumento di peso, ansia e manifestazioni fisiche maggiori rispetto agli uomini.

Inoltre, mentre i suicidi messi in atto sono in prevalenza portati a termine da uomini, uno studio condotto su nove differenti paesi ha individuato come siano le donne ad effettuare un maggior numero di tentativi di suicidio. Su questo dato sembra avere influenza la violenza di genere, che sarebbe un predittore di tentativi di suicidio nelle donne: più del 20% delle donne che hanno subito violenza, compie almeno un tentativo di suicidio. Nonostante questi dati, la maggior parte degli studi sperimentali preclinici sono stati condotti su soggetti di sesso maschile (Weissman, Bland, Canino et al, 1999).

Le differenze nell’incidenza della depressione sembrano emergere durante il periodo dell’adolescenza, dato che sembra suggerire un ruolo degli ormoni sessuali in questa suscettibilità femminile (Nolen-Hoeksema, 1990). Ulteriore dato a favore di questa ipotesi è che l’incidenza della depressione nelle donne a seguito della menopausa sembra essere simile a quella che si trova tra gli uomini (Bebbington et al., 2003). Livelli inferiori di estradiolo sono stati individuati in donne in premenopausa e vicine alla menopausa (Young et al., 2000; Harlow et al., 2003). Gli estrogeni e la serotonina sembrano interagire in maniera significative: nei modelli animali, la somministrazione di estrogeni porta ad alterazioni nella trasmissione, nei legami e nel metabolismo della serotonina all’interno del cervello (Sramek et al., 2016).

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maniera differente tra maschi e femmine: la serotonina sembra essere maggiormente presente nelle donne che negli uomini, ma questi ultimi sintetizzano la serotonina in maniera molto più veloce e questa alterazione sembrerebbe essere collegata alla maggior suscettibilità femminile per la depressione. Anche il sistema dopaminergico, che abbiamo visto avere un tono basale differente tra maschi e femmine, sembra entrare in gioco nella suscettibilità alla depressione (Sramek et al., 2016).

Altro importante fattore di cui tenere conto è la comorbidità: la depressione e l’ansia sono diagnosi comunemente in comorbidità tra loro e le donne hanno una più alta prevalenza lungo l’arco di vita per entrambe e una maggior comorbidità a 12 mesi per tre o più disordini (Kessler et al., 1994). La comorbidità psichiatrica, con la depressione come fattore comune, è una caratteristica individuata da differenti studi, che sembra essere ricollegata all’aver subito violenza domestica da parte del soggetto femminile (Kessler et al., 1994; Campbell et al., 1996).

Inoltre, la depressione presenta un alto tasso di comorbidità anche con altre condizioni mediche croniche, come l’obesità e la sindrome metabolica (Goldstein et al., 2016).

6.6.1 DEPRESSIONE ED EPIGENETICA

Come già discusso in precedenza, gli eventi ambientali possono indurre cambiamenti epigenetici e, di conseguenza, contribuire a cambiamenti a lungo termine nei circuiti neuronali e nei sistemi endocrini associati al rischio alterato di disturbi psichiatrici legati allo stress, come la depressione maggiore (Nestler et al., 2002). La metilazione del DNA sembra essere il cambiamento epigenetico più studiato nella ricerca sulla depressione (Menke & Binder, 2014; Bagot et al., 2014).

Fattori ambientali, come appunto lo stress, svolgono un ruolo importante nei disturbi psichiatrici inducendo cambiamenti stabili nell'espressione genica, nella funzione del circuito neurale e infine nel comportamento. L'esposizione a eventi di vita stressanti o traumatici, soprattutto nei primi periodi della vita, è, difatti, uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di diversi disturbi psichiatrici, tra cui la depressione. Le modifiche epigenetiche sembrano mediare gli effetti indotti dall'esposizione allo stress sull'espressione genica e sugli effetti a lungo termine sul funzionamento neuronale e, quindi, sul rischio di sviluppare depressione. L'ambiente avverso precoce lascia segni epigenetici duraturi attraverso

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cambiamenti nella metilazione del DNA e modifiche degli istoni (Menke & Binder, 2014). La somministrazione di inibitori delle istone deacetilasi (HDAC) a seguito di stress prenatale, sembra migliorare i comportamenti depressivi (Matrisciano et al., 2013).

Molti dei dati che riguardano i meccanismi epigenetici coinvolti nella depressione provengono da studi effettuati su modelli animali (Bagot et al., 2014). L’esposizione a stress prenatale sembra essere associata a cambiamenti persistenti nella metilazione del DNA nel cervello di topi adulti (Mueller & Bale, 2008). Negli esseri umani, è stata individuata un’ipermetilazione nel promotore di un gene associato ai sintomi depressivi nel sangue del cordone ombelicale dei figli di madri che avevano sofferto di depressione durante il terzo trimestre di gravidanza (Oberlander et al., 2008; Hompes et al., 2013) e di madri che avevano subito violenza durante la gravidanza (Radtke et al., 2011). Questi effetti, inoltre, non erano annullati da trattamenti con antidepressivi (Oberlander et al., 2008; Radtke et al., 2011; Hompes et al., 2013).

Anche le esperienze post natali, in particolar modo le variazioni in quantità e qualità delle cure materne, si è visto che alterano i livelli di metilazione del DNA in geni che sembrano essere coinvolti nella risposta comportamentale allo stress. La prole sottoposta ad un minor livello di cure materne, comparata con la prole cresciuta con un maggior livello di cure materne, presenta grandi cambiamenti nella metilazione del DNA (Suderman et al., 2012; Peña et al., 2013).

Il miglioramento dei comportamenti depressivi nei roditori a seguito di inibizione delle HDAC sia da sola, che in combinazione con trattamento antidepressivo, è stata individuata da molti studi (Semba et al., 1989; Weaver et al., 2004; Tsankova et al., 2006; Schroeder et al., 2007; Covington et al., 2009; Zhu et al., 2009; Uchida et al., 2011; Yamawaki et al., 2012) ed ha suggerito l’importanza dell’acetilazione istonica nella patogenesi della depressione. È necessario che vengano approfonditi e portati avanti studi che tentino di comprendere l'interazione tra stress evolutivo, epigenetica e disturbi neuropsichiatrici dell'adulto, di modo da individuare come i diversi meccanismi epigenetici interagiscono nella patogenesi dei disturbi psichiatrici, tra cui la depressione (Bagot et al., 2014).

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6.7 ANSIA

In letteratura sono presenti un gran numero di evidenze riguardo la maggiore prevalenza dei disturbi d'ansia nelle donne, rispetto agli uomini: le femmine sono colpite due volte tanto da questi disturbi. Vi sono, inoltre differenze di genere anche nella gravità e nell'efficacia del trattamento (Donner & Lowry, 2013).

È ormai noto che gli estrogeni regolano positivamente l'espressione del gene del fattore di rilascio della corticotropina (CRF) (Bangasser et al., 2011; Valentino et al., 2016), che non solo orchestra l'attività dell'asse HPA, ma si esprime anche nei circuiti cerebrali correlati all'ansia e facilita i comportamenti ansiosi e gli stati d'ansia duraturi. Le differenze nelle azioni a livello centrale del CRF, quindi, possono essere rilevanti per la prevalenza femminile nei disturbi d'ansia.

Studi che hanno utilizzato le neuroimmagini hanno individuato, tra maschi e femmine, differenze strutturali e funzionali in regioni cerebrali rilevanti nei fenomeni collegati all’ansia, come la corteccia prefrontale, l’ippocampo e il complesso amigdaloideo (Stevens & Hamann, 2012). La parte centrale del nucleo del letto della stria terminale è risultato più piccolo nelle donne e si è visto che le emozioni negative erano associate in maniera consistente a una maggiore attivazione della amigdala centrale di sinistra nelle donne, mentre le emozioni positive attivavano l’amigdala centrale di sinistra più negli uomini (Stevens & Hamann, 2012).

Esiste un ampio corpus di letteratura sullo sviluppo degli stati di ansia dell'adulto a seguito di esperienze avverse di vita precoce, effetto che probabilmente dipende da modificazioni epigenetiche che determinano sia alterazioni a lungo termine della fisiologia cerebrale, che strategie di coping di stress, e molti di questi modelli riportano differenze tra i sessi in comportamenti collegati all’ansia (Donner & Lowry, 2014).

Vari stress prenatali, tra cui malnutrizione, esposizione materna a fattori di stress psicologico o sociale, o aumento del milieu infiammatorio materno a causa di infezioni batteriche o virali, portano ad uno sviluppo del cervello alterato e ad un aumento dell'ansia nella vita adulta nella prole (Markham & Koenig, 2011).

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Anche per quanto riguarda questo disturbo, le istone deacetilasi sembrano avere un ruolo fondamentale nella patogenesi e nel procedere della patologia. Le infusioni bilaterali di un inibitore delle istone deacetilasi nell’amigdala centrale attenuano, nel topo, i comportamenti di ansia, ma anche l'ipersensibilità somatica e viscerale derivante dall'elevata esposizione ai corticosteroidi. Difatti, è stato dimostrano che un prolungato aumento di corticosteroidi nell’amigdala centrale induce comportamenti di ansia, allodinia somatica e iperalgesia viscerale (Tran et al., 2014).

Inoltre, la deacetilazione istonica potrebbe contribuire alla regolazione dei corticosteroidi da parte dei recettori dei glucocorticoidi e alla conseguente espressione del fattore di rilascio della corticotropina nell’amigdala centrale. Meccanismi epigenetici come quello della deacetilazione istonica sarebbero, quindi, fattori che contribuiscono attivamente nello sviluppo di ansia cronica e di dolore (Tran et al., 2014).

Il trattamento con inibitori delle istone deacetilasi non soltanto annulla gli effetti della deacetilazione globale, ma agisce anche sul fenotipo del dolore, suggerendo che la deacetilazione istonica è coinvolta nella risposta comportamentale ai livelli elevati di corticosteroidi nell’amigdala centrale. Anche i livelli basali di ansia, a seguito di trattamento con inibitori delle istone deacetilasi, risultavano migliorati (Tran et al., 2014).

6.8 ADHD

Il disturbo da disattenzione ed iperattività (ADHD) ha un'eziologia evolutiva, in quanto la diagnosi può essere fatta attorno ai 7 anni di età ed è un disturbo relativamente comune, in quanto colpisce il 6% dei bambini (Davies, 2014). Il decorso della malattia cambia con lo sviluppo: l'ADHD si manifesta e raggiunge il picco durante l'infanzia e cala con il passaggio dall'adolescenza all'età adulta. Questa attenuazione nella sintomatologia è tale che circa il 30% dei casi ha una remissione entro l'adolescenza e la percentuale di remissioni sale fino al 50-70% entro l'età adulta (Andersen & Teicher, 2000).

Questo disturbo è presente da 2 a 4 volte di più tra i maschi, che tra le femmine, sebbene le femmine con ADHD sembrino presentare un disturbo più grave rispetto agli uomini (Andersen & Teicher, 2000). Secondo alcuni (Andersen & Teicher, 2000) le femmine cercherebbero più dei maschi un trattamento per questo disturbo, ma vi sono dati non concordanti a riguardo (Dakwar et al., 2014). Le differenze di sesso nella prevalenza di

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ADHD sembrano essere più pronunciate durante l'infanzia, diventando meno evidenti con l'aumentare dell'età; le femmine spesso ricevono una diagnosi di ADHD significativamente più tardi rispetto ai maschi, il che potrebbe riflettere un effetto tampone della loro precoce maturità dello sviluppo (Davies, 2014). Inoltre, sebbene gli uomini abbiano maggiori probabilità rispetto alle femmine di soffrire di tutti i sottotipi di ADHD, sembra che una percentuale maggiore di femmine rispetto ai maschi con diagnosi di ADHD (sia tra bambini che tra adulti) siano assegnate al sottotipo disattento (45-60% contro 35-50%) (Willcutt, 2012).

L’aumento dei recettori striatali per la dopamina D1 e D2 nei maschi, ma non nelle femmine, sembra correlato allo sviluppo precoce dei sintomi motori del disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Il che potrebbe spiegare l’incidenza maggiore di questo disturbo tra i maschi (Andersen & Teicher, 2000). Inoltre, si è visto che il pruning (potatura) dei recettori della dopamina striatale coincide con il tasso di remissione (stimato del 50-70%) nell'età adulta. Problemi di attenzione maggiormente persistenti possono essere associati alla sovrapproduzione e alla potatura ritardata dei recettori della dopamina nella corteccia prefrontale (Andersen & Teicher, 2000).

6.8.1 ADHD ED EPIGENETICA

Teoricamente, l'espressione differenziale di uno o più geni X-linked che sfuggono all’inattivazione dell’X (meccanismo di cui si è già parlato nel capitolo 3) nel cervello può contribuire alle differenze di sesso nella vulnerabilità ai disturbi mentali. Infatti, un’analisi (Zhang et al., 2013) ha dimostrato che esiste un eccesso di geni che sfuggono all’inattivazione dell’X associati alla disfunzione cognitiva nell'uomo.

Per quanto riguarda il rischio di ADHD, sembra che un dosaggio maggiore nelle femmine rispetto ai maschi di uno o più geni legati all'X sia protettivo (Zhang et al., 2013; Davies, 2014). Alcune evidenze empiriche (Russell et al., 2006) di individui con anomalie cromosomiche sessuali, come la sindrome di Turner, supportano l'idea che l'espressione dei geni X-linked sfuggiti all’inattivazione possa influenzare i fenotipi comportamentali di rilevanza per l'ADHD. Vi sono dati (Tartaglia et al., 2012) anche riguardo la sindrome di Klinefelter e della tripla X, che suggeriscono che sia il sovradosaggio che il sottodosaggio dei geni X-linked possa contribuire alla patofisiologia dell’ADHD e anche alle differenze tra i

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sessi per questo disturbo.

Per quanto riguarda l’imprinting genomico, sembra che anche questo meccanismo possa essere coinvolto nello sviluppo del rischio e, in seguito, della sintomatologia del disturbo da disattenzione e iperattività, ma i dati sono ancora insufficienti (Davies, 2014).

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7. PSICOFARMACOLOGIA E GENERE

Si è, in parte, già discusso riguardo l’importanza di trial clinici effettuati su campioni di soggetti che siano rappresentativi di entrambi i sessi. Difatti, in passato, gli studi sono stati effettuati principalmente su soggetti maschi, andando a discapito dei risultati degli studi stessi. Uno studio che analizzi l’efficacia di un farmaco, non può non tenere conto della variabilità presente tra gli individui, a partire proprio dal genere di questi. Nel 75% degli studi condotti su animali, il loro sesso è ignorato (Franconi et al., 2015). Nei trial per i grandi farmaci del sistema cardiovascolare vengono arruolate solo il 30% di donne (Franconi et al., 2010). Tutto ciò potrebbe essere alla base della maggior incidenza di effetti avversi che presentano le donne, rispetto agli uomini. Secondo Franconi (2015), questa maggiore incidenza degli effetti avversi nelle donne potrebbe essere causata dall’età, dalla politerapia (più frequente nelle donne, poiché prevalgono nella fascia di età superiore ai 65 anni), dal sovradosaggio (visto che il dosaggio medio è fissato per un uomo di 70 kg di peso) e dalla carenza di studi clinici.

Nella prescrizione e nella determinazione del dosaggio dei farmaci, si dovrebbero considerare tutta una serie di variabili che vanno ad incidere su farmacocinetica e farmacodinamica. L’assorbimento dei farmaci all’interno del tratto gastrointestinale può essere influenzato da vari fattori, come l’età, il sesso, l’indice di massa corporea, la fase del ciclo mestruale e il tipo di pasto consumato (Whitley & Lindsey, 2009). Secondo alcuni studi (Bennink et al., 1999; Datz et al., 1987; Gryback et al., 1996; Hermansson and Silvertsson, 1996; Hutson et al., 1989; Knight et al., 1997; Tucci et al., 1992), sebbene vi siano anche dati contrastanti (Madsen, 1992), i maschi svuoterebbero lo stomaco più velocemente sia dai liquidi, che dai solidi, così come i giovani più velocemente delle persone più anziane. Il progesterone sembra essere il responsabile del lento svuotamento gastrico delle donne. In ogni caso, lo svuotamento gastrico più lento nelle femmine non dovrebbe influenzare l'assorbimento della maggior parte dei farmaci solidi, poiché la gran parte dell'assorbimento avviene nell'intestino tenue. Dato importante, però, è che i farmaci con indice terapeutico (rapporto tra dose letale e dose efficace) ristretto possono arrecare più facilmente danno, o avere minore efficacia,

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negli individui con un lento svuotamento gastrico (Greiff and Rowbotham, 1994).

Il sistema di trasporto all’interno del tratto gastrointestinale potrebbe avere un effetto importante sull’assorbimento dei farmaci: la glicoproteina P è una proteina transmembrana che si trova sia nel fegato che nell’intestino e trasporta vari composti, tra cui i farmaci, fuori dalle cellule. Il fegato dei maschi esprime il doppio delle glicoproteine P rispetto al fegato delle femmine, il che suggerisce che i farmaci siano trasportati in maniera più rapida dall’organismo maschile, che da quello femminile, riducendo il tempo di biotrasformazione del composto (Schuetz et al., 1995).

La differenza di grasso corporeo tra maschi e femmine potrebbe concorrere all’aumento di volume della distribuzione per farmaci lipofilici, come le benzodiazepine, tra le donne e per l’alcol negli uomini (Loebstein et al., 1997; Parker, 1984; Petring & Flachs, 1990). Altro elemento importante è il livello di acqua corporea, differente tra maschi e femmine. Le donne, infatti, in media sono più basse rispetto all’uomo, hanno più tessuto adiposo e una minore massa muscolare e un minor contenuto di acqua totale rispetto alla controparte maschile, tutti elementi che possono entrare in gioco nella farmacocinetica. Inoltre, il livello di acqua corporea totale diminuisce con l’età. È importante, quindi, tenere di conto, nella creazione di possibili modelli di composizione corporea, non solo del genere, ma anche dell’età e della corporatura (Wizemann & Pardue, 2001; Sramek et al., 2016)).

Anche a livello di metabolismo all’interno del fegato, vi sono delle differenze: il temazepam e l’oxazepam, benzodiazepine che sono metabolizzate attraverso coniugazione, sono eliminate più velocemente dai maschi. L’alprazolam e il diazepam, metabolizzate attraverso meccanismi ossidativi, sono eliminate più velocemente dalle donne. Il nitrazepam, metabolizzato attraverso la riduzione del gruppo nitro, non mostra differenze (Wizemann & Pardue, 2001).

Vi sono, quindi, differenze tra farmaci anche della stessa classe farmacologica e tra farmaci con la stessa struttura.

I citocromi P450 (CYP) compongono una famiglia di circa 17 isoenzimi che modulano il metabolismo ossidativo dei farmaci nel fegato. La sottofamiglia CYP3A4 è la più pressente nel fegato umano e, secondo alcuni studi, le femmine avrebbero un’attività maggiore dei

CYP3A4, rispetto ai maschi. I farmaci metabolizzati da questa sottofamiglia sono eliminati in

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